SENATO DELLA REPUBBLICA
XVII LEGISLATURA


Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro
(istituita con deliberazione del Senato della Repubblica del 4 dicembre 2013)

RELAZIONE INTERMEDIA SULL’ATTIVITÀ SVOLTA

Approvata dalla Commissione nella seduta del 10 marzo 2015

Relatrice: senatrice FABBRI

Comunicata alla Presidenza il 17 marzo 2015

INDICE

La programmazione della prima fase dei lavori
Audizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti
Audizione del presidente dell’INAIL, Massimo De Felice
Ulteriori elementi, da approfondire nel prosieguo dell’inchiesta, relativi a lavoro nero, caporalato ed esternalizzazioni
Audizione del presidente dell’ANMIL, Franco Bettoni
Audizione dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL
Audizione dell’Associazione familiari e vittime dell’amianto (AFevA)
Ulteriori elementi, da approfondire nel corso dell’inchiesta, sulla Conferenza nazionale sull’amianto del 2013
Audizione delle associazioni: Alleanza delle cooperative italiane, UNCI, COLDIRETTI, CONFAGRICOLTURA e Confederazione italiana agricoltori
Ulteriori elementi, da approfondire nel corso dell’inchiesta, in merito agli incidenti connessi all’utilizzo delle macchine agricole
Audizione dei rappresentanti di R.E TE. Imprese Italia
Audizione dei rappresentanti di Confindustria
Il primo incidente mortale all’attenzione della Commissione: le prime valutazioni sulla
governance dei controlli pubblici
Ulteriori riflessioni sulla
governance delle attività di controllo e investigative: l’Agenzia unica in materia di sicurezza sul lavoro
Le misure premiali e l’incentivazione degli incrementi degli
standard di sicurezza
La semplificazione in materia di sicurezza, finalizzata ad accrescere l’efficacia delle misure di prevenzione
Formazione e diffusione della cultura per la sicurezza
Note sulla prevenzione di genere

 

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La programmazione della prima fase dei lavori

L’Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari, tenutosi nella giornata del 16 settembre 2014, sulla programmazione relativa alla prima fase dei lavori, ha deciso di procedere all’audizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro della salute, nonché delle pubbliche amministrazioni competenti in materia (ad esempio il direttore generale dell’INAIL e il Comandante dei carabinieri per la tutela del lavoro) e delle parti sociali (sindacali e datoriali). Tali audizioni sono finalizzate ad acquisire elementi informativi sulle tematiche generali attinenti agli infortuni ed alle malattie professionali.

Si è deciso inoltre di svolgere audizioni di soggetti istituzionali e di parti sociali operanti a livello locale, in relazione ad eventuali gravi eventi infortunistici, nonché in relazione a stabilimenti produttivi con specifiche criticità sul piano degli infortuni e delle malattie professionali (ad esempio l’Ilva di Taranto). Si ritiene opportuno precisare che la Commissione non ha alcuna competenza in merito alle situazioni di inquinamento ambientale ed agli effetti che esse provocano sulla popolazione (ad esempio incidenza di tumori), mentre può intervenire in relazione ai profili inerenti alla salubrità dell’ambiente di lavoro ed alle malattie professionali dei dipendenti degli stabilimenti produttivi operanti in una certa area.

Si ritiene altresì necessario sottolineare fin d’ora la rilevanza di alcune situazioni, che costituiranno un terreno di approfondimento e di verifica da parte della Commissione, anche attraverso la creazione di appositi gruppi di lavoro. In primis, nell’Ufficio di presidenza si è richiamata l’attenzione sulle problematiche inerenti alla salubrità degli ambienti di lavoro dello stabilimento Ilva di Taranto, in riferimento al quale si effettuerà un apposito sopralluogo, presumibilmente entro il mese di ottobre.

Un ulteriore ambito di azione specifico può essere individuato rispetto alla sicurezza sul lavoro nei cantieri delle cosiddette grandi opere, tra i quali si richiama l’attenzione sui cantieri dell’Expo. Sugli stessi si è prefigurato un apposito sopralluogo da svolgere entro il mese di novembre.

Altri ambiti di intervento specifico riguardano il settore tessile, rispetto al quale le criticità inerenti ad alcuni distretti produttivi (quale, ad esempio, quello di Prato) richiederanno apposite visite in loco.
Infine, si sottolinea l’esigenza di approfondire gli aspetti legati alla presenza di amianto su luoghi di lavoro; tali situazioni destano preoccupazione in alcune aree del Paese (ad esempio in Piemonte) e richiederanno quindi appositi sopralluoghi.

Un altro strumento utile per l’acquisizione di elementi cognitivi in merito a specifici eventi infortunistici è quello della richiesta di informazioni alle competenti prefetture. Si è proceduto ad inoltrare alle competenti prefetture le seguenti richieste di informazioni: richiesta del 15 luglio 2014, indirizzata al prefetto dell’Aquila, relativa ad un incidente avvenuto il 9 luglio 2014 presso una fabbrica di fuochi d’artificio e materiale pirotecnico sita nel comune di Tagliacozzo, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta, indirizzata al prefetto di Latina il 27 luglio scorso, relativa ad un incidente avvenuto ad Aprilia il 28 luglio 2014 presso l’impianto di compostaggio della ditta Kyklos, dovuto ad esalazioni di materiale nocivo; richiesta, indirizzata al prefetto di Taranto il 10 settembre scorso, relativa ad un incidente avvenuto a Taranto il 4 settembre 2014 presso lo stabilimento Ilva; richiesta, indirizzata al prefetto di Firenze, relativa all’infortunio mortale verificatosi il 27 agosto scorso in un cantiere complementare ai lavori per la terza corsia dell’autostrada A1, presso Calenzano; richiesta del 23 settembre 2014, indirizzata al prefetto di Rovigo, relativa ad un incidente avvenuto il 22 settembre 2014 presso un impianto di smaltimento rifiuti speciali sito nel comune di Adria, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 24 settembre 2014, indirizzata al prefetto di Roma, relativa ad un incidente avvenuto il 21 agosto 2014 in un cantiere dell’ACEA nel comune di Roma, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre 2014, indirizzata al prefetto di Cremona, relativa ad un incidente avvenuto il 27 settembre 2014 presso una ditta di mangimi sita nel comune di Bonemerse, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre 2014, indirizzata al prefetto di Savona, relativa ad un incidente avvenuto il 7 ottobre 2014 presso l’interporto sito nel comune di Vado Ligure, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre, indirizzata al prefetto di Brescia, relativa ad un incidente avvenuto il 3 ottobre 2014 presso la ditta «Riva acciaio s.p.a.» sita nel comune di Cerveno, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre 2014, indirizzata al prefetto di Avellino, relativa ad un incidente avvenuto il 29 settembre 2014 ad un dipendente della Irpinia Ambiente s.p.a. nel comune di Mirabella Eclano, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre 2014, indirizzata al prefetto di Forlì-Cesena, relativa ad un incidente avvenuto il 1º ottobre in un terreno privato sito nel comune di Sala Cesenatico, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 22 ottobre 2014, indirizzata al commissario del Governo della provincia di Trento, relativa ad un incidente avvenuto l’8 ottobre in un bosco sito nel comune di Fiavé, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del commissario del Governo con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 17 settembre 2014, indirizzata al prefetto di Terni, relativa ad un incidente avvenuto il 16 settembre 2014 presso uno stabilimento delle Acciaierie speciali di Terni sito nel comune di Terni, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali; richiesta del 17 settembre 2014, indirizzata al prefetto di Massa Carrara, relativa ad un incidente avvenuto il 6 settembre 2014 presso una cava di marmo sito nel comune di Torano, per il quale è già stata trasmessa una lettera di risposta del prefetto con allegata documentazione relativa all’incidente da parte delle autorità locali.

Sulla base degli elementi emersi dalle audizioni o dalle richieste informative, l’Ufficio di presidenza integrato valuterà l’opportunità di organizzare sopralluoghi di una delegazione della Commissione, finalizzati ad approfondire in sede locale determinate situazioni. In caso di sopralluogo le competenti prefetture avranno cura, su richiesta della Commissione, di organizzare presso le loro sedi incontri con le autorità e con le parti datoriali e sindacali operanti in sede locale, nonché di organizzare la visita da parte di una delegazione della Commissione nei luoghi o negli impianti industriali in cui è avvenuto un determinato infortunio oggetto di approfondimento.

Nel corso dell’Ufficio di presidenza si è deciso di integrare l’originario schema di programma con ulteriori attività di verifica sull’area dell’Isochimica di Avellino – su proposta del senatore Romano – come pure con apposite verifiche sul lavoro agricolo e forestale – come proposto dalla senatrice Favero – ed infine sui profili inerenti alla sicurezza sul lavoro nell’ambito delle opere pubbliche, su indicazione del senatore Borioli.



Audizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti

Nella seduta del 14 ottobre 2014 è intervenuto il Ministro del lavoro e delle politiche sociali Poletti, il quale ha svolto un’ampia relazione sui temi in questione, soffermandosi tra l’altro sui profili inerenti al coordinamento e alla governance dei controlli delle pubbliche autorità competenti in materia di sicurezza, sulla necessità di ammodernamento della normativa legislativa, sugli aspetti inerenti all’utilità della formazione, nonché al ruolo strategico degli incentivi economici e delle premialità per i datori di lavoro che investono in misure antinfortunistiche, sulle problematiche inerenti alle malattie professionali e sulle strategie da promuovere in ambito europeo.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«Rivolgendo il mio saluto alla Commissione, mi associo alla considerazione della Presidente: nel momento in cui affrontiamo questo tema, dobbiamo guardare alle statistiche, ai dati e a tutto quello che ci serve per capire la dinamica di questi fenomeni. D’altra parte, ogni giorno si verificano fenomeni gravi con il decesso di persone o infortuni importanti. Questo ci fa innanzi tutto dire che fino a quando ci sarà un infortunio o una vittima, non abbiamo fatto tutto quello che andava fatto. Dobbiamo quindi guardare i dati e cercare di capire i fenomeni, avendo sempre presente che l’obiettivo è la drastica riduzione di essi e la costruzione di tutti i meccanismi volti a raggiungere tale obiettivo.

Sul versante dei dati, come sapete dalle relazioni dell’INAIL, negli ultimi anni si è registrata una riduzione di questi fenomeni e del numero delle vittime. È un elemento certamente positivo. Per quanto riguarda il 2014, l’unico dato di cui siamo possesso è quello dell’INAIL che rileva che per i primi sei mesi di quest’anno si è verificata una riduzione delle denunce pari al 5 per cento. Il fatto che si stia parlando di una riduzione delle denunce, non vuol dire però che siamo di fronte ad una riduzione delle persone coinvolte in questi fatti. In particolare, se pensiamo all’ultimo periodo, siamo purtroppo di fronte a una ripetuta situazione in cui vi sono una pluralità di vittime e di persone colpite. Questo dato quindi fa riferimento esclusivamente alla fattispecie della denuncia, ma non ci dice concretamente quante sono le persone coinvolte, la tipologia delle situazioni e i loro esiti.

L’obiettivo che il Ministero persegue è quello di migliorare tutte le condizioni per ridurre il fenomeno degli infortuni e intervenire sul tema delle malattie professionali, gestire e agire sul tema degli infortuni in itinere, che spesso anima le discussioni anche perché interviene a definire il fenomeno e a capire dove, come e quanto questa situazione incida poi sul fenomeno in quanto tale. Ricordo infatti che le statistiche vengono influenzate dalle modalità con le quali questa tipologia viene calcolata e valutata. Sono problematiche che debbono essere prese in considerazione.

Dal punto di vista delle cose che si stanno facendo e vanno fatte d’iniziativa del Ministero, il primo dato su cui si sta lavorando è quello volto a mantenere una capacità di co-azione tra tutti i soggetti che intervengono in queste situazioni. Abbiamo bisogno di un intervento legislativo, regolamentare e di controllo; abbiamo bisogno che cresca la cultura della prevenzione e l’informazione; abbiamo bisogno di un largo ventaglio di strumenti che intervengano per ottenere un buon risultato. Il nostro scopo, e la funzione prima in questo momento, è sviluppare questo sistema di relazioni e fare in modo che ci sia sistematicamente una capacità di co-agire, anche perché su questo versante ci sono responsabilità molto diffuse e situazioni che attengono sul piano della governance e della responsabilità a soggetti diversi come l’INAIL, i Vigili del fuoco e le ASL; soggetti che istituzionalmente hanno una matrice diversa. C’è bisogno quindi di riuscire a far dialogare tra loro soggetti che non hanno una filiera di governance uniforme. Bisogna trovare le modalità per svolgere questo lavoro, cercando di produrre un miglioramento qualitativo e di efficacia dell’intervento. Ricordo che, purtroppo, fino ad ora molte di queste attività sono costruite per una filiera totalmente verticale. Ogni soggetto agisce in forza di una norma che gli dà la competenza di agire, ha delle regole che deve seguire e far osservare, con dei limiti però che portano al paradosso che si va in azienda, si guarda un aspetto, ma non se ne guarda un altro perché, legittimamente e comprensibilmente, è competenza di un altro soggetto. Probabilmente però il co-agire di queste attenzioni avrebbe portato a un miglioramento di condizioni. Abbiamo quindi un problema di governance dell’insieme per raggiungere la migliore capacità comune dei soggetti di produrre queste attività.

C’è un primo pezzo di questa strategia che fa riferimento alle esigenze riferibili alla legge. Noi pensiamo sia necessario proseguire nel processo complessivo di rivisitazione e di ammodernamento delle regole della sicurezza, avendo a riferimento in particolare il decreto legislativo n. 81 del 2008 e tenendo conto del fatto che vi sono ancora alcuni elementi previsti in quel decreto che devono essere completati (è un lavoro che non è ancora finito). Contemporaneamente, però, abbiamo bisogno anche di riesaminare quei contenuti e di aggiornarli rispetto alle problematiche che oggi sono in fase di maggiore emersione. Citerei due elementi su tutti, per avere un’idea del tema sul quale dobbiamo lavorare: da un lato il cambiamento delle tecnologie e dei modelli organizzativi all’interno degli impianti produttivi e delle aziende; dall’altro lato, un effetto connesso alla scelta della riforma della legge sulle pensioni, che ci porta ad avere una presenza in azienda di persone più anziane. Ovviamente l’età non è un elemento irrilevante rispetto ai riflessi, rispetto alla capacità di attenzione e rispetto al dinamismo o alla dinamicità soggettiva. Quindi ragionare su queste cose ci porta anche a valutare questi elementi, perché possono produrre delle rischiosità ulteriori. Dunque un primo tema legislativo è completare ciò che ancora deve essere completato e riflettere per capire se ciò che abbiamo in termini normativi è adeguato o meno.

Su questo versante, c’è un tema che vorrei riprendere e che riguarda in particolare due punti: il tema della formazione e il tema della valutazione del rischio. Rispetto a queste questioni in particolare, colgo una discussione sul tema dell’efficienza e dell’efficacia degli strumenti di formazione che abbiamo in campo. Credo che qui non si debba incorrere in un errore: parliamo sempre giustamente del bisogno di semplificazione e di avere meno burocrazia. È tutto vero; bisogna però stare attenti ad evitare che una logica positiva di riduzione di adempimenti inutili finisca per mettere in discussione adempimenti indispensabili. È del tutto evidente che, se vogliamo ridurre gli infortuni, avere da parte dei lavoratori una buona formazione e una buona informazione è un elemento essenziale, perché mette le persone nella condizione di valutare il rischio e quindi di capire cosa succede in ragione dei comportamenti soggettivi individuali che si producono. Questi temi, che oggi sono regolati, possono sicuramente essere riconsiderati; dobbiamo però stare molto attenti ad evitare che il riconsiderarli in una chiave di semplificazione induca poi un effetto collaterale non voluto, quello cioè di smantellare qualcosa che invece si è dimostrato nel tempo uno degli elementi effettivi di miglioramento delle condizioni. Questo è un tema in discussione che va esaminato anche su questo versante.

Il secondo tema riguarda gli incentivi economici, cioè una premialità nei confronti delle imprese che decidono di investire sulla sicurezza e di migliorare le condizioni negli ambienti di lavoro, che investono e si impegnano sulla formazione. Sicuramente sono noti gli interventi che INAIL sta sviluppando da questo punto di vista e con questo spirito, cercando di fare in modo che si produca una condizione di attenzione da parte dell’imprenditore e dell’impresa che trovi anche un riconoscimento rispetto agli oneri per i premi INAIL.

Da questo punto di vista, ci sono alcune tematiche specifiche su cui stiamo lavorando, che riguardano la possibilità e la necessità di scegliere alcuni contesti specifici di intervento. Ne cito uno per tutti: sappiamo che nel settore dell’agricoltura abbiamo una sistematica ripetizione di incidenti legati alle trattrici e a macchine la cui produzione è datata e quindi non hanno gli elementi di tutela della sicurezza che dovrebbero avere. Con INAIL stiamo valutando – e dovremmo essere già in azione su questo versante – la possibilità di un intervento diretto di sostegno economico, perché vengano fatti i necessari interventi di messa in sicurezza di tali macchine.

C’è dunque un tema relativo alla norma, ma anche un tema teso a fare in modo che l’agricoltore esegua quel determinato intervento, anche perché l’INAIL l’aiuta a farlo. Un conto è individuare una condizione, altro conto è praticare concretamente un percorso che permetta di adeguare una trattrice di quindici anni alle tutele che deve avere, aiutando a sostenere i relativi costi. Credo che questa sia l’idea sulla quale stiamo lavorando: gli sconti sul premio assicurativo e il sistema di incentivi economici alle imprese, in particolare nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia, dove c’è questo bando per aiutare in questo senso.

C’è poi un altro tema, che riguarda le malattie professionali. In questo caso abbiamo uno specifico problema concernente l’informazione; siamo infatti in uno di quei contesti in cui la dinamica è piuttosto veloce. C’è un’evoluzione che è figlia soprattutto dei modelli organizzativi, dei materiali che si usano per le lavorazioni e le produzioni e delle tecnologie che vengono utilizzate; anche qui c’è l’esigenza di fare in modo che le persone siano informate e consapevoli. Su questo punto la raccolta dati è un elemento particolarmente rilevante perché si tratta di fenomeni non singolarmente eclatanti. Un infortunio è un dato di evidenza plateale, mentre una malattia professionale, a volte, è difficilmente identificabile e qualificabile come tale. Molte volte viene inserita all’interno di dinamiche della salute o delle malattie diverse e non riconducibili al lavoro. Da questo punto di vista, è dunque particolarmente rilevante il lavoro sul piano statistico, perché le sequenze ci aiutano a capire se un fenomeno o un processo hanno o meno una determinata connessione. Su questo tema c’è un’attenzione particolare.

Stiamo lavorando per giungere finalmente alla conclusione del sistema informativo nazionale per la prevenzione; se non riusciamo ad arrivare in porto con questo strumento, non saremo in grado di gestire molti altri argomenti. Anche se immagino che qualche altro Ministro ve l’abbia detto prima di me, quindi mi metto nell’elenco dei potenziali inadempienti, sento comunque di poter dire che questo lavoro è vicino a una conclusione, anche se abbiamo una specifica problematicità, che incontriamo molto spesso tutte le volte che interveniamo su questi versanti. Mi riferisco al tema della privacy e dell’utilizzabilità delle informazioni. Chi ha come compito la tutela della privacy è legittimamente molto cauto nel rilasciare la possibilità di utilizzazione dei dati, specialmente quando parliamo di salute. È del tutto evidente, però, che nel nostro caso, se non siamo in grado di avere a disposizione queste informazioni, il resto del lavoro perde molto del suo valore. Quindi abbiamo un ritardo, che è figlio tuttavia di un’oggettiva problematicità, molto complessa da risolvere. Speriamo e crediamo di poter affermare di essere arrivati abbastanza vicini a questo tipo di conclusione.

Non vi annoio informandovi del lavoro che stiamo facendo attraverso il comitato di pianificazione delle attività di comunicazione in materia di malattie professionali, cioè di tutti gli strumenti che la norma prevede perché ci sia, in maniera sistematica, un’azione di elaborazione e di sviluppo dell’attività.

C’è poi un tema molto chiaro, relativo alla diffusione della cultura della prevenzione.

Veniamo dalla celebrazione della Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro; abbiamo avuto modo di confrontarci con ANMIL e il lavoro che questa associazione sta facendo nelle scuole. Credo che il tema della prevenzione debba diventare sempre più un dato di tipo culturale e diffuso, sistematicamente presente all’interno dei percorsi e dei processi formativi. È certamente importante una testimonianza ed è certamente importante far vedere cosa può accadere. Se si tratta però di un fatto isolato, che si ripete una volta tanto, probabilmente non lascia il segno e non costruisce quella consapevolezza che abbiamo invece bisogno di costruire nei nostri giovani, che devono sapere che ci sono degli elementi di rischiosità, che il rischio va controllato e che perciò bisogna avere la consapevolezza e la cultura per poterlo fare in maniera adeguata. Questo è il tema della diffusione della cultura della prevenzione su cui stiamo lavorando.

C’è un altro tema su cui stiamo lavorando. Nella legge delega abbiamo ipotizzato il coordinamento delle attività di vigilanza e la possibilità di dare vita ad un’agenzia che assuma su di sé questa responsabilità. Ne ho già parlato in apertura: oggi abbiamo una larga serie di soggetti competenti e il dato di fatto è che ognuno di questi agisce legittimamente all’interno del proprio contesto normativo e dei propri modelli organizzativi. Questo produce un esito poco gradevole: la possibilità di una sistematica ripetizione di interventi presso le aziende in brevi archi di tempo. Da ciò scaturisce una reazione negativa da parte delle imprese, perché vedersi ispezionati ripetutamente in un breve arco temporale fa venire il dubbio che qualcuno abbia deciso che sei un delinquente e che vai colpito comunque. Siccome non è questa l’idea che si ha dell’impresa bisogna evitare che ciò accada.

Ma non c’è solo il problema della reazione comprensibile dell’imprenditore che vede sottoposta la propria azienda, ripetute volte nell’arco di un mese, a ispezioni di varia natura. C’è anche un problema di efficienza ed efficacia, perché ci sono fattori che, se letti contemporaneamente, aiutano a capire meglio la dimensione e la causa del fenomeno e come sia possibile agire. Il tema dell’agenzia o comunque del coordinamento delle attività di vigilanza è un altro punto su cui stiamo lavorando.

