Cassazione Penale, Sez. 4, 03 giugno 2008, n. 22165 - Polveri di amianto e nesso causale con il danno alla salute del lavoratore deceduto

 


 





FattoDiritto



M.G. e R.F. venivano imputati del reato di omicidio colposo in danno di P.S., deceduto in **** per avere contratto mesotelioma pleurico durante la sua vita lavorativa.

Ad entrambi veniva contestato di avere violato l'art. 2087 c.c. e di avere agito con imprudenza, negligenza ed imperizia, il primo in qualità di legale rappresentante della T. s.r.l. dei f.lli M., il secondo in qualità di direttore operativo e dirigente operativo della ditta F.U.S.A. Fonderie U. s.r.l. per avere consentito che il predetto dipendente lavorasse a contatto con le polveri di amianto senza le doverose protezioni idonee ad evitare che il medesimo ne aspirasse le fibre.

Dall'istruttoria risultava che il P. aveva dapprima lavorato in **** per sei mesi in fonderia e successivamente nell'edilizia dal ****, mentre dal **** aveva lavorato presso la FUSA di **** come dipendente della T. con la qualifica di collaudatore di caldaie, nonchè dal **** come dipendente della FUSA stessa, sempre con la medesima qualifica.

I primi sintomi della malattia si erano manifestati nel **** con astenia, dimagramento, dolore all'emitorace destro; nel **** dello stesso anno gli veniva riscontrato un versamento pleurico con presenza di cellule sospette; nel **** l'esame istologico di una grossa placca non lasciava dubbi sulla diagnosi di mesiotelioma maligno epiteliomorfo.

L'INAIL, a far data dal novembre 1998, gli riconosceva una rendita del 100%.

Nonostante la sottoposizione a pleuro-pmeumonectomia ed a successivo trattamento la malattia riprendeva virulenza nel **** e senza soluzione di continuità progrediva sino alla sua morte presso l'ospedale di ****.

Gli imputati, tratti a giudizio avanti il Tribunale di Udine, con sentenza pronunciata il 25.10.2005, venivano dichiarati colpevoli del reato loro ascritto e, concesse e attenuanti generiche dichiarate prevalenti sulla contestata aggravante, condannati ciascuno alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite alle quali veniva riconosciuta una provvisionale di L. 50.000.

La condanna risarcitoria veniva pronunciata in solido anche a carico del responsabile civile rappresentato dal liquidatore della FUSA. Avverso detta decisione proponevano appello sia gli imputati, che il responsabile civile nonchè la stessa parte civile.

I primi chiedevano l'assoluzione dal reato, l'esclusione dell'aggravante e la diminuzione della pena, mentre la parte civile chiedeva la condanna dei predetti al pagamento della somma di Euro 295.000,00 a titolo di danno patrimoniale e non patrimoniale.

La Corte di Trieste affermava che non vi era dubbio in ordine alla causa del decesso, dovuta all'inalazione delle fibre di amianto che, insediandosi negli alveoli polmonari, avevano determinato l'insorgere della malattia, come risultava dal percorso della stessa sino all'esito infausto finale. Più delicato era, invece, stabilire se l'insorgere della medesima fosse addebitabile all'ambiente di lavoro in cui il P. aveva operato alle dipendenze delle due ditte di cui gli imputati erano responsabili, in quanto per un considerevole lasso di tempo il predetto lavoratore aveva potuto avere contatto con l'amianto anche durante l'attività svolta in Germania in cui aveva prestato la propria opera in fonderia e nel campo dell'edilizia.

Risultava tuttavia che dal 1982 al 1989 il P. venne addetto presso lo stabilimento della FUSA, nella sua qualità di collaudatore di caldaie, ad una sorta di catena di montaggio che le assemblava;

nel corso di tali operazioni sulle caldaie veniva installate delle portelle all'interno delle quali veniva applicato un pannello di amianto; inoltre le portine e venivano rifinite con una guarnizione costituita da una cordella di fibra di amianto.

