Cassazione Penale, Sez. 4, 03 giugno 2014, n. 22965 - Le norme antinfortunistiche sono dettate sia per i lavoratori che per i soggetti terzi


 

“Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi. Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dall'art. 4 comma 5, lett. n), d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, che, ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno, dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa” (Sez. IV, 20/4/2005, n. 11351, massima).


 

Presidente Romis – Relatore Grasso

 

Fatto

 



1. Il Gip del Tribunale di Perugia, con sentenza del 9/11/2010, condannò C.G. e G.N. alla pena stimata di giustizia, affermando, inoltre, il diritto di regresso in favore dell'INAIL, costituita parte civile, per avere causato, rivestendo la qualità d'imprenditori individuali, assuntori dei lavori di manutenzione straordinaria di un edificio per civile abitazione sito in (…), la morte del lavoratore C.D. , rimasto travolto dalla porzione di un muro, unitamente allo smottamento del terreno costituente il fronte dello scavo, mentre si trovava all'interno di una trincea scavata sotto il muro perimetrale, al fine di accogliere il calcestruzzo che ivi si sarebbe dovuto collocare, onde costituire sottofondazione per il rinforzo della base. In particolare si addebitò ai due imputati, in cooperazione tra loro, effettuando i lavori edili in periodo d'inefficacia dell'istanza di DIA, di non essersi avvalsi di un progetto esecutivo che assicurasse la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture, così da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità (artt. 71 e 64, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 6/6/2001); di non aver predisposto idonee armature e precauzioni (art. 119 comma 1 e 4 del D.lgs. n. 81 del 9/4/2008); di avere eseguito i lavori indicati nell'istanza di DIA ed altri non indicati (sottofondazioni) in assenza del prescritto titolo (art. 44, comma 1, lett. b del d.P.R. 380/01).
1.1. La Corte d'appello di Perugia, con sentenza del 10/7/2012, in parziale riforma di quella di primo grado, nel resto confermata, assolse entrambi gli imputati dal reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 280/01 perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, ridusse, di conseguenza, nella misura giudicata congrua, la pena inflitta ai due imputati dal Tribunale.
2. Avverso la sentenza d'appello C.G. propone ricorso per cassazione corredato da plurimi articolati motivi di censura.
2.1. Con il primo motivo viene denunziata violazione di legge.
Essendosi il giudice di primo grado pronunziato anche nei confronti di altri coimputati (P.M. , progettista e direttore dei lavori e Pa.Va. , proprietaria committente), rinviati a giudizio, era venuta meno la di lui terzietà e, pertanto, non avrebbe potuto, allo stesso tempo, giudicare il ricorrente. La Corte territoriale aveva errato nell'affermare che sarebbe occorso far luogo a tempestiva ricusazione, stante che l'incompatibilità era emersa solo al momento dell'emissione del decreto di citazione, contestuale alla lettura del dispositivo della sentenza di condanna.
2.2. Con il secondo motivo il C. deduce vizio motivazionale sotto plurimi profili.