Sono in corso altre attività che riguardano, in particolare, la valorizzazione degli accordi aziendali, territoriali e nazionali e la valorizzazione del ruolo e delle funzioni degli organismi paritetici. È di tutta evidenza infatti che questa tematica deve essere oggetto di un’attenzione scrupolosa che sia condivisa da imprenditori, organizzazioni sindacali e lavoratori. Pertanto, è necessario individuare delle sedi e delle modalità per indurre la collaborazione dei soggetti interessati ad affrontare questa problematica. Diversamente, se lasciamo che l’azione di contrasto sia lasciata tutta alla funzione ispettiva e alle istituzioni competenti, è evidente che, pur avendo una sua logica e pur svolgendosi una determinata attività, non si produce il miglior risultato possibile. Stiamo lavorando dunque per fare in modo che si moltiplichino le buone pratiche, gli impegni e le risposte che in quella sede possono essere dati.

Abbiamo cercato, come Presidenza del semestre europeo, di portare questa tematica anche all’interno della dimensione europea. Ci sarà un momento di discussione con i nostri partner europei il 4 e 5 dicembre prossimi, insieme ad INAIL e alla Presidenza italiana. In tema di sicurezza sul lavoro, infatti, abbiamo sempre bisogno di conoscere le buone pratiche, capire ciò che si sta facendo in altri Paesi e mettere a confronto con essi quello che noi stiamo facendo avendo sempre presente un dato: dobbiamo comparare le normative perché ci sono elementi di competitività sbilanciata. Un’impresa alla quale viene consentito di agire in un certo contesto e di non adottare strumenti di sicurezza si trova, sul piano della competizione, avvantaggiata perché sostiene costi più bassi di produzione. Infatti, un macchinario non messo in sicurezza produce 50 pezzi in più, ma il lavoratore addetto a quel macchinario corre il rischio di subire un incidente. Se c’è una diversità di normativa a livello di singolo Paese si produce certamente un rischio per il lavoratore, ma si produce anche un ingiusto vantaggio per l’impresa che opera in quelle condizioni. Cerchiamo naturalmente di svolgere anche un lavoro di monitoraggio attento delle legislazioni nazionali per indurre a livello europeo una logica di uniformità, per avere una migliore tutela dei lavoratori e per non avere sbilanciamenti competitivi sui mercati rispetto alle diverse imprese.

Vorrei dedicare le mie ultime considerazioni ad un altro tema importante: da una parte, infatti, vi sono tutte le attività che ho illustrato, riferite al tema della prevenzione e all’obiettivo di limitare ed evitare gli incidenti sul lavoro; dall’altra, abbiamo un dato di fatto, ossia che gli incidenti avvengono e bisogna anche prendersi cura di chi è vittima degli incidenti sul lavoro e capire quali strumenti possono alleviare le sofferenze di queste persone. Da questo punto di vista siamo a fianco di INAIL perché continui un lavoro di ricerca sia rispetto agli elementi che possono ridurre gli incidenti e la loro gravità, ma anche sul versante di tutti gli ausili che possono essere messi in campo per aiutare le persone che rimangono in qualche misura menomate a seguito di incidenti sul lavoro. È un tema che riguarda le protesi, gli ausili, le tecnologie e tutti gli strumenti necessari per consentire a queste persone buone condizioni di vita. È un tema che va oltre il limitare gli incidenti e che riguarda la possibilità, appunto, di ricreare le migliori condizioni di vita per una persona che è stata vittima di un incidente.

Collegato a questo vi è il tema del ricollocamento al lavoro delle persone che hanno subito un incidente e che sono in difficoltà nel trovare una nuova opportunità di lavoro. Su questo versante dobbiamo dire che le normative in essere non danno grande prova di sé. Abbiamo un numero molto alto di persone che cercano lavoro ma non hanno l’opportunità di trovarlo. Quindi, dobbiamo interrogarci se i diversi passaggi che sono stati fatti sinora, dal collocamento obbligatorio alle altre strumentazioni che abbiamo messo in campo, siano adeguati o meno ad affrontare questa problematica. Se esaminiamo i dati di fatto, non emergono infatti buone performance e ciò significa che c’è un problema che deve essere ripreso in considerazione. Cito questo come un altro degli elementi sui quali abbiamo bisogno di lavorare.

Spero di essere stato esauriente rispetto alle tematiche che possono interessare alla vostra Commissione. Naturalmente sono a disposizione per rispondere ad eventuali domande e alle considerazioni che vorrete fare».



Audizione del presidente dell’INAIL, Massimo De Felice

Nella seduta del 28 ottobre 2014 è intervenuto il presidente dell’INAIL De Felice, il quale ha svolto un’ampia relazione sui temi in questione, soffermandosi tra l’altro sui profili inerenti agli ultimi dati statistici pervenuti – che evidenziano un calo degli infortuni sul lavoro e un trend crescente delle malattie professionali – sugli aspetti relativi alle attività di cura, riabilitazione e reinserimento effettuate dall’istituto in questione, come pure sulle attività di ricerca, su quelle di prevenzione, sulle attività ispettive – che hanno evidenziato circa l’87 per cento di aziende con irregolarità, su una cerchia di 23.000 aziende selezionate, con criteri mirati, per i controlli – e infine sul Sistema informativo nazionale integrato per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP).

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:

«Signora Presidente, l’itinerario di approfondimento che vi propongo si basa sostanzialmente su tre passi. In primo luogo parlerò rapidamente dei dati relativi agli infortuni e alle malattie professionali e delle metodologie che l’INAIL utilizza per l’analisi di tali dati. Il secondo aspetto importante riguarda la riabilitazione, il reinserimento e le attività di ricerca collegate a tali temi. Il terzo punto è relativo alla prevenzione e alle parti della ricerca che alla prevenzione si connettono.

I termini che ho utilizzato – ricerca, prevenzione, riabilitazione e reinserimento – rappresentano quattro ambiti strettamente collegati all’origine storica dell’Istituto e cioè all’attività di assicurazione. Avere una ricerca finalizzata – che noi stiamo tentando di realizzare con l’incorporazione di ISPESL e con il processo di riorganizzazione – consente di definire strumenti e processi al servizio della prevenzione, della riabilitazione e del reinserimento, che siano efficaci.

Inoltre, va considerato che la ricerca è strumentale anche alle attività di prevenzione e che tali attività, qualora siano forti e robuste, consentono una riduzione dell’impegno nel campo della riabilitazione e del reinserimento e, di conseguenza, anche una riduzione dei costi sanitari e degli oneri per prestazioni assicurative. Abbiamo tenuto conto di questo insieme di ambiti di attività, che spero di aver ben rappresentato e che sono strettamente correlati, in tutto il piano di riorganizzazione che l’INAIL ha avviato e che la tecnostruttura sta portando avanti sin dallo scorso anno.

Per quanto riguarda i dati sugli infortuni e sulle malattie, per realizzare analisi tempestive sull’andamento di questi fenomeni utilizziamo, dallo scorso anno, l’insieme dei dati pubblici, cioè quelli che abbiamo definito sul nostro sito open data. Trattiamo infortuni e malattie caso per caso, quindi la pubblicizzazione (ovviamente con tutte le accortezze relative alla privacy) è molto dettagliata. Vorrei puntualizzare, comunque, che i dati relativi agli infortuni sono pubblici, come dicevo, dallo scorso anno, mentre i dati relativi alle malattie saranno resi ufficialmente pubblici entro l’anno, in accordo con le scadenze che abbiamo a suo tempo annunciato nell’Agenda nazionale per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico del 2014.

Siamo consapevoli che mettere a disposizione i dati non significa dare buona e qualificata informazione; per cui, oltre a mettere a disposizione caso per caso, come dicevo, i dati su infortuni e malattie, abbiamo anche definito un modello di lettura di tali dati che consente un quadro di insieme molto dettagliato. Il modello è realizzato per tematiche e per linee di approfondimento. Potete già trovare applicazioni di questo modello nell’appendice statistica alla relazione del Presidente.

Scendendo ora nel dettaglio dei numeri, già dalla relazione annuale che abbiamo presentato a luglio, rispetto allo scorso anno e rispetto al quinquennio precedente, dall’analisi su serie storica, notavamo un forte decremento del numero degli infortuni, relativamente sia alle denunce, sia ai casi riconosciuti effettivamente come infortuni da causa di lavoro.

Sappiamo che ragionare sul numero assoluto degli infortuni non è un atteggiamento assolutamente e completamente informativo. Bisognerebbe rapportare il numero di infortuni al periodo di esposizione al rischio e abbiamo iniziato a farlo. Non disponiamo del numero direttamente rilevato dell’esposizione al rischio ma, in collegamento anche con il database dell’ISTAT, abbiamo prodotto una buona approssimazione.

Nella relazione annuale, notavamo che l’indice di sinistrosità mostra per gli infortuni sul lavoro accaduti nel periodo 2009-2011 (il fatto di non arrivare al 2013 è dovuto alla mancanza di un denominatore aggiornato per calcolare l’indice, perché ISTAT aveva dati meno freschi rispetto a quelli di INAIL) un andamento lievemente decrescente. Il livello medio degli infortuni è 2,4 ogni 100 addetti esposti a rischio per un anno. I casi mortali si mantengono minori di quattro ogni 100.000 addetti. Questa era la situazione, già dettagliata, nella relazione che ho presentato a luglio scorso.

Siamo ad ottobre: il nostro sistema di open data, oltre a fornire i dati su periodo annuale, consente anche analisi su dati mensili, per cui posso dare qualche rapido aggiornamento. Ragionando sui dati mensili, possiamo fare il confronto tra il periodo gennaio-settembre 2013 e il periodo gennaio-settembre 2014. Da tale confronto risulta un calo degli infortuni del 4,8 per cento. L’ordine di grandezza delle denunce nel 2014 è di circa 483.000 (parlo, ripeto, del periodo gennaio-settembre). Il dato relativo agli infortuni – meno 4,8 per cento – lo possiamo analizzare in relazione a diversi raggruppamenti: abbiamo meno 4,6 per cento nel settore industria e servizi, meno 2 per cento in agricoltura e meno 5 per cento nella gestione per conto dello Stato. Il grande raggruppamento industria e servizi si può suddividere in sottogruppi dai quali risulta: meno 7,6 per cento propriamente nell’industria, meno 11 per cento nell’artigianato e meno 4 per cento nel terziario. Gli infortuni con esito mortale sono anche essi, fortunatamente, diminuiti in numero del 4,7 per cento.

Quanto alle denunce, mentre le denunce di infortunio hanno trend marcatamente decrescente, le denunce di malattia professionale hanno un andamento crescente. In riferimento ai dati resi pubblici a luglio, possiamo dire che nel 2013 avevamo quasi 52.000 denunce di malattie, con un aumento di poco più del 47 per cento rispetto al 2009. Ripeto: parlo di denunce di malattie. Richiamo l’attenzione sul fatto che il numero non si riferisce, però, ai soggetti tecnopatici; un soggetto tecnopatico può infatti influire per più denunce. Il numero che vi sto dando è quello di luglio. Se facciamo riferimento ai soggetti tecnopatici, tanto per dare un ordine di grandezza, a fronte delle quasi 52.000 malattie, essi sono circa 39.300. Di questi 39.300 soggetti tecnopatici, il 41,9 per cento ebbe riconosciuta la causa professionale.

Torno alla logica dei dati mensili: non sono ancora pubblici, ma stiamo per pubblicarli sul nostro sito. Quindi, possiamo far riferimento alle rilevazioni mensili. Nel periodo gennaio-settembre, abbiamo avuto un incremento del 13,4 per cento nel confronto fra il 2013 e il 2014. Il più 12 per cento si riferisce al settore industria e servizi; il più 18 per cento al settore agricoltura; il più 20 per cento alla gestione per conto dello Stato.

C’è un’osservazione da fare, che però andrebbe approfondita nei suoi significati. Se facciamo una rappresentazione geografica (ripeto: sto parlando di denunce), nel confronto tra i due periodi, si registra un aumento dell’1,6 per cento nel Nord-est, del 21,5 per cento nel Centro e del 33 per cento nelle isole. Questa, in sintesi, è la situazione dei dati. Possiamo lasciare un’applicazione del modello di lettura fatta, appunto, sui dati mensili, fino al 30 settembre ultimo scorso, che si raccorda perfettamente con l’appendice statistica che ho presentato insieme alla relazione annuale.

Vengo rapidamente alla problematica, cui ho accennato, di cura, riabilitazione e reinserimento. L’INAIL ha una struttura ampia e distribuita sul territorio, che delineo brevemente. Abbiamo un famoso Centro protesi a Vigorso di Budrio, che è considerato un’eccellenza a livello internazionale e ha una filiale a Roma. Collegati al Centro di Budrio, ci sono i cosiddetti «punti cliente», che sono sostanzialmente centri di consulenza e di aiuto all’utilizzazione di protesi, ortesi e, in generale, ausili di vario genere. Questi punti cliente sono, per ora, a Roma, Milano e Bari. Abbiamo poi un centro di riabilitazione motoria a Volterra. Abbiamo altresì 124 ambulatori per prime cure, dove vengono effettuati, oltre ad accertamenti medico-legali, anche erogazioni di prime cure ambulatoriali. Abbiamo poi 11 ambulatori di fisiokinesiterapia e 10 centri diagnostici polispecialistici a livello regionale.

L’attività che viene svolta è davvero voluminosa, se posso usare questo termine. Do qualche numero riguardo al 2013. Nel corso di questo anno sono state effettuate circa 7,5 milioni di prestazioni sanitarie e circa 683.000 prestazioni per prime cure; sono altresì state fornite a 2.800 pazienti circa 95.000 prestazioni riabilitative e più di 7.000 visite fisiatriche. Il Centro di Vigorso di Budrio ha registrato l’afflusso – parlo sempre del 2013 – di 11.000 assistiti. Anche per questi dati posso dare degli aggiornamenti al 30 settembre ultimo scorso. Nel periodo da gennaio a settembre abbiamo fornito 5.700.000 prestazioni, 530.000 prime cure e 5.000 visite fisiatriche presso i nostri centri. Il Centro protesi di Vigorso di Budrio ha registrato un insieme di prestazioni che supera il numero di 8.500. Il Centro di riabilitazione motoria di Volterra ha registrato 455 ricoveri in regime residenziale e semiresidenziale e circa 47.000 prestazioni fisioterapiche. Relativamente alle attività connesse al reinserimento degli infortunati, segnaliamo che il nostro Contact center ha registrato, in questo periodo, quasi 20.000 contatti. Questa, in sintesi, è l’attività distribuita sul territorio e i dati che l’hanno caratterizzata in questo periodo.

C’è poi una serie di altre attività. Stiamo lavorando – dico, purtroppo, ancora – con i Protocolli di intesa con le Regioni, in attuazione dell’accordo quadro del 2 febbraio 2012. Come ho già segnalato nella relazione di luglio, non abbiamo ancora sottoscritto – non siamo riusciti – i Protocolli di intesa con Abruzzo, Campania e Sardegna. A luglio ho sottolineato l’importanza di un completamento territoriale per garantire stesso diritto di cittadinanza.

Ci fa molto piacere segnalare, nell’ambito della cura, riabilitazione e reinserimento, le principali attività di ricerca che vengono svolte. Infatti, riteniamo importante, da parte dell’INAIL, promuovere ricerche di frontiera che possano dare il massimo risultato agli infortunati. Recentemente abbiamo avviato tre importanti progetti di ricerca: uno con il Campus biomedico di Roma, sul controllo della protesi di arto superiore con interfacce neurali invasive. È stata fatta anche una notevole pubblicità a questi progetti; in particolare, questo progetto è stato ampiamente documentato in occasioni pubbliche. È stato altresì avviato un progetto con l’istituto di BioRobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa sullo sviluppo di un sistema protesico per le amputazioni digitali della mano. Vanno altresì sottolineati due progetti con l’Istituto italiano di tecnologia di Genova: uno sullo sviluppo di un esoscheletro motorizzato per la deambulazione di soggetti paraplegici; l’altro sullo sviluppo di un sistema protesico di arto superiore. Va segnalato che, sempre in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia, stiamo sperimentando un sistema di rieducazione robot assistita della caviglia e la riabilitazione, sempre robot-assistita, del polso.

Entrambe queste sperimentazioni sono affiancate da uno studio pilota randomizzato e controllato, quindi con alta valenza scientifica. Relativamente a questo tipo di attività, l’INAIL ha anche approfondito tutta la problematica della gestione dei brevetti perché progetti di questo genere daranno – noi lo speriamo e la prospettiva è questa – risultati brevettabili.

Il terzo tema che vorrei affrontare riguarda la prevenzione. Lo stile dell’azione dell’INAIL in questo ambito non va corretto a seguito della definizione del quadro strategico proposto dall’Unione europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro (il quadro strategico 2014-2020 che è stato pubblicato a giugno scorso). Le linee di azione, i suggerimenti e gli auspici sono da anni nell’impostazione culturale del nostro Istituto. Facendo riferimento al quadro dell’Unione europea, vi troviamo attenzione verso le micro e piccole imprese; attenzione verso i rischi nuovi o emergenti; l’auspicio di dare consulenza sulla prevenzione, in particolare sui rischi emergenti e sulle nuove tecnologie; l’importanza della raccolta dei dati statistici per la definizione e il controllo delle politiche prevenzionali; l’auspicio a intervenire sui piani di istruzione perché – cito direttamente dal documento della Comunità europea – «la sensibilizzazione verso il tema della salute e della sicurezza sul lavoro deve cominciare dalla scuola».

Ci sono poi due aspetti sui quali l’INAIL è pronta a collaborare ma anche in tali casi sono necessarie altre sensibilità istituzionali. Cito sempre dal documento europeo: «bisognerebbe contribuire a semplificare la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ridurre gli oneri amministrativi e coordinare i piani di ricerca e di prevenzione con i piani di politica industriale, di politica ambientale e di politica sanitaria». Su questo ultimo punto vedremo che l’INAIL è già molto attivo.

Nell’ambito della prevenzione, non dico nulla di nuovo dicendo che partecipiamo ai comitati e alle commissioni in materia di sicurezza e di salute sul lavoro. Ne cito qualcuno, forse i più importanti: il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza, i Comitati regionali di coordinamento e la Commissione consultiva permanente. Tra le proposte della Commissione sono compresi i piani nazionali: quello per l’edilizia, per la prevenzione in agricoltura e selvicoltura e quello per le malattie professionali.

Svolgiamo poi una robusta, e per certi versi anche impegnativa, attività di sostegno alla normazione, alla definizione di linee guida e di nuove prassi, attività principale svolta nell’ambito dei Comitati tecnici dell’UNI. Altre attività sono svolte in collaborazione con associazioni rappresentative di parti sociali, di parti datoriali, sindacali e professionali. Cito soltanto alcuni esempi, facendo riferimento a documenti che abbiamo sottoscritto la settimana scorsa: l’accordo con il Consiglio nazionale degli ingegneri, mirato soprattutto sulle problematiche dell’edilizia, e le annunciate linee guida che verranno messe a punto insieme a Federchimica e che sono in fase di pubblicazione. Andando un po’ indietro nel tempo, ricordo anche gli accordi e le collaborazioni con le aziende dell’energia, con le imprese a rete, con le piccole e medie imprese, con le aziende pubbliche dei servizi ambientali, con la Regione Lazio per le imprese sanitarie, con il Ministero della Difesa per «ripulire» dall’amianto gli elicotteri, con Assomusica (anche questa è una sottoscrizione recente per tutte le attività di allestimento degli spettacoli dal vivo), con Federambiente e infine con l’Organismo paritetico nazionale artigianato. Queste sono le attività più significative nell’ambito della normazione, delle linee guida e delle buone prassi.

Facciamo poi un lavoro molto rilevante che riguarda i servizi di omologazione e certificazione delle attrezzature. Nel 2013 sono stati richiesti più di 180.000 servizi e ne sono stati resi quasi 83.000. Questa attività produce per l’INAIL un contributo finanziario interessante: lo scorso anno sono stati fatturati circa 15 milioni di euro.

Si può fare prevenzione, naturalmente, anche sostenendo le imprese nei cambiamenti tecnologici, cambiamenti che sono innanzi tutto mirati ad una maggiore sicurezza, ma che poi interferiscono con l’innovazione di prodotto e di processo.

Abbiamo un piano ormai consolidato di incentivi alle imprese, i cosiddetti bandi ISI. Dal 2010 sono stati stanziati 800 milioni di euro per il miglioramento delle condizioni degli ambienti di lavoro, per la sostituzione o adeguamento di attrezzature ma anche per progetti di organizzazione. Nel 2014 c’è stato un bando per finanziamenti a sostegno delle piccole e micro imprese dei settori agricoltura, edilizia, lapidei e affini.

Da più di un decennio, inoltre, l’INAIL applica uno sconto sul premio per le imprese virtuose, imprese che scelgono di investire in attività di prevenzione andando oltre gli adempimenti di legge, con ciò definendo un’importante politica di incentivazione. È lo sconto per prevenzione che le imprese conoscono con il nome del modello che devono compilare
l’OT/24.

Ho detto prima che strettamente connessa sia all’attività di cura e riabilitazione che all’attività di prevenzione c’è l’attività di ricerca. Nel caso del sostegno al reinserimento e alla riabilitazione, abbiamo visto le ricerche promosse dal centro di Vigorso in collaborazione con centri di eccellenza esterni. Per quanto riguarda la ricerca diretta alla prevenzione l’INAIL sta ristrutturando e reinserendo nella sua governance l’attività che fu dell’ISPESL. È recente l’insediamento del comitato scientifico che parteciperà, in termini consultivi, alla governance dei piani di ricerca che stiamo definendo e razionalizzando.

Abbiamo distinto quattro aree di attività per tentare di rendere, quanto più possibile, la ricerca finalizzata alle politiche organizzative e gestionali dell’INAIL. Le quattro aree riguardano i rischi lavorativi; i rischi su impianti, macchine e attrezzature; infortuni e malattie professionali; i mutamenti organizzativi e sociodemografici del lavoro. Sono temi che possono ramificarsi in progetti specifici.

Per esempio, per quanto riguarda i rischi lavorativi, abbiamo competenze che possono studiare, e lo stanno facendo, il problema dei rischi chimici, fisici, biologici, psicosociali e organizzativi e infine (la sollecitazione europea in materia non era necessaria perché tale impegno rientrava già nella nostra tradizione) i rischi emergenti. Su tutte queste aree, eventualmente, se ci sono domande potremo dare approfondimenti.

