FORMAZIONE EFFICACE
Convegno OPRAM – Ancona 27 febbraio 2015

Brevi considerazioni sulla rilevanza della qualificazione dei formatori per una formazione in sicurezza davvero efficace

Intervento di Luciano Angelini
Docente di “Diritto della salute e sicurezza dei lavoratori”
Università di Urbino Carlo Bo

1. Considerazioni introduttive

Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo convegno per aver deciso di riflettere su un tema che assume un’indiscutibile centralità nell’ambito della complessa normativa posta a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Il decreto interministeriale 6 marzo 2013 sui criteri di qualificazione dei formatori, entrato in vigore da quasi un anno, è soltanto l’ultimo anello di una lunga catena di discipline nazionali e regionali, nonché di accordi e protocolli vari, che oggi presidiano la formazione per la sicurezza nei luoghi di lavoro quale obbligo penalmente sanzionato sia per il datore di lavoro sia per il lavoratore (sull’obbligo formativo per la sicurezza, Pascucci, 2014, 188 ss., Angelini, 2008).

Successivamente all’emanazione del d. lgs n. 81 del 2008, in materia di qualificazione dei formatori sono stati siglati diversi accordi istituzionali in ambito regionale (Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Sicilia, Umbria); alcune Regioni hanno anche varato puntuali disposizioni applicative degli artt. 34 e 37 del decreto (Lazio, Puglia, Liguria, Lombardia, Toscana, Umbria) (amplius, Scarcella, 2014a, 459-461). Vanno altresì ricordate due importanti circolari ministeriali (5 giugno 2012, n. 13; 10 giugno 2013, n. 10356), la prima sul contributo atteso dagli Enti Bilaterali in merito a programmazione ed erogazione della formazione, la seconda, sulle modalità di adempimento degli obblighi formativi di sicurezza posti in capo ai lavoratori sospesi dall’attività lavorativa (amplius: Scarcella, 2014, 1310-1311; Scarcella, 2014a, 462).

Un particolare interesse rivestono gli accordi Stato-Regione per la formazione dei lavoratori e per lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione (ex artt. 37 e 34, d. lgs. n. 81/2008), siglati in sede di Conferenza Stato-Regioni il 21 dicembre 2011 (come integrati dal successivo accordo del 25 luglio 2012)(su cui: Giornale, 2014, 10 ss.; Rotella, 2012, 76 ss., Gallo, 2012, 31 ss.), nei quali, da un lato, si è deciso di fissare in tre anni l’esperienza minima di insegnamento o professionale richiesta per poter svolgere l’attività di docenza e, dall’altro lato, si è chiarito che l’esperienza professionale avrebbe potuto consistere anche nello svolgimento dei compiti di RSPP, pure nel caso in cui questi fossero svolti direttamente dal datore di lavoro (Frascheri, 2013, 35; Fantini, 2012, 17).

Rispetto ai citati accordi Stato-Regioni, il decreto interministeriale 6 marzo 2013 rappresenta un punto di approdo nuovo, sicuramente più avanzato anche se non ancora definitivo, di sistematizzazione e istituzionalizzazione dell’obbligo formativo in sicurezza, da raggiungere attraverso la previsione di un livello “basico” di qualificazione dei docenti/formatori, accertato in base alle loro conoscenze, esperienze e, soprattutto, alle capacità didattiche possedute (Pascucci, 2014, 197-198; Scarcella, 2014a, 456). Alla luce dei criteri elaborati dalla Commissione consultiva permanente nella seduta del 18 aprile 2012 e riportati nell’Allegato, sono proprio queste ultime, le capacità didattiche, l’aspetto più innovativo, o meglio l’elemento su cui maggiormente ci si concentra per innalzare il grado di efficacia dei percorsi formativi in atto (Scarcella, 2013, 1312,1313). E ciò al netto delle molte incertezze, ambiguità, lacune e forse contraddizioni che il decreto e il suo allegato presentano, soprattutto quando si vanno ad analizzare approfonditamente i criteri individuati per provare il possesso dei requisiti di qualificazione richiesti ai formatori (sui criteri di qualificazione, in particolare sulla necessità che l’attività lavorativa o professionale sia effettiva e svolta in modo non episodico, vedi anche Commissione interpelli, n. 21/2014).