Per effettuare queste operazioni talvolta era necessario rifilare con un taglierino il pannello e era anche necessario tagliare la cordella, per cui certamente si producevano degli sfidri che provocavano la diffusione nell'aria di fibre di amianto, tanto più che dette attività venivano svolte a secco.

Il P. era addetto alla prova idraulica, ma questa era inserita nella catena di montaggio in cui una squadra di operai veniva disposta a seconda del tipo di lavoro ed in cui poteva succedere che chi aveva più tempo aiutava un collega nelle sue specifiche operazioni, per cui era possibile il contatto con l'amianto.

La FUSA produceva caldaie a gas e caldaie a gasolio e solo in queste ultime veniva utilizzato l'amianto e non sempre vi era necessità di ridurre il pannello da posizionare all'interno delle stesse, per cui secondo la difesa, in considerazione di ciò e delle mansioni svolte dal P., il suo rapporto con tale materiale era esiguo.

Inoltre la difesa del M. sosteneva che i lavoratori facevano uso dei mezzi di protezione individuale come le mascherine ed i guanti, le scarpe, gli elmetti, mentre l'ambiente di lavoro non poteva dirsi contaminato in quanto la preparazione delle portelle veniva effettuata fuori dal reparto di montaggio in cui operava il P. e prima dell'uso i pannelli e le piastre veniva conservate sotto una pensilina all'esterno del capannone, debitamente protette dalle confezioni.

In relazione all'uso delle protezioni la corte triestina richiamava le deposizioni dei testi che non confermavano le dichiarazioni di alcuni di loro, per cui si erano creati due fronti: quello dei dirigenti o delle posizioni apicali che descrivevano in un certo modo il luogo di lavoro e l'uso delle protezioni e quello degli operai che fornivano un'immagine diversa, in cui in sostanza i lavoratori, privi di formazione sul pericolo delle inalazioni delle fibre di amianto, non usavano sempre le protezioni individuali; in cui le polveri non venivano abbassate con gli aspiratori, nè con operazioni a bagnato; in cui nemmeno i medici di fabbrica erano a conoscenza dell'utilizzo dell'amianto.

In considerazione di ciò la corte d'appello riteneva che non vi fossero dubbi sotto il profilo della condotta colposa degli imputati.

Quanto alla sussistenza del nesso di causa tra le lavorazioni cui il P. era addetto e la patologia che ne determinò la morte le difese sostenevano che nell'istruttoria non erano emersi elementi sufficienti a dimostrare che quella specifica esposizione era stata l'antecedente concreto che aveva innescato o favorito l'aggravamento della malattia. Con grandissima probabilità, secondo la difesa, essa era stata contratta in ****, avendo ivi il P. inalato la "dose innescante", superata la quale, il rischio di sviluppo della neoplasia è indipendente dall'entità e dalla durata dell'esposizione.

La corte confermava il giudizio espresso sul punto dal tribunale:

anche se manca la determinazione della data di insorgenza della patologia sussiste rapporto di causa quando, come in questo caso, l'omesso intervento abbia determinato l'anticipazione e l'aggravamento dell'evento in modo significativo. L'abbattimento dell'esposizione avrebbe consentito un effetto positivo sui tempi di latenza o di insorgenza della malattia mortale.

Basandosi sulla perizia in atti la corte, anche se riteneva impossibile stabilire il momento di insorgenza della malattia, cosicchè non si poteva escludere che questa fosse insorta in ****, affermava che tutto il periodo della successiva esposizione in **** aveva avuto una efficienza causale nell'aggravare la trasformazione tumorale della cellula alterando i meccanismi biologici di riparazione, abbreviando i tempi di latenza ed accelerando quindi l'evento morte.

Con riferimento ai motivi d'appello relativi alla non prevedibilità dell'evento il giudice di merito contrapponeva le dichiarazioni del perito e degli stessi consulenti tecnici di parte secondo i quali erano gli effetti cancerogeni dell'uso dell'amianto.