L’Europa sollecitava i piani di formazione e informazione. L’attività di formazione dell’INAIL è importante, ampia ed articolata, ed è rivolta ai lavoratori, ai loro rappresentanti e ai dirigenti. L’INAIL svolge formazione di aggiornamento e di tipo specialistico; collabora con le Università in master e corsi di perfezionamento; collabora nella scuola a diversi livelli. Questa collaborazione è coordinata anche con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con il Ministero delle politiche agricole e forestali e con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Vi fornisco cinque esempi. Nel novembre 2013 è stato stilato il Protocollo operativo sugli interventi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro nell’area industriale di Taranto. Il Protocollo si caratterizza per un forte contenuto innovativo e coinvolge l’ILVA e l’ENI. Collegata a questo piano di formazione è prevista la rilevazione dei dati sugli infortuni, ma anche sui cosiddetti quasi infortunio. Si tratta di una rilevazione molto importante nelle prospettive di prevenzione. L’iniziativa si allinea con gli auspici della Comunità europea. Il 15 ottobre scorso – pochi giorni fa quindi – in un incontro convocato dal prefetto di Taranto, sono stati presentati i primi risultati di questa attività. Il 30 settembre il Piano di formazione si è concluso per 412 lavoratori (ne abbiamo complessivamente in programma 1.100) ed entro il mese di dicembre è previsto il completamento del piano.

Abbiamo poi un progetto di Green Safety rivolto agli istituti tecnici agrari; il famoso progetto «Napo per gli insegnanti», in collaborazione con l’Agenzia europea di Bilbao e con altri organismi europei; una proposta didattica per le scuole primarie. Siamo convinti – l’esperienza in parte ce lo conferma – che intervenire sui bambini e sensibilizzarli alle problematiche significa entrare in modo molto forte nelle famiglie, perché molto spesso i bambini educano gli adulti.

Abbiamo costruito e stiamo perfezionando percorsi di e-learning e in questi giorni è progettato un cambio di piattaforma per rendere più efficaci queste metodologie. Abbiamo avviato corsi sugli open data, cioè sulle modalità di utilizzazione dei dati pubblici e sull’applicazione dei modelli di lettura dei dati. La costituzione recente, inserita sempre nel quadro di riorganizzazione dell’INAIL, del polo di formazione, ha per noi grande valenza strategica. Essa dovrebbe garantire maggior coordinamento delle attività, definire uno stile didattico efficace e conoscibile e tutelare gli standard di qualità. A questo polo di formazione collaborano anche altri soggetti istituzionali.

Vengo al penultimo punto, che mi ero segnato nella scaletta, riguardante l’attività ispettiva. L’INAIL, come sapete, svolge un’intensa attività ispettiva. Nel 2013 sono state controllate più di 23.000 aziende, di cui il 68 per cento nel terziario e il 28 per cento nel settore industria. L’87,65 per cento sono risultate irregolari. Ripeto: di 23.677 aziende, l’87,65 per cento sono risultate irregolari. Vorrei però chiarire un’ambiguità ed un equivoco che spesso compaiono sulla stampa. Questo dato non significa che l’87 per cento delle imprese italiane sono irregolari (così era stato scritto su un giornale e quindi tengo a precisare). Questa alta percentuale significa soltanto che c’è una selezione, cioè un sistema di business intelligence, che pone all’attenzione imprese che poi, verificate, mostrano queste carenze. Si tratta, più che altro, di un numero che misura la qualità del sistema di selezione o – meglio – del tipo di attività di controllo preventivo che si fa in casa prima di andare, poi, effettivamente, ad effettuare l’ispezione.

Con quei numeri sono stati regolarizzati più di 70.000 lavoratori. Nell’ambito del Piano nazionale di prevenzione edilizia, in particolare, sono state controllate – parlo sempre del 2013 – più di 3.000 imprese del settore costruzioni. Come dicevo, i risultati di questa attività ispettiva confermano grande efficacia del sistema di business intelligence. La nostra prospettiva è ancora più forte negli esiti, perché abbiamo stipulato Protocolli di intesa con Unioncamere, con la Guardia di finanza e con le capitanerie di porto.

L’ultima osservazione riguarda il sistema informativo integrato per la prevenzione, il SINP. Come immagino voi sappiate, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sta procedendo alle ultime modifiche a seguito delle osservazioni del Consiglio di Stato, per arrivare alla formulazione definitiva del decreto. Speriamo si apra presto la fase tecnico-realizzativa in cui l’INAIL è impegnato. Naturalmente per fare un buon sistema informativo integrato bisognerà lavorare alla progettazione dell’architettura dei dati. Per mettere insieme dati provenienti da fonti diverse, per qualificare poi la loro effettiva qualità, è necessario un lavoro preventivo che deve essere addirittura precedente alla scelta delle tecnologie da impiegare. Molto spesso questi due aspetti non si tengono separati. Credo sia molto importante ragionare prima sui tipi di architettura, per poter poi consapevolmente scegliere la tecnologia più adeguata. L’esperienza che l’INAIL ha fatto su open data potrebbe essere un utile riferimento, perché oggi, ragionando in termini di open data, si possono costruire archivi cosiddetti a grappoli o ad isole e, quindi, la messa insieme dei dati, se ci sono sagge procedure di data quality, può essere più agevole rispetto a qualche anno fa.

Mi fermerei qui per lasciare spazio alle vostre domande. Poi, magari, possiamo entrare anche nel dettaglio degli aspetti finanziari, perché continuare a sostenere questo volume di attività e mantenere la qualità adeguata verso i nostri infortunati e tecnopatici richiede disponibilità di risorse, su cui, purtroppo, stiamo facendo conti per certi versi un po’ preoccupanti».



Ulteriori elementi, da approfondire nel prosieguo dell’inchiesta, relativi a lavoro nero, caporalato ed esternalizzazioni

Particolare attenzione dovrebbe porre nel prossimo semestre la Commissione sugli aspetti in questione, che rendono l’Italia un Paese a rischio, sapendo che non esistono in tale ambito dati, per la mancanza di iscrizione all’INAIL. E però i lavoratori esistono, e meritano una piena attenzione.

Mancano anche dati INAIL sugli infortuni che indichino se l’azienda coinvolta lavorava o meno in regime di subappalto e quale tipo di esternalizzazione hanno avuto determinati dipendenti.

Il tema dei subappalti va monitorato con attenzione.

Nel proseguio dell’inchiesta la Commissione farà ulteriori approfondimenti su tali aspetti.



Audizione del presidente dell’ANMIL, Franco Bettoni

Nella seduta dell’11 novembre è intervenuto il presidente dell’ANMIL, Bettoni, accompagnato dall’amministratore delegato ANMIL Sicurezza, dottoressa Maria Giovannone. Il presidente dell’ANMIL ha svolto un’ampia e articolata disamina di tutte le attività espletate dall’ANMIL nei vari ambiti, con riguardo anche ai profili attinenti alla diffusione della cultura della sicurezza, ponendo altresì l’accento sull’esigenza di procedere all’attuazione integrale della disciplina contenuta nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, cosiddetto «testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro», nonché sull’opportunità di inserire tale materia nei programmi scolastici.

La dottoressa Giovannone, dopo aver ribadito l’esigenza di completare l’attuazione della disciplina di cui al citato decreto legislativo, si sofferma su una serie di tematiche specifiche, tra le quali quella attinente ai cosiddetti «ambienti confinati», quella relativa ai rischi per i lavoratori derivanti da comportamenti di terzi – ad esempio il rischio di rapine – nonché sui profili inerenti alla valutazione dei rischi per i lavoratori disabili, ai rischi connessi all’eventuale utilizzo di alcol e stupefacenti sui luoghi di lavoro ed infine alle nuove malattie professionali, con particolare riguardo a quelle relative ai disturbi muscolo-scheletrici.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:

 

«BETTONI. Presidente, ringrazio la Commissione per aver voluto audire la nostra Associazione, che da 71 anni si occupa di vittime di incidenti sul lavoro. Chi vi parla è una persona che ha avuto personalmente un incidente, come tante migliaia di lavoratori, per non parlare poi delle tante persone che hanno perso dei propri cari e dei figli sul lavoro. Tutto quello che diciamo, quindi, non lo abbiamo letto sui libri, ma lo abbiamo provato dentro e fuori di noi, perché anche le nostre famiglie ne hanno subito le conseguenze.

L’ANMIL è un’associazione nata nel 1943, che si occupa delle vittime di incidenti sul lavoro, di diritti e tutela dagli incidenti sul lavoro, delle malattie professionali e dei familiari delle vittime.

L’Associazione è presente su tutto il territorio nazionale, con 500 sedi fra quelle regionali, sottosezioni, delegazioni e fiduciariati. Purtroppo – è il caso di dirlo – conta più di 400.000 soci e rappresenta una categoria composta da 800.000 titolari di rendita INAIL, che non è da confondere con la pensione in quanto è il risarcimento di un danno subito.

L’Associazione ha 300 dipendenti, oltre a 5.000 volontari e 180 consulenti professionisti principalmente legali, medico-legali e psicologi. Offriamo una serie di servizi ai nostri iscritti: oltre all’attività assistenziale, promuoviamo iniziative tese a migliorare la legislazione in materia di infortuni sul lavoro e di reinserimento lavorativo, offrendo alla categoria numerosi servizi di sostegno. Siamo particolarmente impegnati nella diffusione della cultura della sicurezza e della prevenzione dei rischi sul posto di lavoro, realizzando importanti progetti finalizzati a sviluppare campagne di informazione o percorsi di formazione rivolti soprattutto ai futuri lavoratori e ai futuri imprenditori, ai giovani, alle nuove generazioni, anche grazie alla collaborazione di partner autorevoli come il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Dipartimento per le pari opportunità e l’INAIL.

In questo contesto, negli ultimi anni abbiamo dedicato una particolare attenzione all’attuazione del Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, un testo di legge che abbiamo profondamente condiviso, poiché volto a garantire un cambio di passo culturale molto importante per noi che lavoriamo quotidianamente a contatto con le problematiche di vita, di cura, di inserimento dei lavoratori infortunati e delle loro famiglie.

Abbiamo fatto ciò attraverso i nostri servizi, le nostre iniziative di studio, di ricerca scientifica, di proposta normativa e di dialogo istituzionale, ma anche con campagne culturali di più ampio respiro, portando in giro per l’Italia – specie nelle scuole – la testimonianza degli infortunati e invalidi del lavoro, che sono per noi un patrimonio di vissuto personale, che può contribuire alla diffusione della cultura della sicurezza fin dai primi anni di scuola.

Oggi, a sei anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2008, la nostra Associazione, grazie anche alle sue continue attività di studio e di ricerca scientifica e di confronto continuo con tutti gli attori interessati, sta facendo un bilancio, dal punto di vista formale e sostanziale, sull’efficacia del testo normativo, al fine di individuare i limiti e le prospettive di possibile integrazione, riordino e razionalizzazione. Questa operazione ci pare ancor più necessaria alla luce dello scenario delineato dal disegno di legge n. 1428, ora all’esame della Camera come Atto Camera 2660, seconda parte del cosiddetto Jobs Act, dedicato alle deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.

Ebbene, anche le deleghe contenute nel citato disegno di legge, se ben costruite e attuate, possono rappresentare, a nostro avviso, un’opportunità per l’innalzamento del livello di efficacia delle tutele per i lavoratori, che ancora sconta forti limiti dal punto di vista sostanziale, specie in tempo di crisi e di recessione economica, a fronte di un quadro normativo evoluto e completo dal punto di vista formale. Ciò, sempre che le semplificazioni da esso contemplate non confliggano con l’obiettivo primario di completare l’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008.

Agli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro il Jobs Act, al momento, non affianca l’obiettivo di completamento del relativo quadro normativo, operazione che pare, a nostro avviso, fondamentale.

GIOVANNONE. Presidente, vi sono ancora alcuni passi significativi da compiere. In altri termini, se il decreto n. 81 è un testo sicuramente completo da un punto di vista formale, nel nostro intervento abbiamo sottolineato, però, come vi siano ancora molte norme di tale decreto che devono essere completamente attuate. Peraltro, almeno per una ventina di questi provvedimenti erano già scaduti i termini di attuazione previsti dal decreto. Tanto meno possiamo dire che il cosiddetto decreto del fare abbia dato una spinta sostanziale alle aspettative di completamento da una parte e di semplificazione normativa dall’altra.

A nostro parere, dunque, vi è ancora molto da lavorare. Bisogna intervenire, da un lato, sulla semplificazione e sulla razionalizzazione, dall’altro, sull’attuazione di queste norme ancora sospese e che peraltro – come vedremo in alcuni punti di proposta che abbiamo segnalato nell’intervento – vertono su tematiche anche di grande rilievo. A nostro avviso, meriterebbero di essere portati avanti i lavori che sono fermi su alcune tematiche molto rilevanti. Il nostro auspicio è che tra i criteri e i principi di delega si possa prevedere qualcosa anche su questo punto.

BETTONI. Presidente, verrò ora ad alcune proposte dell’ANMIL in materia di sicurezza sul lavoro.

Alla luce di queste brevi considerazioni, riteniamo che gli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure in materia di igiene e sicurezza sul lavoro possano rappresentare una grande occasione nella misura in cui esse possano essere gestite in modo utile, senza nulla togliere alle tutele dei lavoratori e sempre che si realizzino attraverso norme immediatamente operative, che non rinviino, a loro volta, per la loro concreta attuazione, a ulteriori provvedimenti attuativi.

D’altra parte, però, è di fondamentale importanza che il legislatore, oltre a dare corso alle deleghe, tenga anche conto dell’urgente necessità di portare a compimento l’attuazione del decreto n. 81, ancora sospesa e arenata su tematiche di grande rilievo, di cui mi limiterò a rappresentarne solo alcune, data la brevità del tempo a disposizione.

Questo complesso di norme inattuate produce effetti negativi: in primis l’assenza di tutela per i lavoratori e parallelamente la profonda incertezza nella gestione della prevenzione da parte dei datori di lavoro. È necessario pertanto contribuire (ove possibile, anche attraverso dei principi e dei criteri direttivi da inserire nelle deleghe previste nel Jobs Act), con maggiore impegno e in tempi brevi, all’adozione dei provvedimenti mancanti e all’effettiva attuazione di quelli già adottati; ciò, anche alla luce degli obiettivi assegnati dall’Unione europea nel Piano sicurezza europeo 2014-2020.

Più in particolare, proprio nell’ottica della buona semplificazione e del completamento del quadro normativo in materia, riteniamo, ad esempio, che la formazione per la sicurezza possa svolgere un ruolo ancor più cruciale, ruolo che – sebbene opportunamente riformulato dagli accordi Stato-Regioni del 2011 – ancora sconta il limite degli eccessivi formalismi burocratici, a scapito dell’effettiva capacità di modificare positivamente e in modo sicuro i comportamenti delle persone. Spesso, infatti, la formazione è concepita dai datori di lavoro come un mero costo da contenere il più possibile ed vissuta dai lavoratori come un adempimento formale di cui si acquisisce poco nell’immediato e si conserva ancor meno col passar del tempo.

Il problema non è solo legato al numero di ore e agli specifici contenuti – ancora insufficienti per alcuni settori o tipologie di rischio – o alla professionalità dei soggetti erogatori dei percorsi formativi, ma riguarda anche le metodologie didattiche impiegate.

Già da alcuni anni, in via sperimentale, la nostra Associazione si è avvalsa infatti del supporto di testimonial della sicurezza. Si tratta di infortunati e invalidi del lavoro che, opportunamente formati, sono in grado di raccontare l’esperienza del loro infortunio o della loro malattia professionale trasmettendo all’uditorio un impatto emozionale così forte da incidere in modo concreto e positivo sulla sicurezza dei comportamenti nel breve e nel lungo periodo.

Personalmente, ho subito l’infortunio a 14 anni. A 20, 25 anni ho iniziato a parlarne ai ragazzi nelle scuole e oggi, che ho molti più anni, mi capita di incontrare quegli stessi ragazzi che ancora ricordano la mia storia, che è analoga a quella di tanti ragazzi e ragazze (ricordo che la percentuale di infortuni fra le donne è in aumento) che, come me, sono stati vittime di incidenti. Racconto con emozione (la stessa che sto provando anche ora) ciò che è capitato durante e dopo l’incidente, situazione comune a molte famiglie, e ciò fa riflettere.

Ricordo l’esperienza legata all’università di Teramo dove degli esperti parlavano del decreto legislativo n. 626 del 1994 davanti a più di 1.200 persone fra il brusio generale. Quando sono intervenuto per portare la mia testimonianza e quella di una ragazza infortunata sul lavoro è sceso il silenzio per 20 minuti fra quei ragazzi che si sono messi nella condizione in cui ero io a 15 anni e la ragazza a 16 anni, che si è infortunata subendo, dalla mattina alla sera, uno stravolgimento della sua vita. Credo che questo sia il valore delle testimonianze. Scusatemi per l’emozione.

A nostro avviso, questo dovrebbe essere un imprescindibile segmento integrativo, non di certo sostitutivo, delle metodologie didattiche tradizionali previste per legge, in virtù del quale i percorsi obbligatori potrebbero essere arricchiti con un numero di ore dedicate all’ascolto frontale del racconto di un infortunato o di un invalido del lavoro.

In questa ottica e alla luce dei numerosi progetti portati avanti in tutta Italia con il supporto dei nostri testimonial, siamo altresì convinti della necessità di dare maggior vigore all’attuazione dell’articolo 11, comma 1, lettera c) del Testo unico di salute e sicurezza sul lavoro che prevede l’integrazione, nei percorsi e nei programmi scolastici di vario grado, degli elementi fondamentali di salute e sicurezza sul lavoro. Noi facciamo questo da anni con progetti come SILOS e Icaro (giusto per citarne alcuni), poiché partiamo dalla convinzione che la sicurezza non costituisca un tema sociale tra i tanti, ma rappresenti un elemento fondante di qualsiasi percorso formativo di un futuro lavoratore e quindi un contenuto essenziale dell’apprendimento scolastico.

L’aspetto strategico della riflessione alla base dei nostri progetti è che la sicurezza non costituisca un ambito d’attività esclusivo di specialisti tecnici e normativi, ma un saper essere, un’abilità trasversale. In questo senso la sicurezza non necessita di essere concepita come specifica materia di studio, ma come percorso in grado di contaminare tutte le materie curricolari in un’ottica interdisciplinare. Fare questo, dunque, non significa sottrarre spazio e tempo alle lezioni e allo studio individuale, ma rafforzare i contenuti delle singole materie attraverso il tema della sicurezza a 360 gradi.

GIOVANNONE. Presidente, ci sono altri punti e altre disposizioni del decreto legislativo n. 81 che ancora risultano sospese. Un esempio riguarda il cosiddetto sistema di qualificazione delle imprese dei lavoratori autonomi, previsto nell’articolo 27 dello stesso decreto. Si tratta di una disposizione molto importante e innovativa volta ad innalzare, anche dal punto di vista sostanziale, i livelli di sicurezza perché guarda al possesso da parte delle imprese di standard non solo formali, ma anche sostanziali e organizzativi. Siamo rammaricati per il fatto che, al di là del decreto del Presidente della Repubblica n. 177 del 2011 sugli ambienti confinati, tale disposizione sia rimasta lettera morta.

Non può essere neppure dimenticato il grande lavoro che ha svolto la commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro nel corso dei suoi due anni di attività e che è culminato nella redazione di un testo ben articolato e dettagliato per l’individuazione dei settori e dei criteri di qualificazione delle imprese (fra questi anche il settore edilizio). Purtroppo, al riguardo non ci sono novità, ancorché si tratti di un tema a cui l’Associazione tiene molto.

In materia poi di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, nell’ambito dell’articolo 28 del decreto legislativo n. 81 del 2008, riteniamo che – oltre ai rischi particolari espressamente contemplati riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari (tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro) – si possa dare un contributo al rafforzamento delle tutele prevedendo un ampliamento della lista dei rischi particolari da valutare sul posto di lavoro. Oggi ci sono rischi nuovi e crescenti. Fra questi abbiamo individuato anche i cosiddetti rischi di security aziendale che derivano da attività criminose di terzi che possono ledere gli stessi lavoratori, come in caso di rapina.

Visto inoltre che nel Jobs act si fa riferimento, almeno in linea di principio, alla razionalizzazione dell’attività di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro della persona, riteniamo che, in tema di valutazione dei rischi, sia necessaria una previsione specificamente dedicata alla tutela della salute e della sicurezza e all’organizzazione del lavoro delle persone disabili in generale che, nel momento in cui rientrano nel luogo di lavoro, sono esposte a rischi particolari perché sicuramente più vulnerabili.

Vi è poi una tematica molto importante di cui abbiamo parlato nella fiera sulla sicurezza a Bologna e che è quella relativa all’utilizzo di alcool e stupefacenti nei luoghi di lavoro. Il decreto legislativo n. 81, all’articolo 41, prevede la ridefinizione, entro un certo termine, della materia con il coinvolgimento del Ministero della salute. Anche questo tema è rimasto sospeso, nonostante sia un fenomeno complesso, di difficile gestione e dilagante per lavoratori e datori di lavoro.

Infine, come emerge dai dati del rapporto INAIL dello scorso anno e di quello in corso, vi è il tema delle nuove malattie professionali che, come sappiamo, sono in aumento. Fra queste, in particolare, emergono nuove patologie legate ai disturbi muscolo-scheletrici e malattie a carico dell’apparato osseo articolare e muscolare. Su tale materia un anno fa abbiamo condotto una ricerca empirica in collaborazione con l’Università di Milano e riteniamo che nell’ambito del decreto legislativo n. 81, in particolare al Titolo VI relativo alla movimentazione della mole di carichi, si possa prevedere qualche intervento. Questi sono solo alcuni spunti su cui riflettere. Passo quindi nuovamente la parola al presidente dell’Associazione, dottor Bettoni.

BETTONI. Presidente, questi sono alcuni spunti che l’ANMIL ritiene possano ispirare il legislatore nel prosieguo della sua attività di regolamentazione del lavoro. Di conseguenza, anche la strategica articolazione delle deleghe nel Jobs act, alla luce di quanto sopra esposto, può essere una grande opportunità per completare quello che precedenti Governi hanno iniziato in tema di sicurezza, lavoro e disabilità.

Inoltre, come Associazione, ci tengo a far presente che siamo assolutamente disponibili a dialogare con le istituzioni e, in particolare, a fornire alla Commissione tutto il nostro contributo per supportarla nell’individuazione degli elementi necessari per il completamento e il miglioramento della normativa vigente, anche al fine di consentire una sua più efficace traduzione in termini operativi. Speriamo ciò sia d’aiuto.

Chi vi parla lo fa a nome di vittime di incidenti. Abbiamo bisogno che su alcune cose che chiediamo da anni sia posta attenzione da parte vostra per aiutarci. Noi facciamo quello che possiamo. Siamo in giro tutto il giorno e ci impegniamo, ma al centro della questione ci sono persone e famiglie. Pensate a questo e aiutateci».



