Cassazione Penale, Sez. 4, 10 luglio 2014, n. 30471 - Scavo non sicuro e infortunio mortale: responsabilità


 



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BIANCHI Luisa - Presidente -
Dott. CIAMPI Francesco Maria - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore - Consigliere -
Dott. SERRAO Eugenia - rel. Consigliere -
Dott. DELL'UTRI Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
C.D. N. IL (Omissis);
avverso la sentenza n. 4217/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 24/09/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/06/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Aldo Policastro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore, Avv. Sofia Cavini, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.



Fatto



1. In data 24/09/2012 la Corte di Appello di Firenze ha confermato la sentenza emessa il 31/05/2011 dal Tribunale di Pistoia, che aveva dichiarato C.D. colpevole del reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2, perchè, in qualità di datore di lavoro e legale rappresentante della Fi.Edil s.r.l., per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonchè in violazione della normativa antinfortunistica, aveva cagionato la morte del lavoratore L.F..

2. Il giudice di primo grado aveva così ricostruito la dinamica dell'infortunio: L.F. lavorava presso il cantiere edile sito in (Omissis) quale dipendente della Fi.Edil s.r.l., che stava eseguendo in appalto opere di carpenteria, lavorazione e posa in ferro e cemento armato per la realizzazione di due abitazioni bifamiliari; il lavoratore era intento a disarmare dalle tavole di legno la parte esterna di un muro in cemento armato realizzato il giorno prima e si trovava nello spazio compreso tra tale manufatto e il ciglio dello scavo eseguito in precedenza da altra ditta, che non era munito di alcuna opera di protezione; a causa di infiltrazioni da una pregressa perdita di acqua da un tubo sotterraneo, si era prodotta un'improvvisa frana che aveva travolto il lavoratore, seppellendolo.

2.1. In particolare, L.F. stava lavorando sul fronte nord dello scavo di fondazione, che aveva una profondità di 5,70 metri ed un'inclinazione vicina ai 90 gradi; tale inclinazione era stata voluta dal committente, in difformità rispetto al progetto originario, e nel Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) era stato disposto, proprio in ragione della creazione di tale parete verticale, che fosse eseguita un'opera provvisionale detta sbadacchiatura. Ritenendo che non fossero rimproverabili all'imputato i profili di colpa specifica contestatigli, in particolare l'omessa realizzazione della sbadacchiatura e l'omessa attuazione di quanto previsto in proposito nel PSC, trattandosi di opera di esclusiva competenza di chi aveva eseguito lo scavo, il Tribunale aveva ravvisato nella condotta del C. la colpa generica, consistita nell'aver scelto di far eseguire ai propri operai un lavoro ai piedi di uno scavo non messo in sicurezza, come invece previsto nel PSC.

3. Ricorre per cassazione C.D., con atto sottoscritto dal difensore, censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:

a) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e c) in relazione all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 180 c.p.p., con riferimento all'art. 157 c.p.p., comma 8 bis, e art. 148 c.p.p., comma 2 bis, ossia di norme processuali stabilite a pena di nullità.

Il ricorrente deduce di aver eccepito dinanzi al Giudice dell'udienza preliminare, al Giudice monocratico del Tribunale di Pistoia ed alla Corte di Appello di Firenze la nullità della notificazione all'imputato della richiesta di rinvio a giudizio con contestuale avviso di udienza preliminare a mezzo fax presso i difensori nonchè della notificazione, con le stesse modalità, dell'avviso di udienza preliminare ai difensori, in quanto effettuate senza un formale provvedimento autorizzatorio dell'autorità giudiziaria. I giudici di merito avrebbero respinto tale eccezione sulla base di argomentazioni erronee;

b) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e c), in relazione all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 180 c.p.p., in riferimento all'art. 161 c.p.p., comma 4, ossia di norme processuali stabilite a pena di nullità. Il ricorrente deduce di aver eccepito all'udienza del 24 settembre 2012 la nullità della notificazione del decreto di citazione per l'udienza di appello all'imputato in quanto eseguita ai sensi dell'art. 161 c.p.p., comma 4, ai difensori a seguito di un precedente tentativo effettuato nella residenza dell'imputato, in occasione del quale l'ufficiale giudiziario non aveva reperito alcuna persona in grado di ricevere l'atto. La Corte territoriale, si assume, avrebbe respinto l'eccezione sul presupposto che l'imputato avesse eletto domicilio nel luogo di residenza, laddove non risulta che egli abbia mai eletto o dichiarato domicilio in alcun atto processuale; all'epoca della notifica del decreto di citazione per l'udienza d'appello, in ogni caso, la notificazione presso la residenza era del tutto possibile, con conseguente nullità della notificazione effettuata ai sensi dell'art. 161 c.p.p., comma 4;

c) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), in relazione all'art. 589 c.p., comma 2, e del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, artt. 110 (rectius art. 100) e 118, nonchè vizio di motivazione in relazione alla qualificazione del fatto di omicidio colposo come aggravato.