Prima del divieto contenuto nella L. n. 257 del 1992,  l'uso dell'amianto era consentito solo previa adozione di misure di prevenzione idonee a ridurre al massimo l'esposizione attraverso filtri nell'ambiente, cambio d'aria, lavorazioni non a secco ed era noto che la sua pericolosità era anche in lavorazioni marginali.

Nello stabilimento della FUSA, invece i presidi adottati erano primitivi; non si usavano i respiratori con filtro antipolvere ma semplici mascherine, non si bonificavano guanti e tute, non si evitava di usare pannelli sovradimensionati e cordicelle da tagliare, non si effettuavano lavorazioni a bagnato, non si ripulivano gli ambienti con aspirapolvere, ma con scope con ulteriore dispersioni delle polveri.

In ordine alle posizioni individuali degli imputati, di fronte alla contestazione della mancanza di una delega di funzioni in materia antinfortunistica la corte sottolineava che egli era l'unico dirigente presente presso la FUSA ed era il responsabile come direttore generale di tutte le operazioni per le quali aveva autonomia gestionale e considerevole potere di spesa, tra l'altro anche per i rapporti con l'INAIL e gli acquisti del materiale antinfortunistico.

Egli, dunque, essendo un dirigente, rientrava nelle categorie cui si indirizzano le prescrizioni del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 in tema di igiene dell'ambiente di lavoro, formazione dei lavoratori e tutela dei medesimi dai rischi del lavoro.

Il M. rispondeva per la sua posizione all'interno della T. essendo amministratore delegato con pieni poteri sulla base della stessa certificazione della Camera di Commercio.

La corte d'appello respingeva inoltre la censura di carenza di correlazione tra il capo di imputazione e sentenza perchè il primo non faceva menzione, a differenza della sentenza, della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, essendogli contestato solo la violazione dell'art. 2087 c.c., pur non essendo egli imprenditore Secondo la corte, invece, il richiamo all'art. 4, citato decreto valeva ad individuare i soggetti cui spettano gli obblighi di prevenzione, mentre rispondono della violazione dell'art. 2087 c.c., non solo gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti menzionati nell'art. 4.

Respingeva infine i motivi di doglianza riguardanti la misura della pena; dichiarava inammissibile l'appello incidentale del responsabile civile e rigettava l'appello della parte civile, negando che vi fossero gli elementi sufficienti per una liquidazione immediata, sia pure in via equitativa, del danno che il primo giudice aveva riservato al giudice civile.

Avverso detta decisione, assunta in data 24.4.2007 hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati che chiedono l'annullamento della medesima.

Essi deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 40 c.p. in ordine alla sussistenza del nesso causale; mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione; inosservanza delle norme processuali a pena di nullità, inutilizzabilità inammissibilità e di decadenza sotto il profilo dell'art. 526 c.p.p., comma 1, art. 191 c.p.p., comma 1. Sotto il profilo della sussistenza del nesso causale contestano la validità della teoria multistadio della cancerogenesi secondo la quale tutto il periodo della esposizione ha una sua efficienza causale nell'aggravare la trasformazione tumorale della cellula; teoria fatta propria dai giudici di merito.

Secondo la difesa degli imputati la corte d'appello avrebbe accertato il nesso causale attraverso una legge di copertura inesistente, avendo travisato le dichiarazioni dei periti che si sono espressi non in termini di certezza, ma di semplice aumento del rischio.

Equiparare l'aumento del rischio al concetto di condizione necessaria contrasta con i principi affermati dalle Sezioni Unite.

Inoltre altro errore compiuto dalla corte d'appello consiste nell'utilizzare come legge di copertura la teoria multistadio della cancerogenesi che costituisce uno studio non condiviso da tutti nel modo scientifico ed altresì nel riportarla come condivisa dai consulenti di parte che al contrario, pur dandone atto della sua esistenza, hanno dichiarato non esservi prove sufficienti per ritenerla sicuramente fondata. La difesa sottolinea anche la contraddittorietà insita nella motivazione in relazione alla sussistenza del nesso causale in quanto da una parte la corte territoriale riporta il richiamo contenuto nella Direttiva CEE che afferma come non sia possibile, per le attuali conoscenze scientifiche, stabilire una soglia al disotto della quale l'esposizione all'amianto on comporta il rischio di neoplasia e dall'altra ne trae la conseguenza che la riduzione delle polveri avrebbe consentito di evitare l'insorgenza della malattia.