Audizione dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL

Nella seduta del 25 novembre sono intervenuti i rappresentanti delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Il rappresentante della CGIL, dottor Calleri, ha effettuato un’ampia disamina dei profili attinenti agli infortuni e alle malattie professionali, richiamando una serie di aspetti specifici, tra i quali l’esigenza di conciliare la prospettiva di semplificazione contenuta nel cosiddetto «jobs act» con la necessità di mantenere inalterati gli standard di tutela in ambito antinfortunistico, il ruolo rilevante dei patronati nella materia in questione – da salvaguardare – le preoccupazioni per un taglio dei fondi destinati all’assunzione degli ispettori ed infine i problemi relativi all’efficacia dei servizi ispettivi, con riguardo anche all’agenzia unica, per la quale occorrono – secondo l’audito – chiare «regole di ingaggio» e adeguate professionalità.

Il rappresentante della CISL, dottor Farina, ha sottolineato l’importanza dell’approccio preventivo, soffermandosi in modo specifico sul jobs act e sul rischio di diminuzione delle tutele connesso allo stesso, sull’esigenza di generalizzare la rappresentanza dei lavoratori per la salute e sicurezza in tutte le aziende e contesti produttivi, specie in quelli piccoli, ed infine sull’insostituibile ruolo svolto dai patronati.

La rappresentante della UIL, dottoressa Galli, si è soffermata sugli aspetti relativi all’incompiuto sistema informativo nazionale per la prevenzione, all’assenza di una strategia nazionale, alle criticità dell’assetto istituzionale, al bisogno di supporto della micro e piccola impresa, ai ritardi nel favorire l’emersione delle malattie professionali e la loro prevenzione, ai diritti di rappresentanza specifica, da garantire per tutti i lavoratori, ed infine al mancato monitoraggio degli obblighi di valutazione trasversale dei rischi introdotti dal citato decreto legislativo n. 81 del 2008, con particolare riguardo all’attenzione alle differenze di genere.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:

«CALLERI. Signora Presidente, ringrazio lei e i commissari presenti, che ascolterete le nostre proposte e la nostra analisi.

Desidero anzitutto dire che questo lavoro rappresenta per noi un importante punto di inizio. Abbiamo infatti scritto una lettera a questa Commissione chiedendo un’audizione, probabilmente la convocazione odierna è arrivata prima della risposta e ne siamo contenti perché si è trattato di un circolo positivo di volontà.

Vorremmo focalizzare l’attenzione su tre aspetti del grande problema che ci troviamo ad affrontare dandone innanzi tutto la dimensione, a nostro avviso, più corretta. Ciò, anche per riprendere quanto più volte abbiamo detto, nelle Commissioni che vi hanno preceduto, su tale argomento che, purtroppo, si ripropone ogni volta.

Partendo dalla dimensione del fenomeno infortunistico, sapete sicuramente meglio di me che vi è una discussione aperta anche sul fenomeno degli infortuni dal punto di vista conoscitivo e dimensionale. Abbiamo detto più volte – e vogliamo ribadirlo in questa sede – che a nostro avviso va considerata l’interezza del fenomeno, dunque non solo quella degli assicurati all’INAIL (non tutti i lavoratori sono assicurati all’INAIL), e includendo anche – per quanto possibile – la dimensione del lavoro nero e del lavoro precario, che riteniamo molto importante ai fini della rilevazione.

È preliminarmente necessaria una considerazione ovvia: la crisi che ormai ci attanaglia da parecchio tempo determina un calo delle ore lavorate e degli occupati. Tutti questi dati andrebbero armonizzati e interrelati tra loro in maniera più corretta.

Vi sono poi delle grandi questioni, ancora aperte, sull’aspetto istituzionale. Sappiamo che il decreto legislativo n. 81 ha subito diverse modifiche e che, purtroppo, in molte sue parti non è ancora attuato. Pensiamo alla vicenda della pubblica amministrazione, ma anche a quelle delle Forze armate e dei trasporti, che ci trasciniamo da qualche anno e che sarebbe forse ora di aggredire in maniera completa. Dico questo perché a noi sta molto, ma molto, a cuore il discorso della prevenzione. Prevenzione non significa solo evitare l’accadimento infortunistico o la malattia professionale evitandone l’eziologia, ma anche rivolgere un’attenzione quotidiana all’interno delle aziende e dei luoghi di lavoro. Soprattutto, la prevenzione coinvolge tutte le componenti che nell’azienda fanno parte del servizio di prevenzione e protezione e che devono rapportarsi tra loro in maniera corretta per rendere il più possibile cogenti l’efficacia e la prevenzione. Ciò significa che bisogna innanzi tutto completare l’assetto istituzionale delle amministrazioni pubbliche perché il sistema informativo nazionale della prevenzione non è ancora partito per varie ragioni. Credo che su questo aspetto si dovrà fare un’inchiesta aggiuntiva perché, secondo noi, è molto importante che questo sistema parta. Infatti, avere un flusso di informazioni corretto tra tutti gli attori e trasparente anche all’esterno è la prima pietra da posare per una prevenzione effettiva.

Ciò detto, vi sono delle contingenze di cui vorrei parlarvi in maniera molto veloce. Abbiamo detto in più sedi (lo abbiamo anche scritto al Governo e al Parlamento) che, con riferimento al Jobs act e alle deleghe in esso contenute, vi sono dei profili riguardanti la salute e la sicurezza. C’è una delega con uno scopo generico di semplificazione, che per noi va interpretata come eventuale semplificazione delle procedure, positiva anche per le aziende; tuttavia, ciò non deve tradursi in una diminuzione della tutela. Questo lo abbiamo ripetuto più volte e penso vi sia noto.

L’altra questione attiene alla verifica della funzionalità e dell’efficacia dei servizi ispettivi. Sappiamo che è in corso una discussione molto importante e ampia, che coinvolge molti attori, riguardante l’Agenzia unica, che ha una funzione di coordinamento rispetto ai servizi ispettivi regionali. Inoltre (per lo meno così abbiamo interpretato il contenuto della delega), vi è un accorpamento delle funzioni ispettive di INPS, INAIL e Ministero del lavoro. Questo che ci preoccupa molto, non tanto per una resistenza innata all’innovazione che potremmo avere, quanto per l’attribuzione di questa Agenzia (mi riferisco ai mezzi dell’Agenzia e, soprattutto, alle attribuzioni di coloro che vi lavoreranno e che faranno gli ispettori sul territorio). Questa è una questione da chiarire molto bene. Unificare i servizi ispettivi dal punto di vista contrattuale-lavoristico e da quello relativo a salute e sicurezza potrebbe indurre una minore attenzione rispetto a queste due ultime questioni. Occorrono regole d’ingaggio e professionalità chiare, dato che, come ben sappiamo, non è possibile che tutti facciano tutto, ma ognuno ha la propria specificazione. È in atto invece una campagna che tende a introdurre un’immagine dei servizi ispettivi, a nostro avviso, non completamente corretta. A differenza di quanto è stato detto più volte, le aziende non sono tartassate dai controlli; dalle statistiche, che sono disponibili a tutti, non si evince, in realtà, un altissimo numero di controlli, ne´ la reiterazione degli stessi nei confronti delle medesime aziende. Non intendiamo sottrarci a una discussione sull’efficacia e sull’organizzazione dei servizi ispettivi, ma ciò va realizzato anche con il contributo di tutti coloro che in questi lavorano e operano concretamente.

I due aspetti che desidero infine sottolineare sono relativi innanzi tutto ai patronati, che, a nostro avviso, hanno un ruolo rilevante all’interno del sistema della prevenzione, perché hanno svolto una grandissima opera di sensibilizzazione rispetto alle malattie professionali. Come abbiamo visto dal rapporto INAIL, infatti, la denuncia delle malattie professionali è molto aumentata; questo significa che vi sono maggior consapevolezza e conoscenza, che sono aspetti sempre positivi che aiutano moltissimi cittadini nell’iter – purtroppo molto faticoso e a volte difficile – da seguire per il riconoscimento dei giusti indennizzi, dei risarcimenti. Per questo i tagli previsti ci preoccupano molto; sappiamo che vi sono state alcune modifiche, ma è molto importante ricordare quest’aspetto, che sembra ininfluente rispetto alla salute e alla sicurezza, ma che tale non è facendo parte di quella cultura più generale che dev’essere presente fra i lavoratori e nelle aziende e che è stato precedentemente ricordato.

Altro aspetto che ci preoccupa molto è il taglio, previsto nella legge di stabilità, dei fondi destinati all’assunzione degli ispettori previsti in un precedente provvedimento. Per dirla in inglese, è un elemento self evident: tagliare quei fondi significa rendere molto più problematica l’organizzazione dei servizi ispettivi in generale.

Anticiperò forse i miei colleghi ricordando due aspetti importanti che abbiamo portato avanti con alcune nostre attività perché vogliamo a nostra volta mettere sul tavolo ciò che facciamo e il nostro ruolo all’interno del sistema prevenzione. Mi riferisco, in particolare, alla piattaforma sindacale unitaria sui temi relativi a salute e a sicurezza, varata nel 2013 ma ancora attualissima, la cui documentazione chiediamo di poter lasciare agli atti della Commissione.

PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza in tal senso.

CALLERI. Nel tentativo di portare avanti il nostro vero e proprio lavoro, ossia la contrattazione per le aziende, abbiamo realizzato per le nostre strutture una traccia contrattuale su salute e sicurezza nei posti di lavoro (ovviamente si tratta di una contrattazione di secondo livello, aziendale). Trattandosi, a nostro avviso, di un contributo importante, sarebbe decisivo farvelo conoscere.

FARINA. Signora Presidente, riteniamo l’audizione di oggi molto importante per il tema di cui discutiamo.

Condividiamo molto l’impronta che lei ha voluto dare dicendo che siamo qui per favorire e sviluppare maggiormente la prevenzione senza rincorrere e dover intervenire nelle urgenze. D’altronde, il lavoro di questa Commissione, come il lavoro che facciamo noi tutti i giorni, deve necessariamente essere orientato a fare quanto necessario perché gli elementi di prevenzione prevalgano su quelli della gestione delle emergenze. Stare insieme nelle emergenze è più facile perché ognuno (la politica e il sindacato) è lì per gestirla. Fare prevenzione richiede che questa capacità di stare insieme nell’emergenza si ritrovi anche nei lavori ordinari per far funzionare bene le leggi e gli organismi a quest’obiettivo dedicati. Voglio segnalare una certa preoccupazione aggiuntiva data dal fatto che siamo in anni di crisi molto seria. Sappiamo per esperienza che nei momenti di crisi, quando il lavoro manca, ci sono una serie di tolleranze e, a maggior ragione, la nostra attività deve essere più forte perché più forti sono i rischi connessi a un calo di attenzione.

Rispetto alla congiuntura non c’è dubbio che per noi è di particolare rilevanza capire ciò che il Governo vuole fare nel Jobs act in termini di agevolazione e semplificazione delle normative che riguardano la materia. Non abbiamo difficoltà a comprendere le ragioni della semplificazione, ma temiamo che esse possano azzerare i livelli di tutela e di garanzia e far venire meno le decisioni prese nella legge. Riteniamo invece che ciascuna di esse aveva una sua ragione quando la legge è stata fatta. Siamo d’accordo che si possano esaminare semplificazioni della normativa, ma ci preoccupa se semplificazione significa anche ridurre quegli strumenti che garantiscono al sindacato una partecipazione e, quindi, la gestione delle normative, che sono il vero elemento di prevenzione. Mi riferisco al fatto che le relazioni sindacali, attraverso gli strumenti che la legge offre, sono in grado di presidiare bene questo tema. Non siamo contrari all’idea che si passi da una documentazione cartacea a una documentazione elettronica; dobbiamo sapere però che il sistema produttivo italiano è prevalentemente composto da piccole imprese e che questo passaggio non potrà essere possibile dappertutto, anzi, esso rischia di escludere molte aziende dalla gestione della prevenzione sul lavoro e della normale attività dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e di coloro che per il sindacato sono dedicati a tale attività.

Come veniva ricordato dal collega Calleri, vi sono ancora delle norme che la legge prevede che non sono state ancora attuate. Pertanto, da una parte, dobbiamo prestare attenzione a ciò che oggi il Governo è impegnato a fare sul tema della semplificazione, dall’altra, ci sono ancora alcuni aspetti che non hanno trovato attuazione. Penso che il Comitato di cui all’articolo 5 sia un pensatoio, un punto di riferimento congiunto di tutte le parti più impegnate in questa attività che è importante rilanciare perché credo vi siano delle complessità da affrontare. Credo che la sovrapposizione di competenze, che spesso si determina nell’applicazione delle norme di legge e dell’attività di prevenzione, meriti di essere meglio disciplinata. Bisogna però mettere in campo la strumentazione, l’operatività del Sistema informativo nazionale per la prevenzione di infortuni e malattie professionali (un’anagrafe informatizzata delle incidenze infortunistiche) per poter intervenire con politiche più mirate.

Quanto ai rappresentanti della sicurezza, abbiamo bisogno di assicurare loro agibilità in tutti i territori e in tutte le aziende. Nelle medie e grandi aziende essa è assicurata, nelle piccole il ruolo degli RLS territoriali ha bisogno di essere necessariamente rilanciato, anche attraverso la costituzione del fondo di cui all’articolo 52 per poter rafforzare la presenza delle rappresentanze dei lavoratori nelle piccole imprese. Da questo punto di vista ci piacerebbe conoscere meglio qual è la rappresentanza e l’articolazione della presenza dei nostri rappresentanti della sicurezza. Sappiamo che l’INAIL ha l’anagrafe di queste rappresentanze e ci piacerebbe che copia di questa anagrafe potesse essere data anche ai sindacati.

Parlo infine dei patronati. Sono d’accordo sul fatto che il ruolo dei patronati per le malattie professionali sia insostituibile con riferimento alla rappresentanza e alla tutela dei lavoratori più deboli, che hanno più problemi e vivono in condizioni di disagio dal punto di vista fisico e delle malattie. A tal riguardo, ritengo che sul ruolo dei patronati il Governo dovrà fare una riflessione perché mi sembra vi sia una sottovalutazione dell’importanza che essi hanno ai fini della tenuta sociale e della risposta da assicurare ai più deboli della società, anche sul versante degli interventi sulla prevenzione e sulla gestione delle malattie professionali.

GALLI. Signora Presidente, abbiamo preparato una nota che lascerò e che cercherò di scorrere rapidamente.

Innanzitutto esprimo apprezzamento per la volontà – che lei ha dichiarato adesso e nel momento in cui è stata istituita la Commissione – di privilegiare l’ottica preventiva rispetto a quella d’indagine, che invece spesso ha interessato le precedenti Commissioni. La questione della prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali è al centro dell’impegno di tutti noi. Dobbiamo capire però che tale attività, fondamentalmente svolta dalle istituzioni, dovrebbe avere una gestione e una visione fortemente «tripartite», anche secondo gli orientamenti non solo internazionali, ma della nostra legislazione. Con tale termine intendo riferirmi a un’attività che impegni le istituzioni, ma coinvolga attivamente le parti sociali.

A nostro giudizio, l’efficacia degli interventi preventivi è ancora ostacolata da numerose difficoltà e carenze del nostro assetto istituzionale. Nei resoconti stenografici delle audizioni precedenti, ho letto un riferimento che hanno già ricordato anche i miei colleghi, ossia quello alla mancata attuazione del sistema informativo nazionale come mancata attuazione di un’importante disposizione del decreto legislativo n. 81 del 2008. Il problema ovviamente non è solo l’incongruenza legislativa dovuta alla mancata attuazione in sé del SINP (Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro), ma la conseguente problematicità per tutto il sistema della prevenzione: questo è proprio uno dei punti di caduta di quel ruolo del tripartitismo cui facevo riferimento. Lo stesso decreto legislativo, in questo caso, prevede una semplice consultazione delle parti, non quel ruolo attivo e di collaborazione con le strutture che il sistema informativo si è dato, che in parte già funzionano e la cui carenza rende difficile la pianificazione delle attività di prevenzione.

Il sistema di sorveglianza degli infortuni mortali, ad esempio, ha dietro di se´ una banca dati che purtroppo riporta oltre 3.000 casi accaduti dal 2002 ad oggi. Non si tratta di dati quantitativi, ma qualitativi, perché si tratta di storie e avvenimenti reali analizzati attraverso una metodologia condivisa tra INAIL, ISPESL e Regioni, quindi i servizi delle ASL. Tale metodologia mette in luce elementi utili ai fini della prevenzione, tra cui ovviamente quello noto dai dati INAIL, ossia che gli infortuni accadono prevalentemente nelle aziende con meno di dieci dipendenti. Tale metodologia dà anche indicazioni sulle modalità di accadimento e sulle principali cause di morte, che sono fondamentalmente cinque, tra cui figurano le famose cadute dall’alto – ormai lo sanno anche i tavoli – le cadute di travi e di gravi dall’alto e il ribaltamento delle attrezzature utilizzate. Ecco dunque le prime tre cause.

Questi elementi di carattere preventivo – che includono anche conoscenze sulle precise modalità, quindi sul fatto che non vi sia mai un solo fattore a intervenire nell’infortunio, ma diversi, tra cui anche il comportamento degli individui – sono legati molto spesso alla mancata conoscenza e al mancato utilizzo delle procedure adeguate, nonché alla tolleranza di quelle scorrette, aspetti che rimandano a questioni gestionali e organizzative. Questi elementi di conoscenza potrebbero divenire utili alla pianificazione delle attività di prevenzione: di fatto, però, non è così, o non lo è pienamente, perché nel nostro Paese non esiste un piano che coinvolga tutti, istituzioni e parti sociali, in una politica di prevenzione. Parliamo cioè della mancanza della famosa strategia nazionale, che sembra essere un leitmotiv ricorrente, dato che siamo l’unico Paese a livello europeo che non ce l’ha: sembra una formalità, ma non lo è, perché costituisce invece la modalità concreta con cui si può lavorare insieme, da parte di istituzioni e parti sociali, su obiettivi precisi, che andrebbero definiti, valutati e misurati.

Le criticità dell’assetto istituzionale sono state già richiamate: avevamo un sistema delineato dal decreto legislativo n. 81 del 2008, che giustamente aveva risolto il problema di quelle che anche il Ministro ha definito «le linearità verticali» delle competenze che impedivano il rapporto tra il Ministero del lavoro e quello della salute. Con coraggio, il legislatore del decreto legislativo n. 81, articolo 5 decise di costituire una struttura, il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che avrebbe invece messo insieme tutte queste figure competenti. Va però ricordato che in esso non vi sono le parti sociali: il problema di fondo è che è stato istituito con due anni di ritardo e che per un anno non si sa bene come si sia mosso, finché di fatto da cabina di regia è divenuto una struttura tra le tante di un megacomitato del Ministero della salute senza un ruolo politico. Poiché non è interesse dei Ministri decidere quali siano le politiche e le priorità nazionali in materia di salute e sicurezza, è gestito da funzionari, con buona o cattiva volontà a seconda dei momenti, che devono affrontare tutte le criticità del sistema, come le carenze di organico e di competenza, il fatto che alcune Regioni vanno avanti, mentre altre non fanno niente, e che non si interviene ne´ si utilizza la possibilità che ci darebbe la Costituzione, ossia la surroga nei confronti delle Regioni inadempienti, e così via. A questo Comitato, ex articolo 5 del decreto legislativo n. 81, è comunque mancato il ruolo politico che invece avrebbe dovuto avere per poter svolgere tale compito d’indirizzo.

In questi ultimi mesi, in realtà, come diceva prima il collega Calleri, il dibattito si è focalizzato sugli aspetti della ripetuta vigilanza nei confronti delle aziende: onestamente, si tratta di un falso problema; può accadere, in alcuni casi, ma non è questa la questione di fondo. Dietro a questo falso problema, sul quale purtroppo anche il ministro Poletti ha insistito, nella sua audizione, di cui ho letto il resoconto stenografico, vi è quello di fondo dei servizi delle ASL che non offrono livelli di assistenza uguali a tutti i cittadini italiani. Ogni Regione dà un servizio di qualità fondamentalmente diversa da quella delle altre, ecco il problema di fondo.

La seconda problematica è che ci si dimentica che in Italia il 97 per cento delle imprese ha meno di dieci dipendenti, quindi non è in grado di gestire la salute e la sicurezza, ma ha bisogno di un supporto. Non lo diciamo noi, ma studi e letteratura che si occupano da tempo del tema in tutta Europa, dove vi sono molte meno aziende con pochi dipendenti, com’è il caso dell’Italia. La specificità della microimpresa, infatti, è nostra, quindi dovremmo riprogettare il nostro sistema e la pianificazione in termini preventivi, mettendo al centro la microimpresa e la piccola impresa.

Il problema dei servizi delle ASL, quindi, è che dovrebbero tutti operare in maniera omogenea, sapendo coniugare prevenzione e vigilanza. Non vorrei ricordarlo, ma è questo il loro compito: sono nati così, questo stabiliva la legge di riforma sanitaria. Se però andate a vedere i rapporti delle Regioni, che vengono fatti annualmente, scoprirete che il 90 per cento della documentazione è tutto su indicatori di vigilanza, mentre solo una minima parte descrive le attività di supporto che i servizi svolgono. Se quindi parliamo di semplificazione e razionalizzazione, mettendo al centro la microimpresa, quello che i servizi dovrebbero fare è appunto sviluppare la funzione di supporto, acquisendo le relative competenze. Non vi sono vie d’uscita: le semplificazioni sono un elemento importantissimo, ma sicuramente di secondo piano, rispetto al bisogno di supporto delle aziende nel valutare e gestire i rischi.

Nel tentativo di fornire informazioni più complete, chiediamo l’autorizzazione a lasciare agli atti della Commissione, in allegato a questa nota, la sintesi di una ricerca cui abbiamo partecipato l’anno scorso, attraverso la quale sono stati contattati ed intervistati colleghi di servizi che operano sia in termini di eccellenza, come l’ASL di Vicenza, sia con molte problematicità.

PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza in tal senso.