Secondo il ricorrente, la Corte di Appello avrebbe travisato il fatto e le risultanze emerse nel corso del giudizio, ritenendo che il Tribunale avesse ritenuto sussistente l'aggravante della violazione di specifica norma antinfortunistica, ossia il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 100, ricostruendo il fatto come se il lavoratore deceduto stesse lavorando al disarmo della parete crollata e attribuendo all'imputato la violazione delle prescrizioni contenute in un documento antinfortunistico diverso da quello indicato nel capo d'imputazione;

d) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), in relazione all'art. 589 c.p., comma 2, e del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 100 e 118, nonchè vizio di motivazione in relazione alla qualificazione del fatto di omicidio colposo come aggravato sotto altro e diverso profilo. Secondo il ricorrente, la violazione di specifiche norme antinfortunistiche ascrittagli nella sentenza impugnata non sarebbe inerente ad obblighi di sua competenza e in ogni caso risulterebbe riferita alla violazione di prescrizioni contenute in un piano di sicurezza e coordinamento inadeguato e incomprensibile, viziando di illogicità la pronuncia, che ha ritenuto esigibile dall'imputato la condotta di attuazione del contenuto di tale piano in relazione alla parete già scavata da altra impresa, ossia una lavorazione esulante dalle competenze e dalle conoscenze del C.;

e) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) in relazione agli artt. 45 e 589 c.p., D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 100 e 118, e in relazione all'art. 530 c.p.p., comma 2, e art. 533 c.p.p., nonchè vizio di motivazione in relazione all'infiltrazione di acqua. Il ricorrente deduce che, essendo la frana conseguenza di una perdita idrica proveniente da una tubatura danneggiata dell'edificio limitrofo a quello in costruzione, avrebbe dovuto essere applicata alla fattispecie la norma di cui all'art. 45 c.p., in materia di caso fortuito idoneo ad escludere la colpa, anche generica, dell'imputato, mentre la Corte territoriale, con motivazione illogica e contraddittoria, violando la regola secondo cui la condanna è consentita solo se l'imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, avrebbe ammesso che nella serie causale dell'evento potesse essersi inserita l'infiltrazione per poi, tuttavia, concludere che l'imputato ne fosse comunque responsabile;

f) violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 62 bis, 133 e 589 c.p., nonchè vizio di motivazione in relazione alla quantificazione della pena.



Diritto


1. I motivi di ricorso concernenti la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità sono infondati.

2. Il ricorrente ripropone in questa sede la questione della nullità della notificazione della richiesta di rinvio a giudizio e contestuale avviso di udienza preliminare a mezzo fax presso i difensori nonchè della notifica, con le stesse modalità, dell'avviso di udienza preliminare ai difensori, in quanto tale mezzo di comunicazione sarebbe stato adottato senza previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, senza, tuttavia, dedurre la lesione concretamente derivatane nè l'omesso raggiungimento dello scopo dell'atto.

2.1. Occorre, preliminarmente, evidenziare che, secondo quanto emerge dagli atti, le notificazioni all'imputato sono state eseguite ai sensi dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, al difensore domiciliatario in base al disposto dell'art. 157 c.p.p., comma 8 bis, e non ai sensi dell'art. 150 c.p.p.; la precisazione è necessaria, posto che solo in tale seconda ipotesi la legge richiede espressamente che il giudice emetta decreto motivato di autorizzazione alla notificazione mediante l'impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell'atto.

2.2. Come già affermato da questa Corte in una pronuncia a Sezioni Unite, l'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, introdotto dalla L. 15 dicembre 2001, n. 438, art. 9, comma 1, lett. b), di conversione, con modificazioni, del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, costituisce la fisiologica evoluzione, in relazione alle modificazioni e diffusione dei mezzi tecnici di trasmissione degli atti intervenute nel corso del tempo, di quanto già previsto dall'art. 150 c.p.p., fin dalla data di entrata in vigore del codice di rito, in attuazione di quanto previsto dalla direttiva di cui alla legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, comma 1, n. 9, che prevedeva la "semplificazione del sistema delle notificazioni, con possibilità di adottare anche nuovi mezzi di comunicazione" (Sez. U, Sentenza n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121). Si tratta di una norma aperta che non specifica la natura dei mezzi tecnici alternativi alle ordinarie forme di notificazione, onde agevolare il compito dell'interprete in relazione all'evoluzione nel tempo degli strumenti di comunicazione.