 

2. Formazione per la sicurezza e “organizzazione”

Sul livello di attenzione, sul potente “faro” che il decreto 81/2008 ha deciso di puntare sulla formazione non possono nutrirsi dubbi, e non soltanto per le tantissime disposizioni del Titolo I che ne trattano. Ancor più rilevante è in tal senso la nuova nozione di formazione, che la identifica come un “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori e agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili all’acquisizione di competenze necessarie allo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”. Si tratta di una nozione che della formazione ci induce a considerare come il trasferimento di conoscenze e procedure dev’essere innanzitutto utile allo svolgimento in sicurezza dei compiti in azienda e, dunque, all’identificazione, riduzione e gestione dei rischi (Giornale, 2014, 7; Ghi, 2013, 15 ss.).

Apprezzati in tale prospettiva, gli obiettivi di una formazione efficace non possono non essere strettamente legati alla realtà aziendale per la quale essa viene erogata. L’azione formativa non può limitarsi a riprodurre un modello teorico-ideale, ma, al contrario, deve riferirsi strettamente al contesto organizzativo nel quale e per il quale viene effettuata, essere capace di legarsi ai processi organizzativi concreti e alle problematiche che i lavoratori devono affrontare quotidianamente e trasformarsi in competenze (Rotella, 2012, 74).

La mentalità e il modus operandi di chi lavora, soprattutto di coloro che svolgono funzioni apicali (sulla formazione specifica per dirigenti e preposti, Pascucci, 2014, 192-194), costituisce un fattore decisivo per una buona formazione di sicurezza: il rischio che altrimenti si corre è quello di una formazione che si disperde e non incide, non arriva al lavoratore che non viene realmente aiutato a comprendere la situazione in cui opera e di conseguenza non modifica i comportamenti rischiosi. In tal senso, essa non può ridursi a un’elencazione di norme, rischi, misure di prevenzione, che pur costituiscono contenuti necessari e irrinunciabili di quel processo (Ghi, 2013, 16-17; per Giornale, 104, 8, si tratta di una formazione addirittura “incorporata” nell’attività lavorativa).

Formare alla sicurezza, mettere il lavoratore in condizioni di operare in sicurezza, chiede di suscitare innanzitutto consapevolezza e piena cognizione di quali siano le proprie mansioni, ruolo e responsabilità. Un esempio emblematico è quello del lavoratore non giovanissimo, professionalmente esperto, inserito in un contesto organizzativo molto semplice e informale tipico di una piccola o piccolissima azienda come tante ce ne sono nel comparto artigiano, abituato a pensare e a risolvere i problemi da solo, senza comunicare né il problema né la possibile soluzione, che riesce comunque a mandare avanti il suo lavoro. Seppure il problema, di fatto, viene superato, o meglio non impedisce o non interferisce sul processo produttivo, esso non è stato socializzato, dunque non si è tradotto in esperienza condivisa. Inoltre, la soluzione adottata per superarlo potrebbe generare essa stessa fonte di un diverso e comunque insidioso rischio per lo stesso lavoratore o per i suoi colleghi. Né sfugge la particolare condizione di pericolosità che potrebbe determinarsi in quei contesti in cui tutti sostituiscono tutti, nel senso che tutti sanno o almeno credono di poter fare tutto quello che serve al buon funzionamento del processo produttivo.

Ho recentemente avuto occasione di leggere le motivazioni di una sentenza del 26 maggio 2014 n. 21242 della Corte di Cassazione penale che, nel definire i contorni dell’obbligo di formazione in sicurezza incombente sul datore di lavoro (ai sensi del d. lgs. n. 626/1994), ha chiarito come si debba assicurare al lavoratore una formazione sufficiente e adeguata ‒ requisiti da valutare con riferimento al posto di lavoro occupato e alle mansioni concretamente svolte ‒ in modo tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori cui è comunque addetto, anche quelli derivanti dalla possibile destinazione occasionale a compiti diversi da quelle abituali (vedi, Scarcella, 2014a, 458: Giornale, 2014, 9).