GALLI. Da tale indagine è emerso chiaramente che nelle piccole imprese i risultati, con riferimento alla riduzione degli infortuni – mentre per le malattie professionali il discorso è più complicato, perché più a lungo termine – si hanno solo se i servizi intervengono svolgendo la funzione di supporto. Lo schema del modello d’intervento dell’ASL di Vicenza prevede di concordare con le associazioni ed i sindacati la documentazione tecnica relativa ad un settore, quindi di tracciare linee guida condivise – sia dalle associazioni cui aderiscono le aziende sia dalle organizzazioni sindacali cui aderiscono i lavoratori – che verranno presentate nell’ambito di specifici incontri con le aziende. Quindi, c’è una compartecipazione a monte. Dopo di che, il percorso di supporto non si limita alla distribuzione dei materiali: quando s’interviene in un settore c’è come una sorta di adozione delle aziende, che non vengono più lasciate sole, con modalità di intervento particolari (anche in azienda). Si manda un questionario e le aziende che non rispondono sono quelle immediatamente visitate; oppure si organizzano le riunioni e si chiamano le aziende, quelle che non partecipano sono le prime ad essere visitate. Il percorso quindi è complesso, se vorrete, potrete prenderne visione in questa sintesi o anche nella relazione completa. La sostanza è che le aziende non vengono più lasciate; il principio è quello di non colpire le aziende alle spalle. Questa non è una frase mia ma è uno degli slogan di questo nuovo modello di interventi. Ci si deve sforzare di capire che questo è il centro del problema, ma anche che questa sfida deve veder coinvolte le parti sociali, nella modalità territoriale di cui ho parlato prima, nella rappresentanza aziendale e territoriale, ma anche negli organismi paritetici che le parti hanno costituito.

Mi avvio a concludere. Nelle note troverete tanti altri punti, come, ad esempio, quello sulle malattie professionali. Sono veramente rimasta colpita dal fatto che il Ministro accennando alla campagna sulle malattie professionali non abbia detto che il decreto relativo alle tabelle sulle malattie professionali attende di essere emanato da quattro anni (non sappiamo quando verrà emanato perché la commissione è stata appena insediata e sta cominciando i suoi lavori). Immagino vi sia chiaro che, quando le malattie professionali entrano nelle tabelle, inizia non solo il percorso di riconoscimento, ma anche il percorso di prevenzione. Si può parlare oggi di emersione delle malattie professionali perché nel 2008 (periodo felice anche per le malattie professionali) vennero emanate le nuove tabelle e i nuovi elenchi. Si è trattato di tutta una serie di disposizioni che hanno favorito l’emersione delle malattie professionali.

Lasciamo inoltre una nota sull’indagine che abbiamo realizzato come UIL sullo stress, perché lo consideriamo un tema critico e non secondario. È da lì, infatti, che si può partire per intervenire sugli aspetti dell’organizzazione del lavoro. In caso contrario, i nostri datori di lavoro hanno molta difficoltà a riconoscere che l’organizzazione del lavoro è un problema anche dei lavoratori e che deve essere, quindi, oggetto di confronto con i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS). Gli obblighi di valutazione e le linee di un indirizzo emanato dalla Commissione consultiva potevano essere un’occasione, che si è trasformata però in un’occasione mancata. I risultati della nostra indagine (che non vuole essere assolutamente esaustiva, perché è fatta sulla nostra banca dati di RLS ed è quindi, chiaramente, di opinione) sono assolutamente critici: pensiamo che si debba rimettere mano alle indicazioni emanate dalla commissione o, comunque, che si debba porre molta più attenzione al tema. Il tema della rappresentanza è elencato nelle note, ma lo salto perché il collega della CISL lo ha affrontato.

Passo, in ultimo, alla questione della valutazione del rischio in ottica di genere ma, in generale, agli obblighi di valutazione (i cosiddetti obblighi trasversali), che attualmente non hanno alcun tipo di attenzione (se non quella culturale, nel senso che sono stati oggetto di ricerche), fino ad oggi non sono stati oggetto di indagine da parte dei servizi ma sono finalmente indicati tra gli obiettivi del Piano nazionale di prevenzione, che è stato appena approvato, e, quindi, dei Piani di prevenzione regionali che verranno emanati. Ci auguriamo che questa tematica trasversale (che comprende genere, lavoratori atipici, stranieri, ma anche vecchiaia ed età) divenga oggetto di confronto tra parti sociali e Istituzioni, ma con le criticità di fondo di cui ho detto prima».



Audizione dell’Associazione familiari e vittime dell’amianto (AFeVA)

Nella seduta del 9 dicembre 2014 sono intervenuti i rappresentanti dell’Associazione familiari e vittime dell’amianto (AFeVA). Il coordinatore dell’AFeVA Bruno Pesce si è soffermato su vari profili tematici, sottolineando in particolare l’esigenza che lo Stato si costituisca parte civile nel prossimo processo relativo al caso Eternit, che vengano assunte iniziative di sensibilizzazione e di aggiornamento dell’apparato giudiziario in merito all’interpretazione della fattispecie criminosa di disastro ambientale, in modo tale da evitare che possa essere dichiarata la prescrizione del reato in un momento in cui le cause e gli effetti dello stesso sono ancora in corso, che vengano tutelati i diritti risarcitori delle vittime con adeguati strumenti legali, atti a consentire il recupero delle somme anche nei casi in cui l’imputato abbia gran parte del patrimonio all’estero, che si intervenga con congrue misure di bonifica nelle varie realtà territoriali ed altresì con misure atte a promuovere la ricerca sanitaria per le malattie in questione.

Il vice presidente dell’AFeVA Nicola Pondrano ha analizzato le questioni attinenti al fondo nazionale amianto, oggi incentrato esclusivamente sulla tutela delle «vittime professionali», chiedendo di attribuire adeguate risorse allo stesso, nonché di estendere l’accessibilità alle prestazioni di tale fondo anche ai familiari dei lavoratori deceduti, nonché ai cittadini vittime di esposizione ambientale.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:

«PESCE. Signor Presidente, anzitutto ringrazio lei ed i componenti della Commissione.

In effetti, non molti giorni fa abbiamo subito una fortissima delusione quando la prima sezione della Corte di cassazione ha dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale e doloso nella sua permanenza. Come sapete, il reato è stato prescritto in quanto è stata considerata la decorrenza della prescrizione – ricordo che la richiesta di annullamento della sentenza per prescrizione è stata avanzata dallo stesso procuratore generale – a partire dalla chiusura dello stabilimento, avvenuta nel 1986. Noi saremmo stati ben lieti se, con la chiusura dello stabilimento, si fosse verificata anche la sparizione dell’amianto, del mesotelioma e delle altre malattie amianto-correlate; purtroppo non è stato così dal momento che subiamo tuttora gli effetti e le cause del disastro.

Secondo questo principio una bomba a orologeria fatta scoppiare in una piazza, in un palazzo, in più piazze o in più palazzi, viene ad essere in qualche modo legale, purché l’esplosione avvenga un minuto dopo la decorrenza dei termini di prescrizione. Sarebbe così del tutto impossibile perseguire un terrorista che facesse scoppiare una bomba a distanza nel tempo, in modo tale da preservarsi da un reato di questo tipo.

Purtroppo, però, torno a ribadire che le cause e gli effetti del disastro sono ancora in corso. Quindi, dichiarare prescritto un reato di questo tipo è un problema di dottrina giudiziaria, che forse poteva anche avere luogo un centinaio di anni fa, quando l’amianto si conosceva, ma non in modo approfondito come oggi.

Ciò detto, credo che quello a cui teniamo di più è conoscere le intenzioni dello Stato di fronte a situazioni di questo genere. Questa situazione – peraltro non l’unica – in questo modo e considerata l’ingiustizia che è andata ad aggiungersi a quella già subita nel corso di molti decenni durante i quali si sono registrate migliaia di vittime – questi sono infatti i numeri di cui stiamo parlando – è diventata eclatante.

Siamo quindi interessati a sapere se lo Stato intenda o meno attrezzarsi per garantire giustizia anche alle vittime dei reati, oltre che i diritti a chi quei reati li ha commessi. Sembra banale, ma se ci si riflette, ci si accorge che le cose stanno proprio così. Non credo, infatti, che una situazione di questo genere, che provoca ferite enormi in qualunque cittadino e, ancora di più in chi sta tuttora subendo gli effetti del reato, sia degna di ulteriori approfondimenti.

Abbiamo assistito ad una circostanza, tragicamente beffarda, considerato che a Casale la media è di un mesotelioma la settimana (questi numeri si hanno solo a Casale, in Italia il dato è di oltre 1.500 l’anno) e che dopo la sentenza, nel giro di otto giorni, abbiamo registrato cinque decessi per mesotelioma, tra cui quello di una ragazza di 28 anni. Sembra proprio una tragica beffa! La giustizia è stata negata per garantire il diritto a chi ha commesso il reato – riconosciuto dal procuratore – (vi ha fatto riferimento persino il legale dell’imputato).

A nostro avviso lo Stato – il primo ministro Renzi ce lo ha garantito – d’ora in avanti rispetto a situazioni di questo tipo dovrà costituirsi parte civile, cosa che non è avvenuta in questo processo. Oltre che per le morti, ci sono altri 1.000 motivi per tale iniziativa da parte dello Stato, non fosse altro che per le spese ingenti che ricadono sull’Erario a causa delle migliaia e migliaia di ammalati e delle enormi quantità di risorse necessarie per la bonifica.

Occorrerebbe poi – ci siamo rivolti in tal senso al Consiglio superiore della magistratura – un’azione di sensibilizzazione e di aggiornamento dell’apparato giudiziario in ordine all’attuale significato di «disastro». Nel codice esiste qualche richiamo, non specifico e labile, a questa fattispecie ma quando è stato formulato non si sapevano prevedere disastri di questo tipo; c’era però l’asserzione secondo cui si rende necessario seguire la dinamica delle situazioni e gli sviluppi negli anni e nei decenni.

Occorrerebbero altresì delle norme tali da impedire interpretazioni, quali quella effettuata in questo caso dalla Corte di cassazione, che la ha portata a dichiarare prescritti reati di questo tipo. Deve essere eliminata la possibilità «vergognosa» – se mi è concesso il termine – di negare la giustizia alle vittime per garantire il diritto all’imputato, quando un’interpretazione diversa sarebbe stata possibile. Occorre impedire, con dei provvedimenti, che si possa spaziare, più o meno allegramente, nell’ambito di interpretazioni di questo tipo, anche perché ciò è veramente umiliante.

C’è poi un’altra questione che emerge e che la «vertenza amianto» (così come noi la definiamo) ha messo in luce, ormai da molti anni, così come anche altre situazioni che hanno visto il verificarsi di disastri nel nostro Paese. Mi riferisco alla possibilità per lo Stato di attrezzarsi per garantire giustizia alle vittime, anche per quanto riguarda i dovuti risarcimenti, se non attraverso l’Avvocatura dello Stato, mediante una sorta di servizio legale messo in atto dallo Stato. Nell’ambito degli incontri svolti presso la Camera dei deputati, la Presidente della Commissione giustizia ci è parsa possibilista circa l’ipotesi di una messa a punto di una sorta di servizio che possa operare a fianco delle vittime; le vittime, infatti, da sole non riescono a mettere in campo tutte le iniziative occorrenti per ottenere, non dico dei favori, ma per lo meno i propri diritti, in quanto vittime..

Faccio solo un piccolo esempio: i beni dell’imputato svizzero Schmidheiny, che si è costruito una fortuna con l’amianto, sono tutti all’estero, per cui, anche a fronte sia del diritto civile che garantisce il risarcimento una volta sancita la colpa con una sentenza, è come se ci dicesse: venite a prenderveli i soldi, se ne siete capaci! Lo Stato può tollerare un atteggiamento di questo tipo invece di garantire, come accade in altri Paesi, un servizio legale che, in base alla legislazione in essi vigente, consente alle vittime di dare luogo a delle azioni anche di carattere legale o, addirittura, delle procure civili? Negli altri Paesi, lo Stato non abbandona a se stessa la vittima che ha subito un reato così pesante. Noi con la nostra Associazione, se pur da soli, facciamo tanto, ma non credo che riusciremo ad arrivare fino in fondo, ovvero a dare luogo anche alle giuste e necessarie azioni di risarcimento. Non ce la facciamo a girare per il mondo e quindi siamo scoperti anche rispetto a queste iniziative

C’è poi un aspetto che affronterà più approfonditamente il vice presidente Pondrano e a cui di seguito accenno brevemente. Ricordo che facciamo parte del Fondo nazionale per le vittime dell’amianto presso l’INAIL – che non so se faccia ancora riferimento al Ministero del lavoro e delle politiche sociali – e che al riguardo esiste il problema, di carattere generale, dello sblocco del Piano nazionale amianto, definito nell’ambito della Conferenza governativa sulle patologie asbesto-correlate di Venezia (novembre 2012), convocata dall’allora ministro Renato Balduzzi.

Un ulteriore grosso problema, cui prima accennava la presidente Fabbri, riguarda le bonifiche. Il relativo piano dovrebbe essere surrogato con altre iniziative per fare in modo che Governo, Regioni ed enti locali recuperino anche risorse adeguate per realizzare interventi veramente accelerati e controllati di bonifica, con al centro informazioni, censimenti e soprattutto servizi pubblici che, in base a piani di bonifica territoriali, garantiscano la raccolta e lo smaltimento dei materiali contenenti amianto. Tutto questo rappresenterebbe una sponda, un aiuto per i cittadini a fronte di un rischio diffusissimo. Anche a Roma il cittadino che nel proprio cortile ha una canna fumaria di amianto e non sa come fare per affrontare il problema, generalmente non riceve risposte adeguate in termini di segnalazione del rischio da amianto. Questa è spesso la situazione in tutte le città e i paesi.

Da anni abbiamo servizi pubblici di raccolta dell’amianto che dovrebbero offrire aiuto ai cittadini, così come abbiamo discariche pubbliche che abbiamo voluto, pur tuttavia, come è noto, oltre il 70 per cento dei materiali contenenti amianto vengono smaltiti in Germania, il che non è da Paese normale, ma è tipico di un Paese che ha una febbre da cavallo e che non sa più che cosa fa. Tant’è che tutti i giorni partono tir carichi di amianto da smaltire in Germania. Ripeto, non abbiamo piani di bonifica che contemplino strutture pubbliche di raccolta e di smaltimento dell’amianto. Da questo punto vista ci si sente abbandonati, e ad eccezione di qualche Regione che sta andando avanti, cercando di recuperare, su questo fronte si è ancora molto indietro.

L’ultimo punto che intendo affrontare è quello della sanità e nello specifico della ricerca sul mesotelioma. Tra le varie patologie questa è la più subdola e, ormai, la più diffusa; talvolta per contrarla non è necessaria un’esposizione massiccia, ma è sufficiente anche quella ambientale, che è normalmente meno massiccia. Basti pensare che a Casale Monferrato dei 50 casi di mesotelioma all’anno registrati circa l’80 per cento riguarda cittadini che non hanno mai messo piede nello stabilimento dell’Eternit.

Il disastro ambientale, dichiarato prescritto, in realtà è ancora in corso e riguarda l’inquinamento e l’esposizione ambientale e non più quella all’interno della fabbrica, anche perché quelli che lavoravano all’interno della fabbrica sono già morti quasi tutti e adesso stanno morendo a centinaia i cittadini che non vi hanno mai messo piede. Questo disastro dichiarato prescritto sta tuttora producendo una strage tra la popolazione!

C’è quindi anche un problema sanitario e finalmente si è costituita in Italia una rete di centri di eccellenza per la ricerca sul mesotelioma. Per quanto ci riguarda, essendo riusciti a riadattare la nostra sanità territoriale con gli ospedali di Casale Monferrato e Alessandria (unico centro non universitario), siamo entrati a far parte di questa rete di centri di eccellenza coordinata dall’università di Torino e dal professor Scagliotti. Questa rete ormai esiste, si tratta quindi di garantire i necessari supporti e coordinamenti e di estendere in tutto il territorio nazionale la messa a punto di percorsi che seguano le vittime di mesotelioma in particolare, ma anche i loro familiari, dalla diagnosi, alla cura, all’assistenza.

Grazie al collegamento e alla sinergia tra i centri che fanno ricerca e propongono nuovi protocolli – l’Italia è stata incaricata due anni fa dall’Europa di coordinare questa rete a livello europeo, ma queste iniziative rischiano talvolta di essere abbandonate – si tenta di dare risposte più efficaci nella cura di questi terribili tumori che, a volte, si manifestano anche dopo decenni dall’avvenuta esposizione. Questo è un altro dei punti che ci sta a cuore, tant’è che il titolo della nostra vertenza è per l’appunto: giustizia, bonifica e ricerca.

La nostra Associazione, nel suo piccolo, è impegnata da 35 anni in questa battaglia. Siamo nati prima come sindacato e abbiamo poi ottenuto convergenze con gli enti locali. Di recente abbiamo ricevuto questo colpo da parte della Cassazione, con la prescrizione del reato, ma ricominceremo a lottare, come del resto avrete appreso anche dalle parole pronunciate in questa sede qualche giorno fa dal dottor Guariniello.

PONDRANO. Ad eccezione di alcuni punti, non ritornerò sui problemi già affrontati dal coordinatore Pesce.

Domani la nostra vicenda finalmente – a distanza di due anni – sarà oggetto della riunione della Conferenza Stato-Regioni e ci consta che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali lo scorso 3 ottobre abbia consegnato la relazione tecnica inerente queste problematiche. Non faccio commenti, se non per segnalare che all’interno di questa nota tecnica si fa riferimento a modifiche di ampliamento del Fondo nazionale per le vittime dell’amianto di cui sono presidente e che è stato istituito con la legge n. 244 del 2007 per poi rimanere dormiente per quattro anni. Ci è voluto il decreto interministeriale n. 30 del 2011 per attivarlo e la nomina del consiglio d’amministrazione è avvenuta nel 2012, il che sta a significare che qualcosa non ha funzionato. È importante cogliere questo aspetto, considerato che si sono determinate delle economie dovute alle contribuzioni dello Stato e delle imprese, ma di fatto il Fondo ha cominciato a funzionare nel marzo 2012.

Il problema non riguarda solo Casale Monferrato ma tutto il Paese e, quindi, prima di farvi il riassunto della situazione, vorrei fornirvi un po’ di dati. Segnalo in primo luogo che quello che sin da subito contestammo del Piano nazionale amianto furono i numeri che parlavano di 34.000 siti contaminati in Italia, di cui 14.000 nelle Marche e 13 in Piemonte, dato quest’ultimo che balzò immediatamente ai nostri occhi che in Piemonte siamo nati; è chiaro quindi che qualcosa non collimava e che quel censimento era mal fatto soprattutto se si pensa che «Il Sole 24 Ore» della settimana scorsa parla di oltre 500.000 siti contaminati in Italia.

In Piemonte, attraverso un sistema di rilevazione dall’alto, sono stati individuati, potenzialmente, 89.000 siti contaminati. Si tratta di numeri impressionanti, che ci devono veramente far riflettere e rispetto ai quali siamo chiamati ad individuare delle priorità e, sotto il profilo della prevenzione, sono portato a dire che la priorità assoluta per un Paese come il nostro, stanti i dati in nostro possesso, è costituita dalle scuole e in genere dagli edifici pubblici. Quindi, una priorità esiste e, ripeto, è rappresentata dalle scuole, ed è un’emergenza sul piano sociale e sanitario.

Altra considerazione. Il presidente Renzi ha dichiarato che lo Stato è pronto a costituirsi parte civile e ha lamentato il fatto che fino ad oggi questo non sia avvenuto. Inoltre, la stampa, compresa quella odierna parla al riguardo di 258 rinvii a giudizio per omicidio, dolo eventuale e – addirittura – omicidio volontario. Ebbene, vorremmo al nostro fianco un ufficio giuridico dello Stato che ci supportasse nella nostra azione che non deve essere un’avventura. Forti della nostra esperienza e delle amarezze che abbiamo dovuto ingoiare in questi giorni, riteniamo che varrebbe la pena attrezzarsi un po’ meglio.

Detto questo, vorrei tornare alla questione del Fondo per le vittime dell’amianto, rispetto alla quale in questi ultimi due anni ci siamo spesi molto, vivendo anche momenti di confronto, a cominciare da quello con l’allora ministro Fornero, che aveva recepito alcune delle nostre istanze. Se infatti andiamo a vedere gli atti riferiti al Piano nazionale amianto, rileveremo in essi una timida intenzione di iniziare ad allargare la platea di questo Fondo a quanti hanno contratto patologie nell’ambito familiare delle vittime. Questo non era certo quello che avremmo voluto considerato che il Fondo nasce nel 2007 con un finanziamento molto limitato, ovvero 30 milioni di euro a carico dello Stato e 10 milioni di euro a carico delle imprese. Questa somma, peraltro, valeva solo per gli anni 2008, 2009 e 2010, dal momento che dal 2011 in poi il contributo a carico dello Stato ha subito una riduzione, diventando di 22 milioni di euro che corrispondono poi alle somme che stiamo erogando per prestazioni aggiuntive. La platea dei destinatari in Italia è composta da circa 17.000 persone, di cui circa 6.000 sono le persone viventi che hanno contratto patologie amianto-correlate (asbestosi polmonare, cancro al polmone, mesotelioma polmonare). Poi questa platea di cittadini che è quasi una città che cresce, stranamente, si modifica nei numeri in virtù del fatto che l’età media di sopravvivenza di un ammalato di mesotelioma è pari a 10,2 mesi. Da quale categoria di persone è rappresentato allora questo incremento? Da quella dei vedovi o delle vedove, ovvero dei titolari di rendite ai superstiti.

Uno studio di consulenza tecnica attuariale commissionato all’INAIL segnala che, nel 2022, questo numero potrà essere pari a 26.000, rispetto ai 16.700 di oggi. Ciò sembra incredibile se si pensa che l’amianto è stato bandito nel 1992. Ciò vuol dire che gli strumenti diagnostici si sono affinati, laddove prima eravamo di fronte a un pianeta totalmente inesplorato. Sono stati individuate più di 1.000 lavorazioni – dalle tessiture, all’industria dell’auto, alla chimica e via dicendo – dove si manipolava e si utilizzava l’amianto. Quindi stiamo parlando di numeri che stanno diventando importanti; anzi, già lo sono.

A fronte di questo rilevante dato numerico, l’elemento che intendo sottolineare è che al riguardo si sta consumando uno strappo.

In riferimento ai cancerogeni professionali e alla luce della più volte citata sentenza, ho elaborato in forma scritta delle riflessioni che consegnerò agli atti della Commissione, in cui si evidenzia la necessità di una revisione profonda del sistema indennitario (in qualche modo analoga a quella che auspichiamo per il sistema giudiziario rispetto al tema delle prescrizioni). In questo caso siamo di fronte allo stesso problema, dal momento che il nostro ordinamento assicurativo non può mettere sullo stesso piano un amputato di un arto (che certo ha una pessima qualità di vita, ma una discreta aspettativa di vita) ed un ammalato affetto da mesotelioma pleurico (che ha una pessima qualità di vita e zero aspettative di vita), eppure a entrambi viene erogata la medesima somma. Ci rendiamo conto dell’assurdità di questo sistema? Ciò che eroghiamo è quindi una prestazione aggiuntiva che viene garantita solo ai lavoratori colpiti da forme cancerogene da amianto. Nel merito ci sarebbe da disquisire anche dal punto di vista costituzionale, perché un ammalato di cancro alla vescica nell’ambito del lavoro svolto in agricoltura o nel settore della chimica potrebbe legittimamente chiedersi per quale ragione non gli venga erogata una prestazione aggiuntiva, e questa è la prima considerazione che mi sembrava importante fare. Quando parlo di revisione, mi riferisco quindi ad una azione che vada nella direzione di una modifica sostanziale da parte dell’INAIL.