Ma la natura innovativa di quanto previsto dall'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, emerge evidente dal raffronto tra le due norme: una prima differenza è data dalla previsione, contenuta nell'art. 150 c.p.p., comma 1, che le forme diverse di notificazione siano consigliate da "circostanze particolari", mentre la notificazione a mezzo fax al difensore non è condizionata, ad esempio, da ragioni di urgenza (Sez. 1, n. 11472 del 10/01/2011, Tassone e altro, Rv. 249602); ai sensi dell'art.150, inoltre, l'impiego, per la notificazione, "di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell'atto" deve essere stabilita dal giudice con decreto motivato, che indichi (comma 2) "le modalità necessarie per portare l'atto a conoscenza del destinatario", laddove l'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, rimette, invece, alla discrezionalità dell'autorità giudiziaria, comprendendo quindi anche il pubblico ministero, disporre che le notificazioni o (anche) gli avvisi "siano eseguiti con mezzi tecnici idonei", senza che sia necessario emettere un provvedimento che lo giustifichi (Sez. 1, n. 34028 del 14/09/2010, Ferrerà, Rv 248184; Sez. 2, n. 8031 del 09/02/2010, Russo, Rv. 246450).

2.3. Tanto sarebbe sufficiente per giudicare infondato il primo motivo di ricorso qui in esame.

3. E', tuttavia necessario aggiungere, per completezza argomentativa, alcune, ulteriori, considerazioni. Con la citata pronuncia, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121), chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale in merito alla questione "se la notificazione di un atto destinato all'imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui la consegna debba essere fatta al difensore, possa essere eseguita con telefax o con altri mezzi idonei, a norma dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis", hanno affermato che le modalità diverse di notificazione o comunicazione degli avvisi stabilite dall'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, sono utilizzabili esclusivamente per gli atti che devono essere ricevuti dai difensori, mentre le notificazioni previste dall'art. 150 c.p.p., possono essere disposte nei confronti di qualunque persona diversa dall'imputato. La previsione contenuta nell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, si è detto, è in rapporto di specialità, non solo con l'art. 150 c.p.p., con riguardo al profilo dei destinatari (Sez. 4, n. 41051 del 02/12/2008, Davidovits, Rv. 241329), ma anche in relazione all'art. 148 c.p.p., per quanto riguarda la disciplina generale delle forme e degli organi delle notificazioni. L'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, risulta, dunque, applicabile in via esclusiva per gli atti che devono essere ricevuti dai difensori e prescinde dalle prescrizioni formali dettate dal legislatore del 1988 per rendere certa la ricezione dell'atto da parte del suo destinatario, evidentemente in considerazione delle qualità professionali del difensore, nonchè presumibilmente della maggiore affidabilità dei mezzi tecnici di trasmissione degli atti intervenuta nel frattempo. La norma, peraltro, ripete sostanzialmente il contenuto di quanto già previsto dall'art. 54 disp. att. c.p.p., comma 2, per la trasmissione all'ufficiale giudiziario degli atti da notificare. Sicchè deve essere ravvisato un parallelo, di non secondaria importanza, tra l'omogeneità della disciplina prevista per la trasmissione degli atti tra organi dell'amministrazione giudiziaria e tra questi ultimi e la categoria professionale degli avvocati.

3.1. Dalla collocazione sistematica della norma nell'art. 148 c.p.p., che disciplina in generale gli organi e le forme delle notificazioni, si è desunto che il legislatore ha previsto l'uso di mezzi tecnici idonei per le notificazioni o gli avvisi ai difensori quale sistema ordinario, generalizzato, alternativo all'impiego dell'ufficiale giudiziario o di chi ne esercita le funzioni (comma 1), purchè sia assicurata l'idoneità del mezzo tecnico (Sez. 2, n. 8031 del 09/02/2010, Russo, Rv. 246450), individuando nei difensori i naturali possibili destinatari o consegnatari delle notificazioni o avvisi con l'uso di mezzi tecnici idonei sul mero presupposto fattuale che il destinatario della notificazione ai sensi dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, abbia comunicato all'autorità giudiziaria il proprio numero di telefax o lo abbia comunque reso di pubblico dominio.

3.2. Sulla base di tali considerazioni, la citata pronuncia delle Sezioni Unite ha riconosciuto all'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, natura di disposizione di carattere generale in ordine alle modalità di notificazione degli atti o degli avvisi che devono essere ricevuti dai difensori, anche nella qualità di domiciliatari, a qualsiasi titolo, dell'imputato o indagato, richiamando peraltro il dato testuale dell'art. 157 c.p.p., comma 8 bis, (aggiunto dal D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, art. 2, comma 1, recante "Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna", convertito, con modificazioni, dalla L. 22 aprile 2005, n. 60) che, nel prevedere che le notificazioni all'imputato non detenuto, successive alla prima, siano eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia, mediante consegna ai difensori, stabilisce che per "le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall'art. 148, comma 2 bis".

3.3. Investita del giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto tale ultima disposizione, la Consulta (Corte Cost. n.136 del 5 maggio 2008) ha richiamato il criterio del bilanciamento tra il diritto di difesa degli imputati e la speditezza del processo, al quale l'interprete è tenuto a conformarsi nell'applicazione delle norme in tema di notificazioni.

3.4. Con riguardo, poi, allo specifico profilo della necessità di una preventiva autorizzazione dell'autorità giudiziaria, l'evidenziata differenza tra la norma qui applicabile e l'art.150 cod.proc.pen. conduce a ritenere estranea al tema delle forme delle notificazioni, dunque inidonea ad incidere sulla validità dell'atto ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), la modalità di redazione della scelta organizzativa di carattere generale, estranea al fascicolo processuale, con cui l'autorità giudiziaria disponga che l'Ufficio utilizzi il telefax per le notificazioni degli atti ai difensori.