a) Il ricorrente, il quale era intento alla ripulitura dell'intonaco sul lato opposto della casa, e che aveva assunto l'incombenza di svolgere lavori affatto diversi rispetto a quelli presi in carico da G.N. , neppure si era accorto che il di lui anziano padre, C.D. , si trovava nel cantiere e, in specie, presso la trincea per le sottofondazioni, alla quale stava lavorando il G. .
b) La Corte territoriale era giunta alla conclusione che tra i due imprenditori si fosse costituita una società di fatto, con reciproca consapevolezza delle attività in svolgimento, negando l'autonomia delle due imprese attraverso interpretazione forzata della testimonianza di M.G. (ASLX), che non teneva conto della circostanza decisiva che il solo utilizzatore dell'escavatore preso a noleggio era il G. .
c) Illogicamente e travisando la prova il Giudice d'appello aveva ritenuto la natura di lavoro subordinato, valorizzando le apodittiche opinioni del M. , contrastanti con altre acquisizioni probatorie (Rocchetti Sonia, Trabalza Amedeo e Scipione Ippolito per l'INAIL), eludendo del tutto il precetto di cui all'art. 192, cod. proc. pen. (era illogico reputare che la vittima, a suo tempo titolare dell'azienda, ora del figlio, ne fosse divenuta dipendente, apparendo, anzi, più plausibile che il genitore avesse continuato, a cagione dell'età, a svolgere il ruolo di titolare di fatto).
d) Del pari illogica doveva reputarsi l'esclusione dell'abnormità della condotta della vittima, la quale, mentre il G. aveva da poco iniziato la “sottofondazione”, avendo già messo in sicurezza il lato opposto del caseggiato, e prima che costui potesse fare altrettanto con l'altro lato dello scavo, “che necessariamente deve precedere la messa in sicurezza”, si era maldestramente introdotta nello scavo ancora vivo.
3. Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente denunzia violazione di legge per non essere stata esclusa la costituzione di parte civile dell'INAIL.
Ai sensi dell'art. 11 del d.P.R. n. 1124/1965 l'INAIL vanta il diritto di regresso nei confronti del datore di lavoro al fine di recuperare le somme sborsate a tiolo d'indennizzo tutte le volte in cui l'infortunio o la malattia professionale debba ricollegarsi alla commissione di un reato da parte del predetto datore di lavoro. Secondo la tesi fatta propria dal ricorrente un tale diritto non può confondersi con la comune azione di restituzione o risarcimento avanzata dalla p.c., ai sensi dell'art. 74, cod. proc. pen. All'INAIL, poiché non offesa dal reato, non è consentita una tale costituzione e può agire in regresso senza attendere l'esito del giudizio penale. “In tale ambito, in cui è evidente l'assenza di collegamento tra quanto accertato in sede penale e in sede civile, che va letta ed interpretata la Legge 123/07 ed il successivo d.gsl. n. 81/2008 che non avendo esplicitamente riconosciuto il diritto dell'istituto di costituirsi parte civile ai fini di far valere nel processo penale l'azione di regresso, non consentirebbe di riconoscere all'Inail (ex art. 2 L 123/2007 art. 61 d.lgsl. n. 81/2008 solo informata del fatto reato per il tramite del P.M.) la possibilità di scegliere tra azione penale e azione civile”.
L'INAIL depositava memoria tardiva in data 10/3/2014.