Se si analizzano i dati del Registro nazionale mesoteliomi (ReNaM) e andiamo a disaggregarli, riscontreremo che in Italia muoiono più di 1.500 persone all’anno a causa dell’amianto (sto parlando solo di mesoteliomi): dei quali 692 (pari a circa il 46,6 per cento) vengono riconosciuti dall’INAIL come decessi dovuti ad una esposizione professionale. Ripeto: il 46,6 per cento sul totale dei 1.500 casi. Il dato relativo al Piemonte è invece molto diverso, non tanto per ciò che concerne il lavoratore direttamente esposto, quanto per quanto riguarda i familiari dei lavoratori deceduti, e i cittadini vittime di esposizione ambientale. Il dato relativo ai familiari dei lavoratori deceduti è pari al 4,4 per cento mentre quello riferito alle vittime di esposizione ambientale è pari al 4,6 per cento. Rispetto a quanto sottolineato dal collega prima intervenuto, verrebbe da chiedersi se ci sia qualcosa che non quadra. Ad esempio, se prendiamo i dati di Casale Monferrato o del Piemonte, la somma dei decessi per esposizione familiare e quelli per esposizione ambientale è già pari al 25 per cento. Ciò vuol dire che per esposizione ambientale si muore solo a Casale Monferrato e questo perché in quell’area si trova la più grande fabbrica d’amianto d’Europa dismessa e abbandonata, ma non chiusa e questo è un elemento da tenere in considerazione. Si tratta infatti di una fabbrica di 90.000 metri quadrati abbandonata a se stessa, possiamo quindi immaginare la enorme dispersione di fibre d’amianto ed è lì che si consuma il dramma. Personalmente lo considero quasi un martirio, perché quando muoiono padri di famiglia di 35-40 anni siamo veramente di fronte ad una strage di persone, di civili, a fronte della quale non vi è alcuna previsione giuridica, assicurativa o economica. Pertanto se al dato già citato del 46,6 per cento relativo alle vittime professionali da amianto riconosciute, sommiamo quello riferito ai familiari dei lavoratori deceduti e ai decessi per esposizione ambientale, pari al 10 per cento, raggiungiamo un platea di 850 persone su 1.500. Anzitutto occorre premettere che oggi i familiari dei lavoratori deceduti e le vittime da esposizione ambientale non vedono il riconoscimento dei loro diritti. C’è poi un altro limbo (altre 650 persone) costituito da coloro che non sono stati in grado di dimostrare il nesso eziologico con la lavorazione cui attendevano magari nell’ambito di fabbriche o aziende che sono state chiuse o che sono fallite. Stiamo parlando di patologie che hanno un periodo di latenza di 40, 45, 50 anni. Siamo quindi di fronte ad un paese veramente spaccato a metà dal momento che circa la metà di queste persone, compresi i familiari dei lavoratori deceduti e i cittadini vittime di esposizione ambientale non fruiscono di alcun riconoscimento.

Quanto al Fondo, come già segnalato, nel periodo tra l’attivazione della contribuzione da parte dello Stato e delle aziende e la nostra nomina che risale al marzo del 2012, si sono determinate delle economie di un certo rilievo pari a 30,8 milioni, perché le liquidazioni degli anni antecedenti sono state fatte in misura forfettaria (20 per cento il primo anno, 20 per cento il secondo anno, 15 per cento il terzo). Su queste economie abbiamo lavorato rischiando di essere, non dico deferiti alla Corte dei conti, in ogni caso tirando il freno a mano. Abbiamo considerato che dal momento che vi era una legislazione in movimento fosse importante non buttare via queste risorse, ma destinarle, per cui nel caso fosse mutato lo scenario e il legislatore avesse fatto proprie le nostre considerazioni, avremmo potuto estendere questi benefici agli altri soggetti utilizzando appunto queste risorse.

Non ce l’abbiamo però fatta e il 13 dicembre dell’anno scorso, dal momento che non c’era un escamotage migliore, siamo stati costretti a spalmare queste risorse nei successivi dieci anni, anche se devo segnalare che tali risorse non sono state ancora utilizzate.

Se consultiamo gli atti della Conferenza governativa sulle patologie asbesto-correlate, leggeremo che, secondo l’allora ministro Fornero, vi erano spazi per la valutazione dell’implementazione dei fondi disponibili attingendo dagli avanzi di gestione del fondo per un importo di almeno 10 milioni di euro. Sapendo che c’erano delle economie, si cominciavano a riconoscere almeno i diritti dei familiari. Noi oggi parliamo di estendere tale riconoscimento ai cittadini vittime di esposizione ambientale, ma in realtà tale riconoscimento dovrebbe ricomprendere tutti. In questo caso non si pongono problemi con il Ministero dell’economia e delle finanze (dalla nota del Ministero si evince che non ci sono oneri aggiuntivi).

C’è un principio che per essere sancito dal punto di vista giuridico necessita di un intervento legislativo perché un conto è risarcire un lavoratore – e in tal caso rientriamo in ambito assicurativo così come previsto dal decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 – altro è parlare – come dichiara oggi il Ministero nella sua relazione – di una prestazione assistenziale in favore dei familiari (circa 75 in tutta Italia).

Se però ci si richiama ad un concetto assistenziale si impone allora una riforma profonda del sistema e dello stesso Fondo. In Francia c’è il Fonds d’indemnisation des victimes de l’amiante (FIVA), un fondo alimentato con 360 milioni di euro, che però opera nell’ambito della securité générale e del sistema previdenziale. Da questo punto di vista, sostenere che l’INAIL debba erogare prestazioni assistenziali mi fa pensare che ci sia qualcosa che non quadra.

Questo è il quadro di riferimento sul quale noi vorremo ci fosse un pronunciamento. So che al riguardo sono state presentate delle proposte emendative. Per quanto ci riguarda abbiamo provato a fare dei calcoli prendendo a riferimento il minimo tabellare di un lavoratore dell’industria, considerato che a un lavoratore o a un familiare non si può erogare una prestazione aggiuntiva di 1.500 euro annui – le prestazioni aggiuntive sono di questa consistenza – ma una prestazione che in riferimento al minimo tabellare, dovrebbe aggirarsi intorno ai 16.000 euro.

PESCE. In senso perequativo rispetto alle vittime professionali.

PONDRANO. Sono piccole somme rispetto a quelle a disposizione e che sono tutt’ora inutilizzate».



Ulteriori elementi, da approfondire nel corso dell’inchiesta, sulla Conferenza nazionale sull’amianto del 2013

Nel caso della lotta ai danni provocati dall’amianto, sarebbe opportuno avere una relazione dettagliata sui contenuti emersi dalla Conferenza nazionale sull’amianto del 2013, che il professore Balduzzi, già contattato, potrà aiutarci a leggere nelle problematiche ancora aperte e nella giusta luce.

Rientra nelle facoltà di questa Commissione la possibilità di contatti e di valutazione della documentazione della Conferenza europea sull’amianto, che ha approvato una risoluzione che indica le iniziative necessarie da adottare in Europa e in tutto il mondo per porre fine entro un ventennio alla presenza dell’amianto nel mondo.

Oggi il contesto europeo è il quadro minimo entro cui muoversi, avendo una qualche possibilità di affrontare gli aspetti più impegnativi entro un contesto più strutturato.

Occorre un’audizione di quelle regioni che ancora non hanno provveduto alla mappatura dei loro territori rispetto alla presenza della fibra killer.
Nel prosieguo dell’inchiesta la Commissione farà ulteriori approfondimenti su tali aspetti.



Audizione delle associazioni: Alleanza delle cooperative italiane, UNCI, COLDIRETTI, CONFAGRICOLTURA e Confederazione italiana agricoltori

Nella seduta del 3 febbraio 2015 sono intervenuti i rappresentanti delle associazioni: Alleanza delle cooperative italiane, UNCI, COLDIRETTI, CONFAGRICOLTURA e Confederazione italiana agricoltori.

Il dottor Gizzi, dopo aver evidenziato preliminarmente che la disciplina di cui al citato decreto legislativo n. 81 del 2008 risulta calibrata soprattutto sulle esigenze della grande impresa manifatturiera, ha sottolineato le specificità delle imprese riconducibili al settore della cooperazione, delle quali occorre tener conto per l’individuazione di efficaci politiche di sicurezza sul lavoro, che siano ispirate soprattutto da logiche premiali e preventive, soffermandosi altresì sulla necessità di assicurare un’uniformità applicativa delle normative settoriali nei vari territori regionali, come pure in ambito europeo e infine sull’andamento infortunistico, attualmente decrescente.

Il dottor Riciputi ha richiamato l’attenzione sul settore dell’edilizia – in merito al quale ha sottolineato criticità rispetto al documento unico di regolarità contributiva (DURC) online, come pure sulla cosiddetta «patente a punti», di cui all’articolo 27 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008, per la quale occorre una normativa di attuazione – sul settore dell’agricoltura, per il quale il trend infortunistico è in calo, anche se restano prioritari gli aspetti relativi alla messa in sicurezza dei macchinari, ed infine sul comparto dello spettacolo – in cui la sicurezza sul lavoro inerisce soprattutto alle attività di predisposizione dei palchi – rispetto al quale richiama l’attenzione anche sui cosiddetti «contratti pirata», posti in essere da soggetti che non investono in modo adeguato sulla prevenzione.

Il dottor Baldelli ha sottolineato l’esigenza di improntare le politiche per la sicurezza su una logica premiale, imperniata sugli incentivi INAIL e sulle risorse tratte dai fondi interprofessionali, richiamando altresì l’attenzione sulla necessità di dar vita ad un’agenzia unica delle ispezioni, nonché di promuovere forme di lavoro tendenzialmente stabili e, per tale ragione, maggiormente compatibili con la sicurezza.

Il dottor Borgoni ha sottolineato un trend decrescente degli infortuni nel settore agricolo, soffermandosi altresì sulle peculiarità del comparto, nel quale operano numerosi lavoratori autonomi, sulle problematiche attinenti all’utilizzo delle macchine agricole ed infine sull’esigenza di non includere gli interventi sulla sicurezza nell’ambito del regime de minimis.

Il dottor Rotundo ha richiamato l’attenzione su talune peculiarità del settore agricolo, fra le quali la massiccia presenza di lavoratori autonomi, come pure di «hobbisti» sprovvisti di assicurazione, l’invecchiamento degli operatori, l’esigenza di evitare inutili duplicazioni di attività formative, la semplificazione, non sempre soddisfacente per il comparto, la revisione delle macchine agricole ed infine la governance dei controlli pubblici.

La dottoressa Merlino, dopo aver sottolineato un calo statistico degli incidenti sul lavoro nel comparto di riferimento, si è soffermata sulle criticità attinenti alla mancata attuazione delle misure di semplificazione, sui profili inerenti alla premialità, all’adeguamento delle macchine agricole ed infine al registro unico dei controlli per le imprese agricole, attualmente non attuato.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:

«GIZZI. Desidero innanzitutto ringraziare il Presidente e i membri della Commissione parlamentare d’inchiesta per l’invito all’odierna audizione. A nome dell’Alleanza delle Cooperative dobbiamo osservare, in via preliminare che, per quanto si tengano presenti le diverse specificità del tessuto imprenditoriale italiano, il decreto legislativo n. 81 del 2008, contenente il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, rimane baricentrato sulle dinamiche della grande impresa, in particolar modo manifatturiera. Peraltro, tale normativa fu elaborata in un contesto ben diverso dalla crisi economica che stiamo vivendo in questo momento.

Ciò premesso, che si tratti di impresa grande o piccola, manifatturiera o meno e che ci si trovi in una condizione di crisi oppure no, resta invariata la considerazione che facciamo da tempo e che viene costantemente ribadita, secondo cui la sicurezza sul lavoro rappresenta un’interazione di responsabilità che non può prescindere da un’azione pronta e generosa di tutte le parti sociali coinvolte. Oltre al comportamento virtuoso delle imprese, riteniamo infatti che anche i lavoratori abbiano un ruolo fondamentale, poiché la rilevanza della condotta negligente del lavoratore, in concorso di colpa, può rappresentare un problema per ciò che riguarda i temi della sicurezza. Quindi la salute e la sicurezza del lavoro devono estrinsecarsi nel modo stesso in cui l’impresa organizza la sua strategia lavorativa. Questa considerazione è ancor più valida nel mondo cooperativo, dove esiste la consustanzialità del rapporto tra socio e lavoratore: è infatti fondamentale tenere presente che al centro del nostro sistema c’è il socio.

È dunque per noi estremamente importante – e in questo modo rispondo alla sollecitazione iniziale della Presidente – il costante rilancio dell’investimento sulle politiche di prevenzione che negli ultimi anni hanno contribuito a una riduzione complessiva delle percentuali e del numero degli infortuni sul lavoro. Nel caso degli incidenti, riteniamo che giocare d’anticipo sia cruciale. Secondo l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, per ogni euro speso nei programmi antinfortunistici il ritorno è pari al doppio della cifra investita. In questo senso registriamo positivamente quanto fatto dall’INAIL. Privilegiando infatti la logica della promozione e del sostegno rispetto a quella della mera repressione, sono stati finanziati dei progetti, seguendo un’ottica di premialità per le imprese che decidono di investire nella sicurezza, migliorando la condizione degli ambienti di lavoro. Ricordo i 300 milioni di euro stanziati nel 2014, attraverso i bandi ISI e FIPIT (Finanziamenti alle imprese per progetti di innovazione tecnologica). A ciò si accompagnano gli sconti denominati OT/24, riconducibili all’oscillazione del premio per la prevenzione, per le imprese operative da almeno un biennio, che eseguono interventi per migliorare le condizioni di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, in aggiunta a quelli minimi previsti dalla legge.

Per ciò che riguarda il capitolo della prevenzione, come parte sociale abbiamo offerto il nostro contributo, non solo condividendo con l’INAIL la finalità dei bandi e sensibilizzando e supportando le nostre associate, ma anche in autonomia, come dimostra ad esempio il settore della pesca cooperativa – che è molto importante nel nostro ambito – nell’ambito del quale è stata condivisa, in alcuni territori, un’esperienza congiunta tra associazioni cooperative e sindacati confederali sulla prevenzione e l’informazione in materia di sicurezza per i soci e i lavoratori del settore.

Riteniamo che però non basti solo il consolidamento delle azioni di prevenzione, perché a distanza di molti anni dal varo del più volte citato testo unico appare ancor più necessaria una normativa maggiormente vicina alle caratteristiche delle piccole e medie imprese, che comprenda, quindi, anche le specificità delle imprese cooperative, stante l’obiettivo concreto di assicurare l’effettiva applicazione delle misure di sicurezza nelle imprese e non solo di affermare principi condivisibili a livello universale. Su questo aspetto registriamo l’esperienza positiva di adattamento della normativa, attraverso il decreto interministeriale del 13 aprile del 2011, che all’articolo 7 detta norme ad hoc per le cooperative sociali.

Abbiamo poi l’ulteriore necessità di un’uniformità applicativa all’interno del sistema regionale, che costituisce uno dei problemi relativi al testo unico. Guardando a una prospettiva più ampia e considerando anche le possibili implicazioni in termini di differenziali di competitività per le imprese, c’è però bisogno anche di un’armonizzazione della normativa a livello europeo: questo è un aspetto emerso in maniera evidente nel convegno internazionale organizzato a Roma, nei giorni 4 e 5 dicembre 2014, durante il semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea.

Riteniamo dunque imprescindibile il ruolo delle parti sociali, il cui valore non a caso è riconosciuto nel testo unico, anche attraverso una maggiore valorizzazione dei lavori della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, appena ricostituita dal Ministero competente, chiamata ad offrire utili spunti di riflessione sulle possibili ulteriori semplificazioni da apportare alla materia. Sono infatti le parti sociali i soggetti che meglio conoscono gli ambienti e i processi di lavoro rispetto ai quali vanno assicurate le sicurezze e valutati i rischi connessi che, contrariamente ad un errato tentativo di omologazione, non sono tutti uguali, né tutti elevati. Ciò non toglie che condividiamo alcune indicazioni già emerse davanti a questa Commissione, registrando, dal nostro angolo di osservazione, un calo degli infortuni negli ultimi anni, sia in termini generali che nelle nostre cooperative, ciò in linea con la riduzione complessiva e la presenza di settori dove maggiori sono i rischi e quindi più ricorrenti gli infortuni, settori per noi riconducibili all’edilizia, all’agricoltura e allo spettacolo, in cui operano molte delle nostre imprese cooperative. Lascio dunque la parola ai miei colleghi, per parlare di questi specifici settori.

RICIPUTI. Per ciò che riguarda il settore dell’edilizia, dal nostro angolo di osservazione abbiamo registrato una riduzione degli infortuni. Viene naturale fare una considerazione banale: in edilizia si perdono posti di lavoro e dunque è ovvio che calino gli infortuni, ma in realtà tale calo, in misura percentuale, è stato maggiore rispetto alla perdita di ore di lavoro. A ciò hanno contribuito le misure premiali dell’INAIL e le buone prassi in atto nelle nostre imprese, soprattutto in quelle più strutturate, ma anche la legislazione. Mi riferisco in particolare alla normativa sul Documento unico di regolarità contributiva (DURC) di cantiere e all’articolo 118 del decreto legislativo n. 163 del 2006, in materia di appalti, che aveva previsto il concetto di «congruità»: tali norme hanno indubbiamente contribuito alla riduzione degli infortuni.

La norma sulla congruità è stata sicuramente un elemento utile, ma c’è una criticità connessa alla previsione del DURC online, contenuta all’interno del decreto-legge n. 34 del 2014, del ministro Poletti, recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. In seguito a tale norma sul DURC online, infatti, non sarà più possibile verificare la congruità dell’incidenza della manodopera.

Indubbiamente il DURC online risponde a delle sacrosante esigenze di semplificazione per le imprese, ma bisogna fare attenzione al fatto che la semplificazione, pur rilevante, non vada a scapito degli importanti adempimenti in termini di sicurezza.

Sempre per quanto riguarda l’edilizia, un’altra criticità è data dalla cosiddetta patente a punti, di cui all’articolo 27 del testo unico sulla sicurezza. In questo ambito la patente a punti potrebbe contribuire, ed uso appositamente il condizionale presente, ma in realtà avrei dovuto usare il passato; nello specifico si tratta di uno strumento che attraverso un meccanismo di bonus-malus, fa sì che il punteggio iniziale di dotazione per le imprese diminuisca in caso di sanzioni per le violazioni in materia di sicurezza sul lavoro. L’azzeramento del punteggio, oltre ad impedire la partecipazione agli appalti pubblici e l’ottenimento di incentivi e contributi da parte dello Stato, è causa ostativa per il rilascio del DURC. In questo caso, però, la procedura si è bloccata perché manca il decreto attuativo. Pertanto, questa norma, che – come dicevo – avrebbe potuto offrire un valido contributo, per il momento non c’è.

Con riferimento al settore agricolo, la nostra organizzazione ribadisce il proprio impegno a promuovere la legalità e la sicurezza delle nostre imprese cooperative, come testimoniato dagli avvisi comuni che con le altre associazioni datoriali più rappresentative e con i sindacati abbiamo più volte sottoscritto sul tema.

Registriamo inoltre con favore quanto dichiarato a questa Commissione dal ministro Poletti e dal presidente dell’INAIL De Felice. Il mio collega ha prima parlato della promozione di interventi dedicati a questo comparto; penso, ad esempio, al recente bando FIPIT dell’INAIL, che è rivolto, in questo caso, anche alle piccole imprese edili, con un sostegno economico a favore dei necessari interventi di messa in sicurezza delle macchine, spesso datate e prive degli elementi di tutela e, per questo, causa di incidenti. Se non ricordo male, ciò è stato ricordato anche dal ministro Poletti.

Nei primi nove mesi dell’anno 2014 registriamo una parziale riduzione del livello degli infortuni nel settore (2 per cento) rispetto allo stesso periodo del 2013, anche se, purtroppo, si osserva un incremento delle malattie professionali.

Nel settore dello spettacolo dobbiamo purtroppo registrare degli incidenti, in occasione soprattutto della preparazione e degli allestimenti degli spettacoli, mi riferisco al crollo di alcuni palchi che hanno provocato dei decessi. Su questo tema da tempo abbiamo attivato con le organizzazioni sindacali un gruppo di lavoro ad hoc che ha prodotto una serie di proposte in materia di sicurezza che, in parte, sono confluite nel decreto ministeriale (il cosiddetto decreto palchi). Si tratta di un provvedimento che, malgrado necessiti di alcuni aggiustamenti, costituisce però sicuramente un punto di partenza per una nuova cultura della sicurezza in questo comparto. Si sta lavorando sulle linee guida e cercheremo quindi di fornire dei suggerimenti in ordine ai correttivi che si rendono necessari.

C’è poi un altro aspetto degno di nota in questo settore. Mi riferisco al fatto che come movimento cooperativo abbiamo sottoscritto con le organizzazioni sindacali più rappresentative il primo contratto collettivo dello spettacolo per il comparto cooperativo in vigore dal 1º gennaio di quest’anno. Tale contratto conferisce sicuramente un forte elemento di legalità nell’ambito di un mercato dove, purtroppo, proliferano le false cooperative e i cosiddetti contratti pirata e purtroppo lo scontiamo sulla nostra pelle. Mi riferisco a contratti che, oltre a prevedere dei forti ribassi, non tengono assolutamente in considerazione le norme sulla sicurezza su cui invece il nostro contratto investe molto.

BALDELLI. Signor Presidente, mi accingo alle conclusioni.

Nei settori appena menzionati – che sotto il profilo alla nostra attenzione rappresentano le maggiori problematicità – così come sul piano generale, rileviamo che la crisi in atto sta rendendo sempre più difficile per le nostre imprese cooperative sostenere tutto il carico derivante dagli obblighi previsti dalla legge in materia di sicurezza sul lavoro e, quindi, proprio in termini di sostenibilità, peraltro – come richiamato precedentemente – a fronte di una competizione che si fa sempre più forte. Pur tuttavia, una parte del nostro sistema – ad esempio le cooperative sociali – contribuisce attivamente a reimpiegare e favorire il reinserimento lavorativo di soggetti, tra cui quelli che hanno subito incidenti o che comunque sono titolari di indennità.