3.5. Può, conseguentemente, affermarsi il seguente principio di diritto: è legittima la notificazione di atti del processo destinati all'imputato, eseguita mediante consegna al difensore a mezzo telefax, il cui impiego è consentito non solo con riguardo alle notifiche al difensore in quanto tale, ma anche con riferimento a quelle destinate al suo assistito, senza la necessità che sia inserito nel fascicolo processuale un preventivo decreto di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, essendo ininfluente sulla validità dell'atto la scelta organizzativa di carattere generale in base alla quale l'Ufficio sia stato autorizzato a servirsi del telefax per le notificazioni degli atti ai difensori.

4. Giova, qui, svolgere ulteriori considerazioni di carattere generale, rilevanti ai fini della decisione, anche con riferimento al secondo motivo di ricorso, in cui si è dedotta la nullità della notificazione del decreto di citazione a giudizio in appello per erronea applicazione dell'art. 161 c.p.p., comma 4.

4.1. Dall'esame della prima censura, così come dall'esame della seconda, nonchè degli atti allegati al ricorso, risulta che, assente il C., i difensori di fiducia dell'imputato abbiano entrambi partecipato all'udienza preliminare, all'udienza dibattimentale in primo grado ed all'udienza dibattimentale in grado di appello. Non è contestato, inoltre, che i difensori di fiducia abbiano ricevuto tutti gli avvisi per le udienze e la notificazione della richiesta di rinvio a giudizio, dell'avviso dell'udienza preliminare e del decreto di citazione a giudizio in appello destinati all'imputato, loro assistito.

4.2. Una prima considerazione generale concerne il profilo del rapporto fiduciario che lega l'imputato al suo difensore, tale da implicare il sorgere di un rapporto "di continua e doverosa informazione da parte di quest'ultimo nei confronti del suo cliente, che riguarda ovviamente, in primo luogo, la comunicazione degli atti". Anche la citata pronuncia della Corte costituzionale (n. 136 del 5 maggio 2008), come ripetutamente la giurisprudenza di questa Corte, sia pure con specifico riferimento all'onere del difensore di assicurare la funzionalità degli apparecchi di cui è dotato il suo studio professionale (Sez. 2, n. 2233 del 04/12/2013, dep. 20/01/2014, Ortolan, Rv. 258286; Sez. U, n. 39414 del 30/10/2002, dep. 22/11/2002, Arrivoli, Rv 222553; Sez. 6, n. 34860 del 19/09/2002, dep. 17/10/2002, Fisheku, Rv 222578), hanno posto in rilievo l'onere di diligenza a carico del difensore che sia consegnatario delle notificazioni. Tale dovere di informazione da parte del difensore nei confronti del proprio assistito, sia pure riferito in generale alla illustrazione dei diritti e facoltà dell'imputato e degli atti che lo riguardano, era stato già affermato dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU 18/10/2006 Hermi c. Italia; Corte EDU 28/02/2008 Demebukov c. Bulgaria), potendosi fare affidamento anche su tale dovere nell'ottica di bilanciare il diritto di difesa con le esigenze di celerità del processo.

4.3. Una seconda considerazione concerne il bilanciamento tra il principio della ragionevole durata del processo ed il diritto di difesa, che trova il suo punto d'integrazione nell'accertamento della concreta lesività dell'atto asseritamente nullo in relazione all'interesse che la regola violata mira a tutelare.

4.4. Non può essere ignorato, in proposito, il particolare regime della sanatoria delle nullità non assolute concernenti citazioni, avvisi e notificazioni previsto dall'art. 184 cod.proc.pen., che permette di ritenere sanata la nullità sul mero presupposto che la parte interessata sia comparsa ovvero abbia rinunciato a comparire, privilegiando, tra i diversi scopi ai quali gli atti comunicatori sono destinati (che possono consistere anche nella predisposizione di una serie di attività difensive propedeutiche alla partecipazione all'udienza), quello della comparizione. La norma non descrive, dunque, una vera e propria ipotesi di sanatoria per il raggiungimento dello scopo dell'atto, come invece prevede in via generale per le altre nullità l'art. 183 c.p.p., lett. b), ma consente all'interprete di escludere l'invalidità processuale sul mero presupposto che il destinatario sia stato messo in grado di partecipare all'udienza.