 

Diritto



4. Il primo motivo introduce censura processuale destituita di giuridico fondamento. Invero, l'incompatibilità per avere conosciuto in precedenza dei fatti di causa, alla quale fa riferimento il ricorrente, qui non ricorre affatto, in quanto il GIP ha conosciuto gli atti simultaneamente in relazione alla posizione processuale di tutti gli imputati, assumendo determinazione definitoria solo per quelli fra costoro che avevano chiesto di essere giudicati nelle forme del rito abbreviato. Con la conseguenza che è rimasta del tutto scongiurata l'evenienza di una preconcetta opinione del giudicante. Quindi, si è in presenza di una decisione pienamente legittima (di non abnormità discorreva Cass., Sez. IV, n. 40442 del 29/11/2002, Rv. 223229) emessa da giudice compatibile.
5. Il secondo motivo, in tutti i suoi profili sopra sintetizzati, è infondato.
5.1. Non assume rilievo di sorta accertare quale fosse il ruolo effettivo della vittima (se operaio dipendente, occasionale coadiuvatore, lavoratore autonomo o se spontaneo collaboratore mosso dal vincolo parentale con il coimputato), restando relegata a mera congettura, sfornita di qualsivoglia appiglio, l'insinuazione che si trattasse dell'effettivo titolare. Quel che è certo è che la povera vittima si trovava all'interno della trincea per prepararla ad accogliere il calcestruzzo e, quindi, nello svolgimento di un'attività che, quale che fosse la fonte del rapporto, non può che assumere la valenza di collaborazione lavorativa.
Peraltro, il cantiere, infatti, come tutti i luoghi di lavoro, non deve presentare pericoli per chiunque vi entri in contatto e non solo per i lavoratori; con la conseguenza che deve essere opportunamente preclusa l'accessibilità a luoghi e strutture fonti di rischio con opportune misure segreganti ed escludenti.
“Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi. Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dall'art. 4 comma 5, lett. n), d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, che, ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno, dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa” (Sez. IV, 20/4/2005, n. 11351, massima).
“In materia di prevenzione infortuni, l'art. 1 d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, espressamente richiamato dal capo 1 d.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164, allorquando parla di lavoratori subordinati e ad essi equiparati non intende individuare in costoro i soli beneficiari della normativa antinfortunistica, ma ha la finalità di definire l'ambito di applicazione di detta normativa, ossia di stabilire in via generale quali siano le attività assoggettate all'osservanza di essa, salvo, poi, nel successivo art. 2, escluderne talune in ragione del loro oggetto, perché disciplinate da appositi provvedimenti. Pertanto, qualora sia accertato che ad una determinata attività siano addetti lavoratori subordinati o soggetti a questi equiparati, ex art. 3 comma 2 dello stesso d.P.R. n. 547 del 1955, non occorre altro per ritenere obbligato chi esercita, dirige o sovrintende all'attività medesima ad attuare le misure di sicurezza previste dai citati d.P.R. 547 del 1955 e 164 del 1956; obbligo che prescinde completamente dalla individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore. Ne consegue che, ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica, ex art. 43 c.p. e, quindi, di circostanza aggravante ex art. 589 comma 2 e 590 comma 3 stesso codice, su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione” (IV, 10/11/2005, n. 2383, massima).
“In tema di omicidio colposo ricorre l'aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all'impresa, in quanto l'imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell'area della loro operatività” (IV, 7/2/2008, n. 10842, massima; cfr. anche Cass. n. 7726/2002 e n. 11360/2006).
5.2. Anche se può assumersi come possibile che all'evento possa aver concorso una distrazione, pur lieve, della vittima, deve escludersi, secondo la logica comune, la sussistenza di una condotta avulsa dallo svolgimento della mansione, abnorme e, pertanto, imprevedibile da parte del soggetto tenuto alla garanzia. Esattamente al contrario dell'assunto trattasi, invece, di un tragico evento occorso nell'esercizio e a causa dello svolgimento d'una attività integrata puntualmente nel contesto lavorativo, come tale del tutto prevedibile e prevenibile dal garante.
Può sul punto richiamarsi, fra le ultime, la sentenza di questa Sezione del 28/4/2011, n. 23292, in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le tante, v. Sez. IV, 10 novembre 2009, n. 7267; Sez. IV, 17 febbraio 2009, n. 15009; Sez. IV, 23 maggio 2007, n. 25532; Sez. IV, 19 aprile 2007, n. 25502; Sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21587; Sez. IV, 29 settembre 2005, n. 47146; Sez. IV, 23 giugno 2005, n. 38850; Sez. IV, 3 giugno 2004), la quale ha precisato che la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti a osservarne le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; abnormità che, per la sua stranezza e imprevedibilità si ponga al di fuori delle possibilità di controllo dei garanti.