Pertanto il ragionamento controfattuale non porta a sostenere il nesso, ma porta ad escluderlo o conduce ad un esito molto incerto per poterne sostenere la sussistenza.

In ordine all'elemento psicologico deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 42 e 43 c.p. ed erronea applicazione dell'art. 2087 c.c.; mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione;

inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, decadenza sotto il profilo dell'art. 526 c.p.p., comma 1 e art. 191 c.p.p., comma 1.

Sostengono i difensori che la misura della diligenza dovuta la cui inosservanza costituisce colpa, è rapportata alla prevedibilità dell'evento.

La prevedibilità di un evento può essere formulata quando al momento della condotta sussistano leggi scientifiche di copertura le quali permettano di stabilire gli effetti che conseguono ad una certa condotta.

Non è giuridicamente corretto addebitare all'imputato un evento sulla base di una norma introdotta allo scopo specifico di evitare una serie di eventi, sia pure incidenti sull'integrità fisica, diversi da quello verificatosi e la cui possibilità di verificazione non costituisca patrimonio scientifico consolidato. In questo caso l'autore dell'omissione risponderebbe per conseguenze che egli non si rappresentava.

Del tutto inutile, pertanto, sarebbe l'indagine sugli effetti nocivi dell'amianto relativa alle conoscenze all'interno della comunità scientifica, perchè l'indagine doveva essere condotta all'interno delle conoscenze dell'imprenditore medio. Se nel 1992 è stato del tutto escluso l'uso dell'amianto, ciò significa che quando esso era consentito a determinate condizioni di tutela, queste non sarebbero state sufficienti ad eliminare il rischio del cancro, per cui il rispetto della regola cautelare, ai fini dell'impedimento dell'evento, deve considerarsi irrilevante.

In ordine alla condotta i ricorrenti deducono inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 42 c.p. in relazione alla causalità della colpa e dell'art. 2087 c.c.; mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione.

La corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che la società produceva 40/50 caldaie grandi e 100 piccole al giorno, perchè questo corrispondeva alla produzione di 46.800 caldaie all'anno, laddove i testi avevano riferito che annualmente la produzione era di circa 1000,1550 caldaie a gasolio.

Inoltre la corte non da conto di quanta fosse l'esposizione all'amianto da parte del P., pur essendo rilevante la diversa misura di inquinamento ambientale e di esposizione personale.

Ulteriore errore e travisamento del fatto era insito nella valutazione delle dichiarazioni del teste C.G. il quale riferiva in ordine ai tempi di esposizione all'amianto, ritenendo che lo stesso avesse rapportato i giorni in cui si veniva a contato con l'amianto nell'arco dei 22 giorni mensili lavorativi, mentre questi non li voleva riferire a tutti i mesi e certamente non all'intera giornata lavorativa.

In sostanza il contatto con l'amianto vi era per pochi giorni nel mese e comunque per poco tempo in dette giornate; si trattava di un contatto saltuario e ciò era stato riferito più o meno nello stesso modo da tutti i testi interrogati sul punto.

Errata interpretazione delle dichiarazioni dei testi emergeva anche dalle considerazioni circa la partecipazione del P. al lavoro di allestimento delle portine delle caldaie, circostanza che andava esclusa in quanto egli era addetto al collaudo e solo in forma molto saltuaria poteva avere dato una mano in altre attività, come il completamento delle portine.

Peraltro, secondo la difesa la corte aveva fatto un cattivo uso, come il primo giudice, delle deposizioni per avvalorare la tesi del forte inquinamento ambientale, circostanza che si doveva escludere sia perchè l'amianto veniva lavorato in casi residuali, sia perchè vi erano delle protezioni, come mascherine che venivano usate di regola.