4.5. Il compito dell'interprete è quello di bilanciare esigenze di garanzia e celerità del processo, privilegiando l'accertamento della concreta lesività della violazione delle forme del processo, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, dunque rispettosa dell'art. 111 Cost., comma 2, che stabilisce che la legge deve assicurare la durata ragionevole del processo, ed al contempo conforme al principio enunciato dall'art. 6 CEDU, che nella lettura della Corte di Strasburgo impone il bilanciamento di interessi contrapposti desumibili dalla complessità del caso concreto, dalla condotta del ricorrente e dal comportamento dell'Autorità (Corte EDU 25/03/1999, Pellissier e Sassi c. Francia). L'attuale disciplina delle notificazioni è indubbiamente ispirata all'obiettivo di evitare appesantimenti procedurali e, in particolare, le norme in tema di sanatoria delle nullità delle notificazioni, in quanto prevedono che l'imputato, pur sanando con la propria comparizione l'invalidità dell'atto, possa chiedere un termine per la difesa, sono chiaramente orientate a bilanciare i suindicati contrapposti interessi, privilegiando la celerità del processo sull'invalidità di forme del procedimento che non si siano in concreto rivelate lesive dell'interesse che miravano a tutelare, imponendo all'interprete di valutarle in tal caso alla stregua di mere irregolarità.

4.6. Sulla scorta di tali considerazioni generali, e soffermandosi sul caso specifico, se ne deve trarre il seguente principio interpretativo: posto che, in virtù del già richiamato rapporto fiduciario che lega l'imputato al suo difensore, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte la massima per cui "nel caso di nomina di un difensore di fiducia, la notificazione presso quest'ultimo è del tutto equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell'atto, alla notifica all'imputato personalmente" (Sez.6, n.938 del 10/11/2011, dep. 13/01/2012, Spinella, n.m.; Sez. 1, n. 2432 del 12/12/2007, dep. 16/01/2008, Ciarlantini, Rv. 239207; Sez. 1, n. 16002 del 06/04/2006, Latovic, Rv. 233615; Sez. 1, n. 32678 del 12/07/2006, Somogyi, Rv. 235036; Sez. 6, n. 19267 del 09/03/2006, Casilli, Rv. 234499), in difetto di qualsivoglia riferimento nel ricorso a circostanze particolari che nel caso concreto abbiano impedito tale effettiva conoscenza, costituirebbe interpretazione non conforme ai principi costituzionali sottesi alla celerità del processo (si allude alla presunzione di non colpevolezza, di cui all'art. 27 Cost., comma 2, ed alla funzione di emenda della pena, così come richiamata dall'art. 27 Cost., comma 3) negare la sanatoria della nullità della notificazione eseguita presso il difensore di fiducia sul mero rilievo del difetto delle condizioni che avrebbero legittimato tale forma di notificazione e dell'assenza dell'imputato in udienza. Tanto più ove si osservi che questa Corte ha rimarcato in più occasioni la differenza tra la notifica presso il difensore di ufficio e quella presso il difensore di fiducia, avendo ad esempio affermato che la notifica della sentenza contumaciale effettuata nei confronti del difensore di fiducia costituisce prova di una conoscenza effettiva (Sez. 1, n. 16002 del 06/04/2006, Latovic, Rv. 233615), ulteriormente precisando che "in tema di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale, ai sensi del disposto di cui all'art. 175 c.p.p., comma 2, come novellato dalla L. 22 aprile 2005, n. 60, la notificazione presso il difensore di fiducia è del tutto equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell'atto, alla notifica all'imputato personalmente" (Sez. 1, n. 2432 del 12/12/2007, dep. 16/01/2008, Ciarlantini, Rv. 239207); nella motivazione di quest'ultima sentenza è testualmente, e significativamente, precisato quanto segue: "La citata equiparazione, lungi dal ridursi ad una mera fictio iuris, è ampiamente giustificata dalla natura e dalla sostanza del rapporto professionale che intercorre tra l'avvocato difensore nominato di fiducia dall'imputato e l'imputato stesso, il quale proprio nel momento in cui da il mandato al professionista con riguardo ad uno specifico procedimento, dimostra (o conferma) di essere effettivamente a conoscenza di tale procedimento. E', pertanto, del tutto ragionevole ritenere che, anche successivamente alla nomina, il perdurante rapporto professionale intercorrente tra l'imputato e il difensore di fiducia continui a consentire al primo di mantenersi informato sugli sviluppi del procedimento e di concordare con il difensore le scelte difensive ritenute più idonee" (Sez. 4, n. 34377 del 13/07/2011, Bianco e altro, Rv. 251114).

4.7. Ulteriore conferma della correttezza di un'interpretazione che valorizzi il rapporto professionale che intercorre tra il difensore di fiducia e l'imputato, ai fini del giudizio circa la conoscenza effettiva del procedimento nel rispetto dell'art. 6 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU 10 novembre 2004 e Grand Chambre 1 marzo 2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia) e dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia Europea (in tema di mandato di arresto Europeo, Corte Giustizia 26 febbraio 2013, C-399/11), si trae anche dall'esame della disciplina del processo in absentia introdotta dalla L. 28 aprile 2014, n. 67, artt. 9 - 11, (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.

Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) che, abrogando l'istituto della contumacia, ammette espressamente che il giudice possa procedere in assenza dell'imputato qualora quest'ultimo abbia nominato un difensore di fiducia, equiparando tale nomina all'effettiva conoscenza del procedimento.