Il nostro auspicio è pertanto che venga rivolta una maggiore attenzione oltre che ad una logica premiale (laddove, ovviamente, vi siano le condizioni e buone performance), anche al sistema in termini di sostenibilità, evitando di caricare esclusivamente sulle imprese gli obblighi legati alla sicurezza sul lavoro. In altre parole, è difficile assolvere agli obblighi di legge se non vi è ad esempio la possibilità di utilizzare leve esterne, quali gli incentivi dell’INAIL o le risorse dei fondi interprofessionali. Gli incentivi INAIL possono costituire sicuramente una leva. Un’altra leva, per quanto ci riguarda, può essere rappresentata anche dall’utilizzo della formazione continua e, quindi, dei fondi interprofessionali. Da questo punto di vista come sistema cooperativo, pur avendo investito fortemente nel nostro fondo interprofessionale Fon.Coop (che, peraltro, ha appena compiuto dieci anni), ci troviamo però a riscontrare una certa rigidità, spesso e volentieri anche da parte di interlocutori sindacali, e quindi nell’impossibilità di utilizzare queste risorse per la formazione obbligatoria.

Ciò nonostante, abbiamo avuto dei risultati che sintetizzo in questi pochi dati: nel 2007 il nostro fondo interprofessionale, peraltro in anticipo rispetto ad altri fondi che hanno poi seguito la nostra stessa strada, ha cominciato a destinare una significativa quantità di risorse alla partita della formazione in tema di sicurezza. Dai dati in nostro possesso, si tratta di circa 2,4 milioni di euro che hanno interessato un numero significativo di imprese e, a cascata, anche di lavoratori.

Il ricorso al fondo interprofessionale e a questa leva formativa a nostro avviso trova ragione, in primo luogo, nella difficoltà di reperire ulteriori risorse da parte delle imprese e, in secondo luogo, nell’avvio, con la formazione in sicurezza, di attività formative più strettamente legate alle specificità delle imprese.

Mi avvio a concludere segnalando un altro aspetto che riveste per noi assoluto rilievo, mi riferisco alla necessità di dare vita ad un’agenzia unica delle ispezioni. In tema di sicurezza sul lavoro riteniamo infatti di particolare importanza la realizzazione di azioni di prevenzione, formazione, sensibilizzazione e semplificazione, ma soprattutto una costante attività di monitoraggio ed ispezione, sviluppata mettendo insieme i dati ed integrando i diversi sistemi.

Auspichiamo che l’intervento apportato dalla delega in attuazione della norma possa finalmente contribuire a far sì che questa agenzia unica delle ispezioni scoraggi gli abusi e punisca le irregolarità, non gravando a prescindere sulle imprese e sulla loro competitività.

Ciò è tanto più vero, come peraltro richiamato, in un’ottica di competizione con altre cooperative che tali non sono, perché sono false o utilizzano contratti che, dal nostro punto di vista, non hanno legittimità e molto spesso, anzi, si incrociano con livelli e condizioni di sicurezza del tutto carenti.

Infine, crediamo che il tema della sicurezza sul lavoro possa beneficiare positivamente di una legislazione del diritto del lavoro che sempre più vede nel lavoro a tempo indeterminato, o comunque in forme di lavoro tendenzialmente stabili, la regola comune. Sotto questo profilo c’è a nostro parere un effetto indiretto da non trascurare, così come in materia di normativa previdenziale (peraltro in odore di riforma) potrebbero esserci degli effetti positivi sul tema della salute e della sicurezza.

Queste, in sintesi, le nostre considerazioni.

BORGONI. Signora Presidente, ringrazio la Commissione per averci dato la possibilità di esprimerci su questa partita.

Ho avuto modo di esaminare le relazioni e i verbali delle audizioni precedenti del ministro Poletti e del Presidente dell’INAIL e vorrei approfittare dell’occasione per dare informazioni più di dettaglio rispetto alla situazione degli infortuni mortali e delle denunce di infortunio nel settore agricolo; credo che ciò possa contribuire ad una lettura più puntuale in ragione delle possibili scelte sia del legislatore che dell’INAIL in materia di maggiore efficacia degli interventi e quindi rispetto agli obiettivi da porsi.

Per tracciare un quadro della situazione dico subito che dal 2007 al 2013 (sono gli ultimi dati disponibili a cui è possibile avere accesso) le denunce di infortunio hanno subito un calo importante, passando da 57.000 a 40.000; si tratta quindi di 17.000 denunce in meno e se teniamo presente che solo dieci anni prima, cioè nel 2004, erano 69.000, possiamo farci un’idea chiara di quale sia il trend nel settore agricolo. Analogo discorso vale per gli infortuni mortali: erano 175 nel 2004 e siamo scesi sotto la soglia fatidica di 100 nel 2013.

Fin qui si dà un senso positivo a questo percorso, fermo restando che stiamo comunque parlando di persone e sotto questo profilo i numeri relativi a decessi e invalidità non potranno mai costituire un buon risultato finché almeno non si riuscirà ad arrivare allo zero.

È tuttavia importante comprendere che questi dati non riguardano in via esclusiva il personale dipendente, considerato che nel 75 per cento dei casi le denunce di infortunio sono ascrivibili al lavoratore autonomo e nel 65 per cento dei casi mortali è ascrivibile al datore di lavoro autonomo. Questa è una particolarità del settore e deve poter essere assunta a riferimento nelle strategie di contrasto al fenomeno infortunistico. Se poi consideriamo che oltretutto, tra questi lavoratori autonomi, della platea complessiva delle aziende datrici di lavoro (che nel 2013 sono state 193.400), poco più del 50 per cento (forse il 51 per cento) orbita nell’ambito dell’associazionismo dei datori di lavoro, ci accorgeremo che c’è una grossa fetta di aziende che sono fuori da tutti i flussi formativi e informativi che le associazioni sono in grado di assicurare.

Questa è una puntualizzazione importante, perché soprattutto nelle piccole aziende è l’imprenditore ad essere maggiormente esposto al rischio e in agricoltura i pericoli, soprattutto di incidenti gravi o mortali, sono riferibili soprattutto all’utilizzo delle macchine agricole, dei trattori e delle macchine semoventi. Pertanto, riuscire a coniugare queste due variabili per avere un obiettivo d’intervento significa sicuramente agire in maniera efficace. Consentitemi di fare un esempio molto semplice: nel 2014 il bando FIPIT (Finanziamenti alle imprese per progetti di innovazione tecnologica) dell’INAIL è riuscito a coniugare perfettamente questi obiettivi, tra cui quello di intervenire sul lavoratore autonomo in quanto principale utilizzatore della macchina agricola, perché generalmente, anche quando è datore di lavoro, l’attività di utilizzo della macchina agricola la svolge lui e non i dipendenti, che solitamente sono stagionali dedicati alla raccolta e a operazioni non di elevata specializzazione. Certo è che un trattore, sia esso utilizzato dall’imprenditore o dall’operaio agricolo specializzato come trattorista, è bene che sia comunque a norma. Ciò va dunque a beneficio anche del comparto dei lavoratori dipendenti, ma chiaramente il bando FIPIT agisce sui trattori, dando il massimo punteggio proprio all’intervento sul mezzo che espone di più al rischio di infortuni in agricoltura; aggiungo che si interviene su trattori vecchi visto che si assegna il massimo punteggio in base alla data di immatricolazione, quindi questo bando è sicuramente uno strumento importante, tanto quanto lo sono gli accordi sui sistemi di formazione. Qui però c’è un problema. Per quanto l’intervento sia mirato, stanzi finanziamenti importanti e sia calibrato sulla realtà della piccola impresa, resta sempre il problema del regime de minimis. Prendiamo il caso di un’impresa con meno di nove dipendenti che assume un apprendista: siccome al di sotto dei nove dipendenti l’abbattimento dall’11 all’1,61 per cento dell’aliquota contributiva per il lavoratore rientra nell’ambito della disciplina del regime de minimis, quel datore di lavoro avrà problemi ad accedere al bando FIPIT. Ho fatto il caso dell’apprendista, ma ci sono altre ipotesi di finanziamento che ricadono nell’ambito degli aiuti de minimis. È chiaro però che, se si utilizza quella riserva di disponibilità di 15.000 euro su un versante, poi l’imprenditore avrà problemi ad utilizzarla su un altro.

Sicuramente è importante il passaggio che è stato fatto, elevando il limite del de minimis da 7.500 a 15.000 euro. Sarebbe tuttavia altrettanto importante escludere totalmente dall’ambito di applicazione del regime de minimis gli interventi sulla sicurezza, giacché si sta parlando di persone, di vite umane, di sopravvivenza. Proprio per questo ritengo che la disciplina del de minimis non sia compatibile con gli strumenti destinati a garantire la sicurezza del lavoratore, dell’imprenditore e della famiglia imprenditrice.

Prima di concludere, vorrei fare un’ultima osservazione.

Si parla spesso in termini di valori assoluti, indicando un certo numero di denunce di infortuni, tra cui alcuni mortali, nonché di indici di incidentalità molto alti in rapporto al numero degli occupati. Proprio a tale riguardo tengo a sottolineare che in agricoltura forse il riferimento all’indice poteva avere un senso fino ai primi anni 2000. Questo perché mentre nei settori diversi da quello agricolo la riduzione degli infortuni o delle denunce di infortunio può essere correlata al crollo dell’occupazione, tant’è che in presenza di una riduzione dell’occupazione, il decremento del numero degli infortuni di fatto ha mantenuto un equilibrio sull’indice, diverso è il discorso per l’agricoltura. La diminuzione del valore assoluto degli infortuni in agricoltura – anche di quelli mortali – ha comportato un decremento dell’indice per il semplice fatto che dal 2008 in avanti – l’anno spartiacque della grande crisi – l’agricoltura non ha avuto flessioni di occupazione, ma ha saputo mantenere – anzi, in alcuni periodi addirittura incrementare – le giornate di occupazione. È chiaro, quindi, che una riduzione degli infortuni in termini di valori assoluti in agricoltura ha oggi un significato più pesante di quanto non lo avesse fino a qualche anno fa.

ROTUNDO. Buon pomeriggio a tutti, sono il dottor Donato Rotundo ed intervengo qui oggi in rappresentanza di Confagricoltura.

L’intervento del collega Borgoni mi agevola chiaramente il compito, esimendomi dall’approfondire una serie di argomenti, ma forse rispetto ai dati credo possa essere utile offrire alla Commissione qualche input in più.

Comincio col dire – credo in accordo con i colleghi presenti – che, a partire dalla prima disciplina sulla sicurezza sul lavoro varata con il decreto legislativo n. 626 del 1994, ma poi anche con il decreto legislativo n. 81 del 2008, il comparto dell’agricoltura si è trovato di fronte a normative che erano in qualche modo indirizzate a grandi imprese e al settore industriale. Già da allora un po’ da parte di tutti si era fatto notare come le particolari caratteristiche del settore agricolo implicassero però degli interventi specifici, che tenessero conto della peculiarità del settore che, come dicono i dati, non è casuale.

Come ha ricordato il collega che è intervenuto prima di me, abbiamo oggi meno di 200.000 aziende agricole che assumono lavoratori a tempo indeterminato o a tempo determinato. Se pensiamo che l’estensione della sicurezza all’impresa familiare risale al 2008 – e solo per alcune disposizioni – capiremo allora bene come l’ambito di applicazione della disciplina in materia di sicurezza fosse all’epoca estremamente ristretto. Parliamo quindi di 200.000 aziende, a fronte del 1.600.000 censite dall’ISTAT: questo ci aiuta a capire che mondo di aziende non specializzate ruota intorno all’agricoltura.

L’altra questione fondamentale, che ha sempre creato problemi, riguarda il fatto che, a fronte dei circa 1.100.000 lavoratori impiegati nel settore agricolo, solo 100.000 sono assunti con contratto a tempo indeterminato. Dei lavoratori assunti a tempo determinato molti poi – credo più di 300.00 – sono stagionali, quindi impiegati per un numero ristrettissimo di ore, senza dimenticare che in agricoltura l’attività si svolge a cielo aperto e che ci sono lavorazioni peculiari e doppi lavori, nel senso che spesso si lavora non solo in campagna ma anche fuori dall’azienda, senza altresì contare la particolare orografia del suolo italiano, che chiaramente ha implicato ed implica interventi specifici.

Non ritorno sulla questione degli infortuni perché mi sembra sia abbastanza chiara. Volevo però approfondire tre aspetti, estremamente importanti, correlati alla situazione in cui si trova oggi l’agricoltura nel nostro Paese e che probabilmente richiedono un lavoro ulteriore sul versante della prevenzione.

Il primo aspetto si riferisce alla massiccia presenza in agricoltura di lavoratori autonomi, con un 75 per cento degli infortuni che coinvolgono proprio questa tipologia di lavoratori. Questo dato ci fa capire che le aziende specializzate – parliamo probabilmente della maggiore parte di quelle 200.000 imprese che assumono lavoratori a tempo determinato o indeterminato – hanno fatto grandi passi in avanti sul piano della sicurezza, proprio a partire dai dati comunicati.

C’è poi un secondo aspetto importantissimo e riguarda l’invecchiamento degli operatori agricoli. Se andiamo a vedere i dati sugli infortuni potremo osservare che il 50 per cento degli infortuni mortali colpisce lavoratori con un’età superiore a 50 anni, ma la percentuale è molto elevata anche se si considerano i lavoratori al di sopra dei 64 anni. Questo ci fa capire un po’ quali sono le difficoltà – oltre a quelle indicate in precedenza – di intervenire puntualmente su alcune tipologie di infortunio.

C’è poi un terzo elemento che ha portato a travisare molto il concetto di sicurezza in agricoltura. Sicuramente nel settore agricolo si registra uno degli indici di frequenza maggiore di incidenti. Il nostro è in effetti un settore a rischio, soprattutto per l’utilizzo e la presenza delle macchine agricole e su questo bisogna sicuramente lavorare; spesso e volentieri, però, si tende a non analizzare nel dettaglio ciò che avviene, e in questo senso rivolgiamo dunque un invito alla Commissione. Noi abbiamo infatti tutta una serie di aziende – ricomprese all’interno di quel 1.600.000 censite dall’ISTAT di cui dicevamo prima – rappresentata dai cosiddetti hobbisti dell’agricoltura, che non possiamo non considerare quando si va ad analizzare il dato relativo agli infortuni mortali sulle macchine agricole, fermo restando che negli ultimi quattro anni (2009-2013), a fronte di un’inversione di tendenza modesta, ma continua, che ha visto una diminuzione generale degli infortuni mortali – che rappresentano comunque uno zoccolo duro, su cui si sta facendo fatica ad intervenire – si è registrata invece una forte riduzione, di circa il 16-17 per cento, degli incidenti con mezzo di trasporto. In ogni caso, a fronte dei 24 infortuni mortali all’anno sulle macchine agricole comunicati dall’INAIL, spesso da parte di altre associazioni, sia pubbliche che private, vengono diffusi dati molto più elevati, per cui si finisce per parlare di 180-190 infortuni mortali all’anno sulle macchine agricole. Ciò significa che c’è un grande numero di persone che lavorano in agricoltura a livello hobbistico, che non sono censite dall’INAIL perché non assicurate, che concorrono però poi a rappresentare quello dell’agricoltura come un settore a forte rischio.

Su questo occorre lavorare ed indirizzare maggiormente la prevenzione.

Proprio in relazione all’ultimo discorso che ho fatto, mi permetto di segnalare l’importanza della questione dell’adeguamento delle macchine agricole, già affrontata in maniera specifica da questa stessa Commissione di inchiesta nel corso della precedente legislatura con tre obiettivi fondamentali: formazione, adeguamento delle macchine ed incentivi.

Per quanto riguarda gli incentivi, qualcosa di estremamente rilevante è stato già detto: bisogna proseguire su quella strada, aumentando gli interventi. È certamente calzante l’esempio del bando FIPIT, anche se, oltre al problema del regime de minimis, c’è anche da considerare il fatto che è possibile realizzare un intervento e su una sola macchina in ogni azienda agricola e chiaramente questo restringe notevolmente il campo.

Sul problema del de minimis, in particolare, c’era stato un invito, già ripreso da questa Commissione di inchiesta nel corso della precedente legislatura, ad intervenire sulle istituzioni europee al fine di chiarire definitivamente che alcuni interventi non debbono essere legati agli aiuti di Stato.

Lo stesso discorso vale per i piani di sviluppo rurale: nei nuovi piani, ai sensi del regolamento europeo 1305/2013, c’è solo un accenno alla sicurezza per quanto riguarda i giovani imprenditori. Forse si sta perdendo un contesto di intervento abbastanza importante, fermo restando che anche nella precedente programmazione, nonostante ci fossero indirizzi più precisi, pochissime Regioni hanno investito sulla sicurezza. Probabilmente, quindi, bisogna lavorare anche sulla prossima programmazione.

Il secondo aspetto che desidero evidenziare riguarda il cosiddetto patentino che come sapete entrerà in vigore nel marzo del 2015: è stata attivata una serie di percorsi formativi e man mano che ci si avvicina ai diversi impegni previsti in relazione all’esperienza professionale si arriverà ad adeguarsi.

Desidero fare però un accenno alla formazione, che è una delle questioni che abbiamo sempre presentato nei vari step di applicazione del testo unico n. 81 del 2008. Fermo restando che, proprio perché sono ormai previste diverse qualificazioni per i lavoratori agricoli – non c’è solo il patentino per le macchine agricole, ma anche quello per i prodotti fitosanitari – occorre iniziare ad investire sui giovani, a partire dalle scuole. È infatti opportuno che tutti i percorsi formativi comincino a prevedere una serie di formazioni specifiche che permettano il rilascio delle abilitazioni, evitando così che i giovani che entrano nelle aziende si trovino a dover aspettare per svolgere i percorsi formativi.

Come accennavo in precedenza, l’aspetto più importante su cui ragionare è la duplicazione della formazione, che ci preoccupa fortemente. C’è già una previsione all’interno dell’articolo 37 del decreto legislativo n. 81 del 2008, recentemente implementata, in cui si dà mandato ad un apposito decreto di definire alcune disposizioni sui crediti formativi. Si tratta di una questione estremamente importante perché, visto che in agricoltura si pone sia il tema dei prodotti fitosanitari sia quello dell’utilizzo delle macchine agricole, ci troviamo ad avere delle abilitazioni specifiche con formazione, una formazione generica per i lavoratori e una formazione generica per i datori di lavoro. Si rischia dunque di ottenere un effetto contrario a quello che ci si propone, ovvero di percepire la formazione – che è importantissima – come un obbligo a volte inutile e di prevedere troppe ore di formazione, a causa della duplicazione cui ho già fatto cenno.

Per quanto riguarda la revisione delle macchine agricole, che rappresenta il capitolo di cui si discuterà nelle prossime settimane, con il cosiddetto decreto-legge mille proroghe abbiamo avuto un ulteriore rinvio, che è chiaramente dovuto alla delicatezza della disposizione. Ci stiamo infatti riferendo a 2 milioni di macchine agricole utilizzate dalle aziende e dai contoterzisti, la cui revisione rappresenta un impegno notevole che, se andrà avanti, dovrà farlo sulla base di regole molto chiare e semplificate. Innanzitutto bisogna tenere in considerazione alcuni aspetti organizzativi, perché ovviamente è difficile spostare le macchine agricole dall’azienda; occorre inoltre che ci sia una gradualità effettiva per evitare di bloccare i lavori nelle aziende agricole e, soprattutto, è necessario cercare di avere pochi punti di controllo, che devono essere quelli che ci interessano effettivamente ai fini del raggiungimento degli obiettivi che ci poniamo.

Si tratta di una questione estremamente delicata che desta preoccupazione e siamo in attesa di poter discutere del relativo decreto con i Ministeri dei trasporti e dell’agricoltura.

Un ultimo aspetto su cui vorrei soffermarmi – lasciando poi la parola alla collega Merlino, affinché possa intervenire in materia di vigilanza, sistema sanzionatorio e aspetti connessi – è quello relativo alla semplificazione. Tutto ciò di cui ho parlato all’inizio del mio intervento ha ricevuto delle risposte, in parte nel decreto legislativo n. 81 del 2008 e, successivamente, nei provvedimenti integrativi. C’è dunque un indirizzo volto alla semplificazione degli aspetti relativi alla formazione, all’informazione, alla sorveglianza sanitaria e alla valutazione dei rischi. Si tratta di questioni che attendiamo vengano in qualche modo definite. Mi riferisco in particolare alla valutazione dei rischi, dal momento che la norma contenuta nell’articolo 29 del decreto n. 81 del 2008, riguardante la standardizzazione delle procedure, non ha soddisfatto il settore dell’agricoltura, perché una standardizzazione dovrebbe costituire una semplificazione.

L’altro aspetto su cui probabilmente occorre ancora intervenire è il decreto sulla semplificazione dell’informazione, della formazione e della sorveglianza sanitaria per le aziende che hanno addetti con meno di 50 giornate di lavoro. Qui siamo di fronte all’assurdo per cui, con la sorveglianza sanitaria, anziché avere una semplificazione, avremo probabilmente l’imposizione di un obbligo di sorveglianza sanitaria biennale. Dunque non c’è stata una semplificazione per favorire le aziende e consentire loro di non avere un medico competente interno, usufruendo del Servizio sanitario nazionale.

C’è infine la questione riguardante la governance, che interessa molto anche noi e che è stata affrontata dal Ministro competente: a tal proposito riteniamo ci sia bisogno di un coordinamento, sia a livello nazionale che regionale. Come ho accennato in precedenza, ci sono molti provvedimenti in itinere e c’è bisogno di molta comunicazione. C’è poi un aspetto che ci interessa molto a proposito delle macchine agricole: come accennava il collega intervenuto in precedenza, occorre avere dati puntuali per valutare le tipologie di rischio e la fenomenologia infortunistica, per fare interventi diretti sulle aziende e migliorare la situazione.