Pur non potendosi in astratto escludere che possa riscontrarsi abnormità anche in ipotesi nelle quali la condotta del lavoratore rientri nelle mansioni che gli sono proprie, ove la stessa sia consistita in un'azione radicalmente ed ontologicamente lontana dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, qui la detta ipotesi, comunque, residuale, non ricorre.
Condivisamente questa Corte ha avuto modo di affermare reiteratamente l'estrema rarità dell'ipotesi in cui possa affermarsi che possa configurarsi condotta abnorme anche nello svolgimento proprio dell'attività lavorativa, escludendolo tutte le volte in cui il lavoratore commetta imprudenza affidandosi a procedura meno sicura, ma apparentemente più rapida o semplice, che non gli venga efficacemente preclusa dal datore di lavoro (Sez. IV, n. 952 del 27/11/1996; Sez. IV, n. 40164 del 3/672004; Sez. IV, n. 2614/07 del 26/10/2006).
5.3. L'asserto secondo il quale tra l'impresa del C. e quella del G. vi fosse piena e reciproca autonomia è frutto di mera ed indimostrata congettura. Al contrario, senza che possa assumere rilievo in questa sede la distinzione interna degli ambiti lavorativi, il C. e il G. avevano assunto l'impegno di provvedere all'integrale manutenzione straordinaria di un edificio di civile abitazione e sul punto la motivazione della Corte territoriale, la quale attinge alle emergenze istruttorie, è pienamente convincente. Senza necessità di giungere a configurare fra i due soggetti la costituzione di una società di fatto (conclusione, questa, alla quale approda, invece, la sentenza d'appello) non è controvertibile l'affermazione che tenuto conto della radicalità e complessità dei lavori, della minimalità delle due imprese e della mancanza di distinzioni di ruoli, non fosse realmente esistente una separazione d'incarichi e l'intreccio delle opere da effettuarsi imponeva ad entrambi, e per tutte le attività, l'obbligo dell'integrale rispetto delle norme prevenzionali.
5.4. In ragione di quanto immediatamente sopra risulta del tutto irrilevante l'addotta circostanza secondo la quale il ricorrente al momento del sinistro fosse intento alla ripulitura dell'intonaco sul lato opposto della casa. Quel che gli si contesta, infatti, è l'aver concorso alla realizzazione di opere omettendo di assicurare la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture, così da scongiurare crolli e pericoli per la pubblica incolumità.
6. Manifestamente infondata e, perciò, inammissibile, risulta la pretesa enunciata nel terzo motivo d'esclusione dal ruolo di parte civile dell'I.N.A.I.L. La legittimazione del detto ente pubblico assicurativo, siccome condivisamente già affermato da questa Corte (Cass., Sez. IV, n. 47374 del 9/10/2008, Rv. 241902), al fine di esercitare azione di regresso nei confronti del datore di lavoro, discende direttamente dalla legge (art. 2, L. n. 123/2007).
7. Tutti i reati contravvenzionali satellitari contestati, risalendo i fatti al 10/3/2009, risultano essersi prescritti dopo la sentenza d'appello, applicato il comb. disp. degli artt. 157 e 160, cod. pen. (siccome riformato ex L. 7/12/2005, n. 285).
La delibazione dei motivi sopra presi in rassegna fa escludere l'emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell'evidente innocenza dell'imputato.
Sul punto univoche si mostrano le valutazioni di legittimità. In tema di declaratoria di cause di non punibilità nel merito in concorso con cause estintive del reato, il concetto di “evidenza” dell'innocenza dell'imputato o dell'indagato presuppone la manifestazione di una verità processuale chiara, palese ed oggettiva, tale da consistere in un quid pluris rispetto agli elementi probatori richiesti in caso di assoluzione con formula ampia (Cass. 19/7/2011, n. 36064).
Il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p. quando le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile (Cass. 14/11/2012, n. 48642).
Invero, nel caso di specie, restando al vaglio previsto dal comma 2 dell'art. 129, cod. proc. pen., quanto svolto in relazione ai motivi di censura rende consequenziale la violazione delle regole cautelari presidiate dalle contravvenzioni in parola.
8. In base al principio di soccombenza deve porsi a carico del ricorrente l'obbligo di rimborsare alla parte civile le spese del presente giudizio, le quali, vista la notula, vengono liquidate nella misura di giustizia di cui in dispositivo.

P.Q.M.



Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente ai reati contravvenzionali di cui ai capi G, H, I, J, perché estinti per prescrizione e rinvia alla Corte di Appello di Firenze per la rideterminazione della pena.
Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla parte civile I.N.A.I.L. le spese sostenute per questo giudizio che liquida in complessive Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.