4.8. Quanto poi alle forme della notificazione all'imputato, è stato chiarito che il sistema è articolato secondo due tipologie di notificazioni. Quando si deve effettuare la prima notificazione all'imputato, che non abbia eletto o dichiarato domicilio, si deve procedere in uno dei modi consecutivi previsti dai primi otto commi dell'art. 157 c.p.p.. Una volta effettuata regolarmente la prima notificazione, se l'imputato provvede a nominare il difensore di fiducia, tutte le successive notificazioni si effettuano mediante consegna al difensore (Sez. U, n. 19602 del 27/03/2008, Micciullo, Rv. 239396). Esclusa, dunque, l'applicabilità della procedura prevista dall'art. 157 c.p.p., commi 1 - 8, riservata alla prima notificazione, (con tale intendendosi solo la prima notificazione dell'intero processo nelle sue diverse fasi, Sez. 6, n. 19764 del 16/04/2013, G., Rv. 256233), per le notificazioni successive è regolare la notificazione presso il difensore di fiducia a norma dell'art. 157 c.p.p., comma 8 bis.

5. Pur rilevando, dunque, l'erroneità della motivazione con la quale la Corte di Appello ha rigettato le eccezioni di nullità sollevate nell'atto di appello, sul presupposto che l'appello non vertesse sulla mancanza di una preventiva e generale autorizzazione alle notificazioni a mezzo fax e sul presupposto che l'imputato avesse eletto domicilio presso il luogo di residenza (anzichè sul presupposto che per le notificazioni presso i difensori l'autorizzazione giudiziale non può considerarsi requisito stabilito a pena di nullità e che le notificazioni successive alla prima possono essere eseguite presso il difensore di fiducia), si tratta in ogni caso di errori che non hanno avuto influenza decisiva sul dispositivo, comunque corretto, e che possono essere emendati a norma dell'art. 619 c.p.p., comma 1.

6. La censura concernente la qualificazione del fatto quale ipotesi di omicidio colposo aggravato è infondata.

6.1. A tal fine sarà sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che ritiene che l'aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro prevista dall'art. 589 c.p., comma 2, sia configurabile anche quando sussista violazione dell'art. 2087 c.c., in forza del quale l'imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure che, in relazione al tipo di lavoro da espletare, sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011, Tessari, Rv. 250761; Sez. 4, n. 18628 del 14/04/2010, Lascioli, Rv. 247461; Sez. 4, n. 8641 del 11/02/2010, Truzzi, Rv. 246423; Sez. 3, n.6360 del 26/01/2005, Lo Grasso, Rv. 230855; Sez. 4, n.3495 del 04/03/1994, Stellan, Rv. 197947).

6.2. Sebbene il ricorrente abbia correttamente evidenziato, in ciò ritenendosi erronea la sentenza impugnata, che il giudice di primo grado avesse escluso la sussumibilità della condotta colposa nell'astratta fattispecie della violazione delle specifiche norme cautelari contestate nel capo d'imputazione, trattasi di censura che non è idonea ad incidere sulla correttezza del dispositivo di condanna, posto che alla luce del principio sopra enunciato la sussunzione della condotta colposa nella violazione del generico precetto antinfortunistico prescritto dall'art. 2087 c.c., ha correttamente indirizzato i giudici di merito a qualificare il reato nella forma aggravata prevista dall'art. 589 c.p., comma 2.

7. Le censure concernenti il travisamento del fatto sono manifestamente infondate.

7.1. La Corte territoriale, con pronuncia che si integra con la conforme decisione del Tribunale, ha chiaramente dedotto la responsabilità dell'imputato dalla posizione di garanzia del datore di lavoro che non avrebbe dovuto consentire l'esecuzione dei lavori in una zona che non era stata messa in sicurezza, così come il giudice di primo grado aveva chiaramente attribuito all'imputato la scelta di far eseguire ai propri operai dei lavori ai piedi di uno scavo che non era stato messo in sicurezza, come previsto nel piano di sicurezza e coordinamento, ritenendo che lo stesso fosse nelle condizioni di conoscere che quel pericoloso ciglio dovesse essere protetto con un'armatura, così come prescritto nel documento per la sicurezza. Contrasta, peraltro, con il testo del provvedimento impugnato la deduzione per la quale il giudice di appello avrebbe desunto la responsabilità dell'imputato dall'aver adibito i dipendenti ad un'attività di disarmo del muro poi crollato, essendo agevolmente desumibile la coerente ricostruzione della dinamica dell'infortunio nella parte in cui si legge "la causa principale dello smottamento consiste pur sempre nella situazione di pericolo rappresentata dall'esecuzione di lavori in una zona a ridosso di una parete di terra pressochè verticale".