La sentenza mi offre l’occasione di tornare a esprimere il forte convincimento che, soprattutto quando ci si trovi di fronte a micro contesti imprenditoriali, l’adempimento soddisfacente degli obblighi formativi, non diversamente da quanto accade per molti altri obblighi imposti dalla normativa di sicurezza a cominciare da quello di valutazione dei rischi, imponga un necessario percorso di elementare ma altrettanto significativa formalizzazione dell’assetto organizzativo e produttivo nel quale l’attività formativa deve essere svolta. Un tema che, nell’ambito delle attività di ricerca portate avanti dall’Osservatorio Olympus, è emerso nitidamente quando si è affrontato lo studio dei modelli di gestione e organizzazione di cui all’art. 30 del d. lgs. n. 81/2008, analizzando, in particolare, le procedure semplificate previste per la loro adozione e implementazione nelle piccole e medie imprese dalla Commissione consultiva permanente.
In estrema sintesi, quello che intendo sostenere è che anche l’adempimento dello specifico obbligo formativo potrebbe indurre le imprese a migliorare la propria struttura organizzativa, rendere più trasparenti e meglio conosciute le dinamiche operative, risolvere le criticità, migliorare la qualificazione delle risorse umane, elevando il livello di qualità complessiva del sistema produttivo aziendale. Così facendo, ci si muove correttamente nel solco suggerito dagli studiosi di psicologia del lavoro e delle organizzazioni, quando esortano a considerare che i concetti stessi di sicurezza e di salute nei luoghi di lavoro non possono essere realmente apprezzati se non valutati nella complessa dinamica organizzativa aziendale (Ghi, 2013, 19 ss.).

3. Formazione efficace e capacità didattica del formatore

Nella sentenza appena citata, la Corte di Cassazione ha anche chiarito che l’obbligo formativo non potrà intendersi soddisfatto considerando soltanto il personale bagaglio di conoscenze del lavoratore derivante dall’esperienza operativa o dallo scambio di conoscenze socializzate con i colleghi. Un tale bagaglio, di cui ovviamente non si mette in discussione l’importanza, non potrà mai giuridicamente surrogare le attività d’informazione e di formazione legislativamente previste, che andranno compiute nel rispetto dei principi e delle regole istituzionalmente definite dalla normativa vigente (Scarcella, 2014a, 458).

Allargando la prospettiva di riflessione, la Corte ci esorta a considerare come la formazione in sicurezza implichi necessariamente la progettazione di un percorso che tenga conto dei diversi stili di apprendimento dei partecipanti, usi con competenza e appropriatezza le migliori metodologie formative oggi disponibili, promuova e valorizzi le capacità dei discenti, li coinvolga attivamente favorendo un reale cambiamento di comportamento (Scarcella, 2014, 1313). Tutto ciò si pone in perfetta coerenza con quelle che sono le finalità del decreto interministeriale quando pretende che il formatore possieda una minimale qualificazione, avuto riguardo a un adeguato livello di conoscenza, esperienza e capacità didattica.

Rispetto alle discipline precedenti che si sono a vario titolo interessate di formazione in sicurezza, è sulle capacità didattiche che mi sembra ora prestarsi un’attenzione particolare, quasi a voler porre l’accento sul fatto che sarebbe da imputare all’insufficiente cura prestata sia alla progettazione dei percorsi formativi sia alle modalità didattiche normalmente utilizzate la responsabilità di una formazione scarsamente efficace (per Scarcella, 2014, 1312, la capacità didattica dei docenti costituisce il vero “punctum dolens”). La Commissione consultiva permanente, infatti, nel dettare i criteri di qualificazione definiti nell’allegato, fatta eccezione per il primo criterio per il quale è considerata sufficiente una precedente esperienza come docente esterno ‒ svolta per almeno novanta ore nell’area tematica oggetto di docenza (area normativa/giuridica/organizzativa; area rischi tecnici/igienico-sanitaria; area relazioni/comunicazione) ‒ per gli altri cinque (criteri) indica anche, in alternativa con altre esperienze comunque di “didattica sul campo”, la frequenza di un percorso formativo in didattica della durata minima di 24 ore, con esame finale, oppure l’abilitazione all’insegnamento o il conseguimento di un diploma triennale in Scienza della Comunicazione o di un Master in Comunicazione (Scarcella, 2014a, 463-464).



4. Il Datore come formatore per i suoi lavoratori

Il Decreto interministeriale consente ai datori di lavoro di svolgere attività formativa nei soli riguardi dei propri lavoratori, anche se non possono vantare il possesso del prerequisito del diploma di maturità. Tale eccezione li accomuna ai formatori che all’atto dell’entrata in vigore non posseggano anch’essi il prerequisito: essi potranno continuare legittimamente a fare formazione dimostrando di rientrare in almeno uno dei criteri definiti nell’Allegato.