La corte mostra di non credere alle dichiarazioni di alcuni testi che sono in questo senso e giustifica la loro inattendibilità con la loro posizione per cui possono essersi sentiti in pericolo di contestazioni penali, mentre vi era negli atti la controprova della loro buona fede, dal momento che agli addetti al reparto venivano date ben ventitre mascherine alla settimana a ciascuno, trattandosi di mascherine monouso e ciò confermava il regolare ed elevato uso delle protezioni, come da loro dichiarato.

Quanto alle posizioni individuali il M. deduce violazione di norma penale e vizio di motivazione perchè la corte si era limitata a richiamare le argomentazioni svolte dal primo giudice anzichè rispondere alle censure contenute nell'atto di appello, non tenendo conto che egli non si era mai occupato dell'appalto con la FUSA e che tre erano i titolari legali rappresentanti della società. Pertanto la corte triestina non aveva considerato che all'interno di una grossa impresa vi è una divisione e definizione dei compiti e che andava verificato in concreto se il legale rappresentante nei cui confronti era legittimo iniziare l'indagine, fosse in sostanza l'effettivo titolare della posizione di garanzia o vi fosse altro soggetto che avesse assunto tale ruolo.

Il R., che contesta di essere stato il responsabile della sicurezza, mancando una delega che viene affermata solo dal teste D., poco credibile perchè era il datore di lavoro in qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione della FUSA, sostiene che non gli si può addebitare la violazione dell'art. 2087 c.c. perchè egli non aveva la posizione di potere affermato nella sentenza impugnata.

I suoi compiti erano circoscritti al reperimento di nuovi clienti,alla formazione dei prezzi di vendita; dunque come dirigente aveva una competenza solo commerciale e non poteva essergli riconosciuto un ruolo in campo antinfortunistico solo perchè una volta aveva provveduto a far collocare in stabilimento dei cartelloni di quel genere.

I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.

I fatti di causa sono chiaramente esposti nella sentenza impugnata e riguardano la morte del quarantottenne P., collaudatore di caldaie, addetto ad una specie di catena di montaggio in cui egli prestava tale mansione nell'ambiente di lavoro della FUSA, sito a ****, dapprima come dipendente della ditta T. e successivamente come dipendente della FUSA Fonderie U..

La corte d'appello triestina spiega anche come non si possa dubitare della causa della morte in quanto i primi sintomi del mesotelioma pleurico erano apparsi nel 1998, le cure non avevano impedito l'aggravarsi della malattia, l'Inail l'aveva riconosciuta come malattia professionale.

Altrettanto pacifico è la circostanza relativa alla presenza di uso di amianto in alcune lavorazioni riguardanti le caldaie a gasolio ed il fatto che detta utilizzazione provocava il disperdersi delle fibre ed il formarsi delle polveri facilmente inalabili sia da parte di chi operava direttamente sulle caldaie in questione, sia da parte di chi entrava nella catena di montaggio, trovandosi nello stesso ambiente.

Nonostante le censure relative alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito nemmeno i ricorrenti hanno potuto smentire l'esposizione del P. alle fibre di amianto, anche se ne hanno ridimensionato la portata sottolineando alcune sfasature della valutazione operata dai giudici sui dati tecnici delle lavorazioni, come la quantità di tempo dedicata alle operazioni con l'amianto e la quantità di produzione delle caldaie a gasolio.

La corte ha preso in esame le varie censure che vengono riproposte in questa sede ed ha tenuto in considerazione il fatto che il P. svolgeva in principalità le mansioni di collaudatore, quindi era addetto alla prova idraulica; ha tuttavia richiamato le dichiarazioni dei testi in base alle quali risultava che quando era necessario gli uni aiutavano gli altri, esponendosi alle polveri di amianto durante l'allestimento delle portine internamente foderate di piastre di amianto e rifinite con un cordolino della stesso materiale, tagliato su misura sul posto; operazioni tutte effettuato a secco, in contrasto con le norme di cautela che all'epoca non vietavano l'uso dell'amianto ma prescrivevano varie modalità di tutela della salute.