7.2. Con evidenza priva di decisività è la censura relativa all'erronea individuazione del documento antinfortunistico che l'imputato avrebbe dovuto osservare, considerato che risulta chiaro nelle pronunce di merito il riferimento al contenuto del Piano di Sicurezza e Coordinamento, nella parte in cui erano evidenziate le carenze strutturali dell'opera eseguita dall'impresa che aveva effettuato i lavori di sbancamento. Tale documento è stato preso in esame dal primo giudice per argomentare in merito alla prevedibilità dell'evento da parte dell'imputato, mentre è stato posto a fondamento di un preciso obbligo di garanzia anche a carico del C. nella sentenza di appello.

7.3. Nel richiamare le scarse competenze tecniche dell'imputato in materia di scavi, così come i difetti d'inadeguatezza e scarsa comprensibilità del Piano di Sicurezza e Coordinamento per denunciare il vizio di motivazione in relazione al profilo di colpa ascritto all'imputato, il ricorso tende, in realtà, ad ottenere una nuova valutazione delle emergenze istruttorie. In merito al vizio di motivazione, è opportuno ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte, hanno affrontato il tema dei limiti del sindacato di legittimità in diverse sentenze, che costituiscono il quadro di riferimento per la valutazione di ammissibilità del ricorso che denunci il vizio di motivazione. In particolare, con una pronuncia del 1995 (Sez. U, n.930 del 13/12/1995, dep. 29/01/1996, Clarke, Rv.203428) si è ritenuto che il compito del giudice di legittimità non sia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre; nel 1996 (Sez. U, n.16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv.205621) si è affermato il principio che la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica. E nel 1997 (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944) si è anche ritenuto che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.

Nel 2000 (Sez. U, n.12 del 31/05/2000, Jakani, Rv.216260) l'ambito di valutazione è stato ulteriormente messo a punto nel senso che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di Cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno, e, nel 2003 (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074) si è puntualizzato che l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi.

7.4. Esaminando, quindi, la normativa di riferimento, il Titolo IV, Capo I, del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, intitolato alle Misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili, individua i soggetti coinvolti nell'approntamento di misure antinfortunistiche nei cantieri edili (art.89), impone la designazione di un coordinatore per l'esecuzione dei lavori nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici (art. 90, comma 4), attribuisce a quest'ultimo il compito di adeguare il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all'art. 100 e il fascicolo di cui all'art.91, comma 1, lettera b), in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere, nonchè di verificare che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi piani operativi di sicurezza (art.92), impone ai datori di lavoro delle imprese esecutrici di attuare quanto previsto nel Piano di Sicurezza e Coordinamento e nel Piano Operativo di Sicurezza (art.100), disciplina gli obblighi di trasmissione dei POS da parte delle imprese esecutrici all'impresa affidata ria prima dell'inizio dei rispettivi lavori (art.101), delineando un sistema di pianificazione, organizzazione e reciproca comunicazione che i soggetti titolari di posizioni di garanzia sono tenuti a rispettare al fine di evitare che la complessità dell'opera, le distinte competenze ed il succedersi nel cantiere di opere eseguite da più imprese determinino vuoti nell'approntamento e nel rispetto delle misure antinfortunistiche. La netta posizione di garanzia che i datori di lavoro delle singole imprese esecutrici assumono, non solo rispetto alle misure antinfortunistiche relative al proprio POS ma anche, in relazione all'intero sistema al quale è funzionale il Piano di sicurezza e coordinamento, evidenzia la correttezza della motivazione della sentenza impugnata, laddove ha fondato l'affermazione di colpevolezza dell'imputato sulla violazione delle prescrizioni del PSC, ritenendo che gli fosse comunque rimproverabile l'omessa preventiva cognizione di quei rischi, prevedibili, per i lavoratori che la predisposizione di tale piano aveva la finalità di evitare.

7.5. Giova qui ribadire, in tema di colpa, il principio interpretativo già affermato da questa Sezione per cui ai fini dell'imputazione soggettiva dell'evento al soggetto agente, ai sensi dell'art. 43 c.p., la prevedibilità dell'evento dannoso, ossia la rappresentazione in capo all'agente della potenzialità dannosa del proprio agire, può riconnettersi anche alla probabilità o anche solo alla possibilità (purchè fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che determinate conseguenze dannose si producano, non potendosi limitare tale rappresentazione alle sole situazioni in cui sussista in tal senso una certezza scientifica. Tale conclusione è fondata sul condivisibile rilievo che le regole che disciplinano l'elemento soggettivo hanno funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele per evitare il verificarsi di eventi dannosi, anche se scientificamente non certi ed anche se non preventivamente e specificamente individuati. Tale possibilità deve possedere il requisito della concretezza, nel senso che è richiesta la concretezza del rischio. A maggior ragione la prevedibilità è configurabile nelle ipotesi in cui il rischio del verificarsi di un evento dannoso sia stato, come evidenziato nel caso in esame dai giudici di merito, specificamente preventivato in un documento che il datore di lavoro era tenuto a conoscere (Sez. 4, n. 5117 del 22/11/2007, dep. 01/02/2008, Biasotti e altri, Rv. 238777).