Ai datori di lavoro che svolgono attività di docenza per i propri dipendenti, il decreto interministeriale riconosce un’altra agevolazione, quella di poter continuare a farlo per ulteriori 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto (18 marzo 2016), nel rispetto delle sole condizioni previste dall’Accordo Stato -regioni del 2011, qualora siano legittimati, dopo aver seguito lo specifico percorso formativo, a svolgere l’attività di RSPP ai sensi dell’art. 34 del d. lgs. n. 81/2008. Trascorsi i ricordati 24 mesi, anch’essi dovranno però dimostrare di essere in possesso di almeno uno dei requisiti indicati nell’Allegato (Gallo, 2014, 95).

La soluzione accolta dal decreto, sicuramente discutibile (Frascheri, 2013, 38, 39; Galli, 2012, 33, 34), mi sembra tuttavia non irragionevole: proponendo una graduale applicazione della nuova normativa, essa evita di creare eccessive difficoltà soprattutto ai piccoli datori di lavoro, dando loro tutto il tempo necessario a organizzarsi per adempiere correttamente l’obbligo formativo, in particolare consentendogli di individuare la migliore soluzione tra quelle offerte dalle istituzioni formative, dalle organizzazioni rappresentative, dai sistemi di bilateralità/pariteticità e anche dai propri consulenti (sull’importanza della collaborazione con gli organismi paritetici in materia di formazione, v. Fantini, 2012, 19, ma anche la Commissione interpelli, n. 14/2014).

Considero particolarmente apprezzabile, una volta assicurata l’iniziale gradualità applicativa, che anche nelle piccole imprese la formazione in sicurezza dovrà essere necessariamente erogata da un formatore che possegga, tra l’altro, adeguate capacità didattiche, capacità che l’esperienza professionale e le competenze/conoscenze di un datore di lavoro che sia stato specificamente formato a svolgere direttamente le funzioni di RSPP non sono di per sé idonee ad attestare.


5. L’istituzionalizzazione del sistema formativo per la sicurezza tra gradualità e coerenza

Molte critiche sono state comprensibilmente rivolte al fatto che i requisiti del decreto siano previsti soltanto per i formatori chiamati a erogare i corsi per lavoratori, dirigenti, preposti nonché per i datori di lavoro che possono svolgere direttamente i compiti di responsabile dei servizi di prevenzione e protezione. I formatori impegnati a progettare attività formative di ben più specifico e impegnativo rilievo, come avviene ad esempio per gli RSPP e gli ASPP, i lavori in quota, l’uso di attrezzature particolari, l’antincendio, la formazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nonché per tutte le attività di addestramento, non assoggettati alle disposizioni del decreto, continuano a osservare una normativa molto meno rigorosa (Pascucci, 2014, 197; Scarcella, 2014, 1309; Gallo, 2014, 96).

Se è indubbio che il limitato raggio di azione del decreto interministeriale costituisca un’evidente criticità per la coerenza del sistema formativo in sicurezza inteso nel suo complesso, c’è anche in questo caso un’esigenza di gradualità da considerare, che ha suggerito di non stravolgere le modalità di realizzazione dei percorsi formativi da tempo in atto in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, soprattutto di quelli a più elevato contenuto informativo/formativo (Cfr. Frascheri, 2013, 36). Infatti, mentre per la formazione di base le capacità didattiche del formatore acquistano un rilievo sicuramente decisivo, quando a essere in gioco è un percorso formativo per ruoli specifici o per attività molto pericolose, che impone di trasmettere contenuti ad alta tecnicalità, credo siano soprattutto le conoscenze/competenze e le esperienze professionali del formatore a garantire l’erogazione di una formazione davvero efficace (sulla formazione per specifici soggetti, Pascucci, 2014, 198-199).

Tutto ciò considerato, rispetto ai percorsi formativi a più elevato contenuto tecnico, la scelta del decreto interministeriale di non estendere sic et simpliciter i criteri di qualificazione definiti per i “formatori di base” appare opportuna e condivisibile. E’ peraltro evidente che, se va accertata la qualificazione del formatore di base, tanto più dovrà esserlo quella del formatore incaricato di svolgere una formazione “superiore” (Frascheri, 2013, 37; Scarcella, 2014a, 458); ed anche che, sulla scelta dei requisiti che dovranno possedere i formatori in sicurezza oggi esclusi dall’ambito di applicazione del decreto, i criteri che la Commissione consultiva permanente ha già definito non potranno non esercitare una decisiva influenza, auspicabilmente tale da determinare, a regime, la realizzazione di un sistema di regole armonico e coerente.

Riferimenti bibliografici

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