Tre sono i punti trattati dalla corte d'appello che vengono puntualmente riproposti in questa sede: le modalità della condotta agli effetti della colpa con particolare riguardo alla conoscenza, all'epoca dei fatti, da parte dell'imprenditore e dei dirigenti, degli effetti cancerogeni e letali dovuti all'inalazione di fibre di amianto; l'insorgenza della malattia e l'efficacia causale della esposizione durante il lavoro prestato presso lo stabilimento della Fusa; la posizione di garanzia degli imputati.

I ricorrenti deducono vizi di motivazione ed errata interpretazione delle norme penali che regolano la materia, sia in tema di colpa che di sussistenza del nesso di causa tra la condotta non corretta e l'evento, ma in sostanza non introducono alcun nuovo elemento di riflessione che non sia stato oggetto della disanima dell'appello.

In ordine alla carenza di presidi contro gli effetti dell'amianto la corte non ha escluso che alcuni testi abbiano dichiarato che si utilizzavano sempre le mascherine e che vi fossero guanti di vario materiale a protezione, ma ha spiegato le ragioni per le quali sul piano della ricostruzione fattuale sia da dare maggiore credito ai testi che hanno negato un uso costante di tali misure ed hanno dichiarato di non avere avuto alcuna formazione. Ha spiegato che queste tutele non erano sufficienti: le mascherine erano di carta, non vi erano caschi auto ventilati e nelle condizioni di lavoro guanti, occhiali e maschere davano fastidio perchè faceva caldo. La mancanza di informazione e formazione rendevano i lavoratori ben poco sensibili alla necessità di proteggersi dalle polveri. Nemmeno i medici di fabbrica erano stati messi a conoscenza dell'uso a secco dell'amianto.

Le condizioni erano veramente poco tutelanti perchè nell'ambiente adibito all'assemblaggio delle caldaie trattate con l'amianto si poteva anche mangiare ed era installata una macchinetta per preparare il caffè. Quanto alla dotazione delle maschere la corte ha fatto i conti, osservando che la disponibilità di 750 mascherine al mese, di fronte ad una cinquantina di operai non consentiva di credere che quelli addetti al reparto assemblaggio potessero disporne di un grande numero al giorno, perchè ne sarebbero rimasti sguarniti gli addetti alla fonderia.

In sintesi, il sostanziale silenzio circa l'uso dell'amianto non aveva consentito di rilevare le carenze dovute alla sola presenza di due aspiratori, all'uso della scopa per le pulizie anzichè dell'aspirapolvere, alla mancanza di lavorazioni a bagnato anzichè a secco, ai controlli medici riguardanti il rischio da amianto.

Di fronte alla consistenza di questi argomenti le censure contenute nei motivi dei ricorsi acquistano una pregnanza marginale.

Il giudizio in ordine alle omissioni, alla carenza di controlli e dotazioni dispiega tutta la sua valenza e lascia ben poco spazio alle contestazioni.

Quanto alla sussistenza del nesso di causa la corte segue le conclusioni del perito che onestamente non esclude che la dose innescante possa essere stata assunta durante il lavoro del P. svolto in **** ove lo stesso poteva essere stato a contatto con l'amianto sia in fonderia che nei lavori edilizi.

La degenerazione delle cellule ha uno sviluppo estremamente lento, tanto che si parla di tempi di latenza dell'ordine di qualche decennio e nelle prime fasi i sintomi sono del tutto inavvertibili, per cui è impossibile determinare il momento nel quale la respirazione delle fibre del prodotto abbia causato la genesi della malattia.

Tuttavia, anche di fronte alla mancanza di determinazione del momento iniziale la corte, come il primo giudice, ravvisa la sussistenza del nesso di causa in quanto la scienza medica riconosce un rapporto esponenziale tra dose cancerogena assorbita determinata dalla durata e dalla concentrazione dell'esposizione e risposta tumorale.

Se fossero state adottate le doverose cautele nella lavorazione l'abbattimento delle polveri di amianto avrebbe inciso positivamente nel tempo di latenza; al contrario le contestate omissioni avevano ridotto tale tempo e di conseguenza la vita del lavoratore.