8. Nel ricorso si censura la sentenza impugnata anche con riferimento all'erronea applicazione dell'art.45 cod. pen., ma trattasi di censura infondata.

8.1. Va ricordato che il caso fortuito consiste in quell'avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d'improvviso nell'azione del soggetto e non può in alcun modo farsi risalire all'attività psichica dell'agente (Sez. 4, n.6982 del 19/12/2012, D'Amico, Rv. 254479). Come è stato già precisato in precedenti pronunce di questa Sezione, il caso fortuito si verifica quando sussiste il nesso di causalità materiale tra la condotta e l'evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l'agente non ha causato l'evento per sua negligenza o imprudenza; questo, quindi, non è, in alcun modo, riconducibile all'attività psichica del soggetto. Ne consegue che, qualora una pur minima colpa possa essere attribuita all'agente, in relazione all'evento dannoso realizzatosi, viene meno l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 45 c.p. (Sez. 4, n.1500 del 17/10/2013, dep. 15/01/2014, Colucci, Rv. 258482; Sez. 4, n. 19373 del 15/03/2007, Mollicone e altro, Rv. 236613).

8.2. La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione di tali principi. La pronuncia impugnata ha, infatti, con motivazione logicamente ineccepibile, ritenuto che la causa principale dello smottamento fosse riconducibile alla situazione di pericolo rappresentata dall'esecuzione dei lavori in una zona a ridosso di una parete di terra pressochè verticale, indipendentemente dal fatto che vi fosse o meno prova certa che lo smottamento fosse stato causato dalla perdita d'acqua di una tubatura, evidenziando per quali ragioni non potesse negarsi la concorrente colpa dell'imputato.

8.3. Per altro verso, la regola di giudizio "dell'oltre ogni ragionevole dubbio", introdotta formalmente dalla L. 6 febbraio 2006, n. 46, art. 5, mediante la sostituzione dell'art. 533 c.p.p., comma 1, è direttamente connessa al vizio di motivazione della sentenza.

Tale principio impone al giudice di procedere ad un completo esame degli elementi di prova rilevanti e di argomentare adeguatamente circa le opzioni valutative della prova, giustificando, con percorsi razionali idonei, che non residuino dubbi in ordine alla responsabilità dell'imputato. L'inosservanza della regola dell'an di là di ogni ragionevole dubbio, lasciando spazio all'incertezza ed implicando una sentenza non pienamente e razionalmente motivata in punto di colpevolezza, si traduce inevitabilmente in un vizio di motivazione. La modifica legislativa introdotta con la novella anzidetta non risulta, tuttavia, aver avuto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell'imputato. La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità, che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l'impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti. In tal senso si è espressa questa Corte (Sez. 5, n.10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579), precisando che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità (cfr. sul punto Sez. 1, n.41110 del 24/10/2011, Javad, Rv. 251507), ma negando che il principio in esame abbia mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, volto ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione necessariamente unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo in ogni caso la sua valutazione sconfinare nell'ambito del giudizio di merito. Nei medesimi termini, circa la portata del principio, si è affermato (Sez. 2, n.7035 del 9/11/2012, dep. 13/02/2013, De Bartolomei, Rv. 254025) che "la previsione normativa della regola di giudizio dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio", che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell'imputato" (conf. nn. 7036, 7037, 7038, 7039, 7040/2013). Mette conto, inoltre, sottolineare come la codificazione di tale principio abbia assunto, nella giurisprudenza della Corte, particolare rilievo nel giudizio di legittimità circa la motivazione della sentenza di appello che abbia riformato la sentenza di assoluzione in primo grado (Sez. 6,n.1266 del 10/10/2012, dep. 10/01/2013, Andrini, Rv. 254024; Sez. 2, n.11883 del 8/11/2012, dep. 14/03/2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez.6, n.8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113), anche in relazione ai principi affermati in materia dalla CEDU (Corte EDU 5/07/2011, Dan c. Moldavia, parr. 32 e 33), risultando tanto meno pertinente l'asserita violazione del principio qualora, come nel caso in esame, le motivazioni conformi delle sentenze di condanna di primo e secondo grado, integrandosi tra loro, siano rispettose dei canoni di completezza, logicità e coerenza.

9. La censura concernente la quantificazione della pena è inammissibile.

9.1. La sentenza impugnata ha fornito congrua motivazione sul punto, sottolineando l'applicazione di una sanzione determinata in misura proporzionata al fatto ed alla violazione di una specifica norma in materia antinfortunistica.

9.2. A ciò deve aggiungersi che la valutazione degli elementi sui quali si fonda la concessione delle attenuanti generiche, ovvero il giudizio di comparazione delle circostanze, nonchè in generale la determinazione della pena, rientrano nei poteri discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio, se effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui all'art. 133 c.p., è censurabile in Cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico. Ciò che qui deve senz'altro escludersi, avendo il giudice fornito adeguata e logica motivazione con riferimento alla congruità della pena irrogata in relazione alle modalità del fatto.

10. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; al rigetto consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2014