Sul punto la corte riporta alcune delle più significative sentenze di questa corte che ribadiscono questo concetto e che affermano come la prevedibilità dell'evento non significa rappresentazione precisa di quello che si verificato in tutta la sua gravità, ma conoscenza della potenziale idoneità della condotta antidoverosa di dare vita ad effetti dannosi per la salute.

Detto principio più volte affermato da questa Corte e da questa sezione va riaffermato anche nel caso in esame, essendo negli anni ottanta ben conosciuto l'incidenza negativa dell'uso dell'amianto sulla salute dei lavoratori non solo nell'ambiente scientifico e medico, ma anche in quello imprenditoriale, tenuto a dotarsi di misure di protezione ed a controllare l'uso di quelle individuali da parte dei lavoratori.

Pertanto non solo vi era una condotta esigibile che è stata violata, ma anche la possibilità di rappresentazione di un evento di danno alla salute che è sufficiente per affermare la prevedibilità di quanto è avvenuto sulla persona del P..

IL ragionamento della corte triestina che segue questa traccia è perfettamente in linea con i principi affermati da questa Corte.

Infine in ordine alla cosiddetta teoria multistadio della cancerogenesi la difesa sostiene che, trattandosi di una teoria non condivisa all'unanimità nel modo scientifico, essa non può essere utilizzata come legge di copertura che consenta di dare per provato con logica certezza la correlazione tra il periodo di esposizione all'amianto e gli effetti nocivi dello stesso e quindi la rilevanza dell'omessa adozione delle protezioni sui tempi di latenza o sull'aggravamento della malattia.

Questa corte in più occasioni (Sezioni Unite 10/7/2002, Francese; sezione 4^ n. 953 dell'11/7/2002; 12/7/2005), nel ripercorrere i fondamenti giuridici della causalità omissiva ha affermato che la spiegazione degli eventi attraverso il sapere scientifico non significa fare uso solo di leggi universali che sono molto rare, ma anche di leggi statistiche, di rilevazioni epidiemologiche, di generalizzazioni empiriche del senso comune.

La causalità omissiva presenta una complessità particolare perchè si fonda non su fatti materiali empiricamente verificabili, ma su di una ricostruzione logica, che, a differenza di quella commissiva, non può avere una verifica fenomenica.

Il rapporto si istituisce tra una entità reale, vale a dire l'evento verificatosi, ed un'entità immaginata, la condotta omessa ed il giudizio contrafattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell'evento?) serve a ricostruire la sequenza e a fondare la risposta.

Tuttavia questa risposta che deve servirsi del sapere scientifico e quindi necessita di una "legge di copertura"non va fondata solo su leggi assolute, ma anche su altre forme di sapere che comportino la possibilità di affermare con logica certezza la riferibilità della condotta omessa all'evento.

Nel caso di specie la corte territoriale, servendosi delle conclusioni e delle spiegazioni del perito, indica le conoscenze scientifiche attraverso le quali giunge ad affermare che sussiste nesso di causa tra condotta ed evento anche quando non si può stabilire il momento preciso dell'insorgenza della malattia tumorale, perchè è sufficiente che la condotta abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza.

Anche questo tipo di ragionamento è stato più avallato da questa corte perchè la riduzione dei tempi di latenza dell'esplodere del tumore incide in modo significativo sull'evento morte, riducendo la durata della vita.

La corte ha motivato sia in ordine alla gravità della condotta omissiva, sia in ordine agli effetti dell'esposizione all'amianto e con argomentazioni logiche condivisibili ha supportato il proprio convincimento relativo all'effetto utile per evitare il danno alla salute del lavoratore del doveroso abbattimento delle polveri attraverso il rispetto delle norme antinfortunistiche che anche all'epoca erano ben conosciute.

Anche se la normativa successiva al fatto porta ad escludere le lavorazioni con l'amianto perchè non è possibile escludere una sua potenziale dannosità per la salute, qualsiasi sia la soglia e le condizioni di lavoro, ciò non significa, come vuole la difesa, che la condotta gravemente omissiva della fattispecie in esame non sia rilevante perchè gli studi scientifici continuano a sostenere la sussistenza del rapporto tra quantità di esposizione e gravità del danno.

Pertanto anche tutte le censure dei ricorrenti relative al nesso di causa ed alla prevedibilità dell'evento non hanno pregio.

Infine in ordine alle posizioni di garanzia che gli imputati contestano di avere assunto, si osserva che il M. richiama i principi stabiliti anche da questa Corte in tema di divisione di compiti all'interno di imprese di rilevante consistenza, ma di fronte al dato testuale della sua posizione di legale rappresentante della società non richiama alcun atto attraverso il quale vi sia stata questa divisione di competenze.

Non spetta certo al giudice effettuare questo controllo, se non in seguito ad una allegazione specifica dell'imputato ed all'indicazione di quale sia il soggetto che ha assunto in concreto la posizione di garanzia.

Non si deve trattare di pure affermazioni, nè di nebulosi richiami a principi, ma di una chiara indicazione di persone e circostanze che possano essere verificate.

Il M. si è invece trincerato dietro una posizione negatoria, pur continuando a dichiararsi legale rappresentante della società, perfettamente al corrente della posizione del P..

La corte territoriale ha anche preso in esame le dichiarazioni del teste Ma. che ha dichiarato di non avere quasi mai visto l'imputato interessarsi dei lavori presso la FUSA, ma questo elemento è troppo labile per sostenere che vi era una delega al fratello con esclusione di responsabilità del titolare della ditta, quale egli si dichiarava negli ambienti di lavoro, durante l'ispezione INAIL ed all'autorità giudiziaria.

Perchè valga il principio dell'effettività del ruolo di garanzia occorre non solo una affermazione di esclusione di responsabilità, ma che dall'organigramma dell'impresa risulti in modo chiaro l'attribuzione dei compiti relativi alla sicurezza ad altro soggetto;

situazione che la corte ha escluso, per cui anche su questo punto la doglianza del M. deve ritenersi infondata.

Quanto al R. che contesta il ruolo di garanzia, affermando di essere stato un dirigente con pura competenza in campo commerciale e di non essere destinatario delle norme che impongono all'imprenditore di mantenere la sicurezza all'interno dell'ambiente di lavoro, la corte risponde in modo molto preciso.

Anzitutto spiega che non vi è contraddizione tra il capo di imputazione e la sentenza in quanto il richiamo al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4 vale solo ad individuare i soggetti destinatari degli obblighi di prevenzione degli infortuni e non individua alcun profilo di colpa; che in forza di tale individuazione anche i dirigenti sono tenuto all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. e che se vi sono più destinatari tutti sono tenuti al rispetto dell'obbligo.

Inoltre indica le ragioni per le quali il R. era in concreto un dirigente cui competeva anche la funzione di ottemperare i doveri previsti dalla legge in materia antinfortunistica. Pur senza fondare il proprio convincimento sulla delega espressa richiamata dal teste D., in quanto non prevista nel verbale del consiglio di amministrazione, il giudice d'appello richiama i poteri attribuiti al R., unico dirigente e di fatto direttore generale dell'unità operativa, dotato di autonomia gestionale e di potere di firma. Si occupava degli acquisti anche di materiale antinfortunistico ed aveva dato almeno una disposizione di questo tipo; aveva ricevuto una lettera sottoscritta dal Presidente del Consiglio di Amministrazione che lo delegava a tali compiti. Pertanto le censure del ricorrente sul punto non riescono a scalfire gli elementi posti a base del convincimento del giudice in ordine al suo ruolo di garanzia, nè le argomentazioni contenute nel ricorso portano elementi di novità alle sue doglianze.

L'infondatezza di tutti i motivi contenuti nei ricorsi comportano il rigetto dei medesimi e la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Per completezza si precisa che il reato loro addebitato non è prescritto in quanto le sospensioni determinano la maturazione dei termini per la prescrizione all'1.5.2008.

P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.