MERLINO. Intervengo a nome della Confederazione italiana agricoltori e cercherò di mantenermi nei limiti di tempo previsti, anche perché le linee fondamentali sono state già tracciate dagli interventi che mi hanno preceduto. Intanto voglio esprimere il mio ringraziamento alla Presidente e alla Commissione che ci offrono l’occasione di trasmettere il nostro pensiero in materia di sicurezza sul lavoro, un tema questo che rappresenta realmente una nostra preoccupazione e una delle priorità nella nostra agenda sindacale. Ci rechiamo nei vari territori, visitiamo le aziende e incontriamo i nostri associati e possiamo quindi asserire che se in questo momento chiedete a un imprenditore agricolo quale sia l’elemento che lo preoccupa di più nella gestione aziendale, nove volte su dieci risponderà che è la sicurezza sul lavoro. Credo che questa risposta contenga in se´ degli elementi positivi e ci segnali come, rispetto a un passato che abbiamo lasciato alle spalle, si sia sviluppata una maggiore sensibilità nei confronti di questo tema. Ciò è dimostrato dal fatto che dal 2009 al 2013 gli infortuni nel settore agricolo sono diminuiti del 26 per cento, una riduzione, quindi, di un certo peso. È chiaro che tutto ciò è avvenuto per una serie di concause, ma è di tutta evidenza che c’è una maggiore e più diffusa sensibilità tra i nostri associati per gli aspetti relativi alla sicurezza sul lavoro, sia propria che, soprattutto, dei propri dipendenti.

Occorre poi considerare l’elemento dell’innovazione tecnologica, che porta a una maggiore sicurezza per ciò che riguarda le macchine che rappresentano il più elevato fattore di rischio.

Lo ricordo non tanto per enfatizzare questa sensibilità e questi dati positivi, ma per valorizzarli, anche perché l’agricoltura opera in un contesto economicamente difficile. Ciò vale un po’ per tutti i settori, ma pensiamo che nel 2014 c’è stato il «domino» di interi settori produttivi – come ad esempio il settore ortofrutticolo in tutta l’Emilia-Romagna – che vivono un periodo di crisi nera. Malgrado questo, come ha ricordato il collega della Coldiretti, l’occupazione si è mantenuta sostanzialmente stabile. Dunque l’agricoltura è riuscita, malgrado le performance economiche negative o addirittura disastrose nel 2014, a registrare delle performance sostenibili dal punto di vista dell’occupazione e della sicurezza.

È evidente che non possiamo fermarci a questa affermazione, perché molto resta da fare. È vero che soprattutto l’indice di incidenza degli infortuni, derivante dal rapporto tra il tempo di esposizione al rischio e la frequenza degli infortuni, continua a rimanere alto e lo stesso si può dire per il rischio legato alle macchine, che causano il ferimento o la morte del lavoratore: questo è indubbiamente un dato da tenere in considerazione. Ci dobbiamo dunque chiedere che cosa fare in questo momento.

Mi piacerebbe trasmettere alla Commissione l’idea che ci troviamo in un momento storico molto particolare, in cui le aziende hanno già compiuto un determinato percorso, sia pur sicuramente perfettibile. Se faremo delle scelte ponderate e giuste – mi riferisco in primis al legislatore, ma non solo – probabilmente riusciremo veramente ad affermare quella che tutti chiamano la cultura della sicurezza, ovvero la propensione naturale alla sicurezza. Se invece faremo delle scelte sbagliate, in questo momento delicato il rischio che si corre è quello di tornare indietro.

Vorrei mettervi a conoscenza della situazione nella quale ci troviamo perché, secondo noi, le scelte da fare in questo momento sono determinanti e riguardano aspetti già ricordati dai colleghi intervenuti che, per brevità, provo a sintetizzare per titoli.

Mi riferisco in primo luogo alla semplificazione: al riguardo la prima cosa da fare è attuare le norme che già esistono. Ad esempio, in relazione al recente provvedimento di riforma del lavoro, il cosiddetto jobs act, nel quale si parla, giustamente, di un decreto delegato volto addirittura a dimezzare gli adempimenti e tutta la gestione dei rapporti di lavoro, bisognerebbe forse pensare ad attuare quello che già c’è. In proposito il collega Rotundo ha ricordato il cosiddetto decreto del fare (decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla legge n. 98 del 9 agosto 2013) il cui articolo 35, comma 13, semplifica tutti gli adempimenti relativi alla sicurezza per le imprese agricole con lavoratori a tempo determinato e per le piccole e medie imprese, così corrispondendo ad una raccomandazione che, in realtà, proviene da lontano e che più volte ci è stata rivolta dall’Unione europea. La suddetta norma vige dal 2013 e segnalo che le parti sociali agricole avevano al riguardo consegnato al Ministro del lavoro una serie di proposte operative proprio per cercare di dare un supporto alla attuazione di norme che si possono considerare settoriali e di non facile applicazione. Tuttavia, nonostante siano trascorsi due anni non è successo nulla. Anche per ciò che concerne le norme che avevamo ottenuto e che riguardano i lavoratori che svolgono meno di 50 giornate lavorative esistono tuttora dei problemi di attuazione.

Va detto che la normativa è realmente migliorata, dal momento che il decreto legislativo n. 81 del 2008 indubbiamente conteneva e contiene ancora, degli importanti elementi di semplificazione e di maggiore consapevolezza dei cambiamenti che interessano il mondo del lavoro); ciò detto, l’estenuante fase attuativa del suddetto decreto, che, peraltro, non è ancora terminata, ha nei fatti annullato tutti gli intenti di semplificazione della norma.

Il secondo aspetto è quello della premialità. Su questo fronte molto è stato detto e molto è stato fatto. L’INAIL ha finalmente compreso che il settore agricolo era l’unico a non utilizzare il meccanismo del bonus-malus, di conseguenza nel nostro settore anche a fronte di una riduzione drastica degli infortuni, l’aliquota contributiva pagata dal datore di lavoro era comunque fissa ed elevatissima (13,24 per cento della retribuzione). Come dicevo, da un po’ di anni l’INAIL ha finalmente compreso la necessità di intervenire anche su questo aspetto e quindi è stata varata una serie di norme per la riduzione dei contributi INAIL che le imprese hanno accolto favorevolmente.

Un ulteriore aspetto riguarda i bandi FIPIT. A tale proposito va detto che se l’obiettivo del suddetto bando è quello di aiutare le imprese nell’adeguamento dei mezzi agricoli, in particolare dei trattori, non possiamo allora che condividerlo. Occorre però considerare che il parco macchine è quello precedentemente descritto; stiamo parlando di due milioni di macchine che, stante l’ultima proroga, dovranno essere sottoposte a revisione a partire dal 31 dicembre 2015, a fronte delle quali però i previsti 15 milioni di euro non sono praticamente nulla. Basti al riguardo pensare che le stime effettuate, anche all’interno della filiera agricola, condivise dalle tre organizzazioni qui rappresentate, dalle organizzazioni costruttrici di macchine agricole e dalle organizzazioni di conto terzi, indicano solo per la prima annualità di revisione, una cifra pari a 200 milioni. Si tratta peraltro di stime non improvvisate ma formulate sulla base di uno studio tecnico. È quindi chiaro che siamo molto lontani da queste dimensioni, fermo restando che si è comunque compreso che la leva della premialità va utilizzata.

Qualcosa è stato quindi fatto in questa direzione, certamente la revisione delle macchine agricole è un obiettivo talmente importante da richiedere ben altri mezzi, obiettivo cui si va peraltro ad aggiungere quello della revisione del regime de minimis.

Concludo velocemente soffermandomi sulla questione della vigilanza, sottolineando aspetti che immagino vi siano ben noti.

È senz’altro necessario intervenire in questo ambito. Anche in questo caso si può parlare di norme inattuate. Il nostro settore ha infatti registrato un provvedimento importante, mi riferisco alla legge 11 agosto 2014, n. 116 (la cosiddetta legge campo libero), che ha istituito il registro unico dei controlli per le imprese agricole, ma ad oggi non si è proceduto in alcun modo. Sicuramente l’ipotesi della istituzione di una agenzia unica delle ispezioni è molto interessante, ma credo che occorra guardare alla sostanza, considerato che disponiamo di tantissimi provvedimenti e leggi, anche ben concepiti, che prevedono che la vigilanza debba essere coordinata e che le amministrazioni dialoghino e si scambino dati. Abbiamo tantissimi provvedimenti di tal genere, a partire, se non ricordo male, dal famoso decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124. Ripeto, abbiamo moltissime buone leggi sul coordinamento della vigilanza e della governance, ma quando arriviamo poi all’attuazione delle stesse tutto cade, perché, di fatto, le amministrazioni si comportano come fossero delle monadi e quindi in modo del tutto autonomo e senza alcun coordinamento.

Ho incluso nel quadro che ho cercato di disegnare la semplificazione, la premialità e la vigilanza, perché, secondo noi questi principi sostengono e sosterrebbero le aziende che hanno la volontà e l’intenzione di investire sulla sicurezza e credo sia importare dare loro un segnale in questa direzione».



Ulteriori elementi, da approfondire nel corso dell’inchiesta, in merito agli incidenti connessi all’utilizzo delle macchine agricole

Si sottolinea la necessità di assumere specifici provvedimenti per ridurre gli incidenti legati all’uso delle macchine e attrezzature di lavoro, in particolare nel settore agricolo.

A tal fine, occorre procedere nel percorso degli adeguamenti normativi, in uno spirito di continuità con quanto fatto nella passata legislatura, di rendere più stringenti i requisiti dei mezzi e dei conducenti, nonché di reperire adeguate risorse finanziarie per garantire le agevolazioni per la sostituzione o la messa in sicurezza delle macchine, nella convinzione che la sicurezza nel settore agricolo – come in altri settori – debba essere supportata da interventi che rispondono ad un’esigenza di aggiornamento tecnologico e di tutela della salute e della sicurezza degli operatori.

A tale proposito, si evidenzia che la 9ª Commissione (Agricoltura) del Senato sta esaminando l’affare assegnato n. 449 – Questione della revisione delle macchine agricole e della formazione degli operatori delle stesse – stante l’importanza che la problematica dell’efficienza e della permanenza dei requisiti di sicurezza per l’utilizzo e la circolazione delle macchine agricole riveste nel comparto primario italiano.

Nel prosieguo dell’inchiesta la Commissione farà ulteriori approfondimenti su tale tipologia di infortunio.



Audizione dei rappresentanti di R.E TE. Imprese Italia

Nella seduta del 17 febbraio 2015 sono intervenuti i rappresentanti di R.E TE. Imprese Italia. Il dottor Silvestrini ha svolto un’ampia disamina dei profili inerenti alla sicurezza sul lavoro, soffermandosi in particolare sul trend statistico di riduzione del fenomeno infortunistico e sugli strumenti premiali, sulla semplificazione, sulla formazione, sulle attività di vigilanza ed infine sulle problematiche attinenti alla mancata attuazione delle disposizioni relative al SINP.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:

«SILVESTRINI. Signora Presidente, onorevoli senatori, grazie per aver invitato R.E TE. Imprese Italia a fornire il proprio contributo su un tema che consideriamo assai importante e impegnativo.

Sin dalla data di emanazione del decreto legislativo n. 626 del 1994 – dalla quale sono ormai trascorsi quasi 21 anni – le piccole imprese italiane sono state fortemente impegnate sui temi della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, contribuendo così ad abbattere il fenomeno infortunistico in maniera continua e costante. Ciò è avvenuto nonostante una legislazione italiana ed europea costruita, tarata e performata sulla grande impresa, anziché a misura delle piccole aziende, che rappresentano – come sappiamo – una parte importante e fondamentale del nostro tessuto produttivo. Servirebbe, al contrario, una legislazione intelligente e moderna che, pur non incidendo sui livelli sostanziali di tutela, promuovesse le azioni concrete a salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori – e, aggiungo, degli stessi datori di lavoro che, come nel nostro caso, sono impegnati in prima persona nella gestione giornaliera – riducendo al minimo il formalismo e gli adempimenti amministrativi.

L’impegno dell’imprenditore in materia di prevenzione è dimostrato dai dati. Secondo l’INAIL, infatti, gli infortuni sul lavoro nel 2013 sono stati poco meno di 460.000, con una riduzione del 21 per cento rispetto al 2009. Ancora più significativa risulta la diminuzione degli infortuni mortali che nell’ultimo quinquennio è pari al 32 per cento.

Siamo quindi di fronte a una costante diminuzione del fenomeno che naturalmente per le imprese non rappresenta un punto di arrivo, ma solo uno stimolo importante per proseguire nell’impegno di rendere gli ambienti di lavoro sempre più sicuri. Questo è un elemento che equivale, fra l’altro – non passi inascoltata e sotto tono questa mia affermazione – a una maggior efficienza e competitività delle imprese. Legare la sicurezza del lavoro e dei nostri lavoratori, dei nostri dipendenti a una maggiore efficienza, vuol dire trovarsi di fronte a un soggetto sociale che ha capito la qualità e l’importanza del lavoro, in tal senso peraltro questa Commissione ha cominciato da tempo a lavorare per questo le facciamo i migliori auguri.

R.E TE. Imprese Italia ritiene che gli imprenditori vadano sostenuti in questo sforzo con politiche e programmi adeguati, modulando e finanziando linee di intervento a favore delle imprese che investano nel miglioramento della propria attività di prevenzione.

In questo senso va riconosciuto all’INAIL l’impegno profuso per dare attuazione alle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 81 del 2008 relative al finanziamento da parte dell’istituto di una serie di attività formative e di progetti di investimento in materia di salute e di sicurezza effettuati nelle micro, piccole e medie imprese.

Pur restando in sostanza disatteso il disposto del decreto legislativo n. 38 del 23 febbraio del 2000, dove si dispone la revisione delle tariffe con cadenza almeno triennale, è stata utile negli anni anche la riduzione del tasso medio della cosiddetta tariffa INAIL per tutte le imprese che effettuano investimenti riconosciuti di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro. L’INAIL, tuttavia, – speriamo che questa voce non sia confermata – ha recentemente annunciato un taglio di tale incentivo, che finora ha determinato complessivamente una riduzione dei premi per oltre 300 milioni di euro.

R.E TE. Imprese Italia considera tale scelta negativa, almeno fino a quando non sarà completamente riformato il sistema della determinazione delle tariffe correlandole in maniera diretta all’andamento delle singole gestioni assicurative. D’altra parte, noi riteniamo che questi incentivi andrebbero considerati un investimento per gli istituti e non un onere visto che è finalizzato a ridurre i costi connessi agli infortuni.

Tuttavia, il tema reale più importante è quello di ridurre in maniera consistente il costo del lavoro derivante dall’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, ripristinando condizioni di equilibrio tra premi e oneri per la singola gestione. Infatti, le gestioni separate del terziario e dell’artigianato da sempre registrano avanzi di esercizio, costantemente vicino al miliardo di euro ciascuna, contribuendo in maniera determinante all’avanzo di esercizio dell’istituto. Anche nel 2013, secondo l’ultimo bilancio consuntivo INAIL, le predetti gestioni hanno generato un avanzo di oltre 700 milioni di euro ciascuna, confermando il positivo andamento finanziario. Questi dati dimostrano come i premi richiesti alle imprese dei due settori siano strutturalmente sovradimensionati rispetto ai fabbisogni. Sarebbe indispensabile, pertanto, una significativa riduzione dei premi.

In tal senso, il legislatore suddividendo la gestione INAIL nelle quattro sotto gestioni (industria, artigianato, terziario e altre attività) ha previsto la revisione delle tariffe in modo da consentire la riduzione dei premi per le aziende delle gestione in attivo. Tale previsione è tuttavia rimasta di fatto ancora lettera morta. Basti pensare che la legge di stabilità 2014 ha sì disposto una riduzione dei premi per l’importo complessivo di un miliardo per il 2014, di 1,1 miliardi per il 2015 e ha previsto per il 2016 un taglio di 1,2 miliardi; tuttavia, ciò è avvenuto attraverso – come tutti noi sappiamo – un taglio lineare. Tale scelta ha prodotto un risultato opposto allo spirito della norma che, invece, prevede di operare tenendo conto dell’andamento economico, finanziario e attuariale registrato nelle singole gestioni, finendo così, quasi per paradosso, per penalizzare proprio quei settori, come il settore terziario e l’artigianato, strutturalmente caratterizzati da un minor rischio infortunistico.

In coerenza con questa logica R.E TE. Imprese Italia ritiene che il settore a basso rischio debba essere individuato facendo riferimento alla presenza o meno, in determinate lavorazioni, di rischi per i lavoratori che l’esperienza consolidata considera significativi. È infatti necessario superare la logica del solo dato infortunistico e ancora di più dell’utilizzo dei codici merceologici ATECO, che vengono usati normalmente e in maniera intelligente in relazione alla situazione economica del Paese e non a quella infortunistica.

Tener conto della realtà delle imprese italiane significa valutare le soluzioni più semplici e più efficienti che permettano di garantire una prevenzione efficace della salute dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro, indipendentemente dalla dimensione delle imprese in cui essi operano. In particolare, per il miglioramento della prevenzione, è necessario sburocratizzare la materia, definendo modalità semplificate per una applicazione reale e non meramente documentale degli obblighi prevenzionali; occorre, ad esempio, una semplificazione documentale del documento unico di regolarità contributiva (DURC), del documento unico di valutazione dei rischi interferenti (DUVRI), del piano operativo di sicurezza (POS), del piano di sicurezza e coordinamento (PSC) condivisa con le organizzazioni datoriali che rappresentano e conoscono la realtà imprenditoriale.

In tal senso auspichiamo che la delega relativa alla semplificazione in materia di salute e sicurezza contenuta nel jobs act venga esercitata prevedendo: l’introduzione del principio per il quale il recepimento delle direttive comunitarie debba avvenire senza aggravi per le imprese (mai direttiva europea fu disattesa dal nostro Paese); 1’eliminazione di comunicazioni e notifiche inutili, qualora i relativi dati siano già in possesso delle pubbliche amministrazioni o, laddove necessarie, prevedere che avvengano in via informatica; la sostituzione di nulla osta e autorizzazioni con l’autodichiarazione del soggetto obbligato; la semplificazione degli adempimenti documentali per la gestione di appalti, servizi e forniture.

Per quanto riguarda il tema della formazione obbligatoria, nel nuovo contesto legislativo questa assume una maggiore importanza; è infatti prevista la formazione per figure aziendali prima non sottoposte ad obblighi formativi e si introducono due importanti concetti, ovvero l’addestramento e l’aggiornamento. Siamo convinti del valore della formazione come strumento strategico per prevenire gli infortuni e le malattie professionali e, proprio per questo, valutiamo quanto sarebbe utile che la regolamentazione in materia fosse guidata da una strategia efficace, con obiettivi e criteri univoci e soprattutto chiari.

La formazione obbligatoria è invece oggi regolata da svariati e non coordinati accordi Stato-Regioni che prevedono, in alcuni casi, ripetizioni di contenuti, criteri diversi per quanto riguarda organizzazione, docenti, percorsi; il tutto rende la loro applicazione estremamente difficoltosa, pure a fronte di un costante e costoso impegno dei datori di lavoro.

Per superare questa impasse è avvertita l’esigenza di pervenire ad una formazione efficace, riferita al reale rischio presente negli ambienti di lavoro e tenendo conto delle necessarie semplificazioni, laddove la prestazione del lavoratore presupponga una permanenza di breve durata nei luoghi di lavoro.

Infine, in merito all’attività di vigilanza in materia, non possiamo che ribadire la necessità di un’attività di vigilanza coordinata, univoca e competente, in grado, ove opportuno, di fornire orientamenti certi a sostegno all’impresa. Purtroppo, attualmente l’attività di vigilanza è frammentata fra numerosi enti, creando non poca perplessità e incertezze: basti pensare che in tema di salute e sicurezza sul lavoro eseguono le verifiche le Regioni, e per esse i servizi ASL, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Amministrazione della giustizia, attraverso i carabinieri e la polizia, le Autorità marittime, aeroportuali, ferroviarie.

Riteniamo necessaria una riorganizzazione complessiva delle attività di controllo che renda le ispezioni più selettive in base al criterio del rischio, valorizzi le imprese che rispettano le norme, promuova il coordinamento tra i vari uffici dell’organismo di controllo, assicuri, infine, un’efficiente comprensione delle regole.

R.E TE. Imprese Italia evidenzia che la legislazione in materia di salute e sicurezza ha modificato negli ultimi anni in maniera sostanziale il sistema istituzionale, gli strumenti di conoscenza del fenomeno e la partecipazione delle parti sociali. In particolare, è stato innovato il sistema istituzionale prevedendo, fra l’altro, un Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Si tratta di un Comitato che avrebbe dovuto stabilire le linee comuni delle politiche nazionali in materia, individuare obiettivi e programmi dell’azione pubblica, programmare il coordinamento dell’attività di vigilanza e individuare le priorità della ricerca in tema di prevenzione. Ad oggi, purtroppo, non si possono apprezzare i contenuti delle sue azioni, né si è configurato un reale e costruttivo coinvolgimento delle parti sociali, sia a livello nazionale, che regionale.

È stato inoltre istituito un Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro che, nello spirito, avrebbe dovuto consentire l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi per programmare, pianificare e valutare l’attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, nonché per indirizzare l’attività di vigilanza. Dopo circa sette anni dall’emanazione del decreto legislativo n.81 del 2008, neanche questo rilevante strumento per la prevenzione negli ambienti di lavoro ha visto attuazione, ne´ le parti sociali delle quali si prevede il coinvolgimento attivo hanno avuto notizia alcuna del suo funzionamento. R.E TE. Imprese Italia ritiene indifferibile la concreta ed efficace operatività degli strumenti ora richiamati.

Sappiamo che questa Commissione parlamentare d’inchiesta, peraltro di recente istituzione, sta lavorando al meglio e noi vi auguriamo di avere i migliori successi. Vi garantiamo, inoltre, tutto il nostro contributo al riguardo.»



Audizione dei rappresentanti di Confindustria

Nella seduta del 17 febbraio 2015 sono intervenuti i rappresentanti di Confindustria.

Il dottor Albini, nell’analizzare i vari profili inerenti alla materia de qua, ha sottolineato in particolare i dati infortunistici – che registrano un andamento decrescente – soffermandosi poi sulla riferibilità degli infortuni, nella maggior parte dei casi, ai comportamenti umani e sulla conseguente importanza delle attività di formazione in ambito antinfortunistico, sulle azioni promosse dalla Confindustria in un’ottica prospettica di prevenzione antinfortunistica, sulle malattie professionali e sulla questione attinente all’amianto, sulle esigenze di certezza del diritto e di semplificazione, sulla vigilanza e sulla sorveglianza sanitaria.

Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:

«ALBINI. Signora Presidente, ringrazio la Commissione per l’opportunità che ci è stata offerta. Avendo lasciato agli atti la nostra documentazione, cercherò di essere brevissimo, anche se in materia di sicurezza, e soprattutto alla luce dell’inchiesta non circoscritta ma a tutto campo che state conducendo, i temi da affrontare sono moltissimi. Cercherò quindi di fare una sintesi, a beneficio della Commissione, di ciò che è contenuto nel documento, anche perché se fosse necessaria un’integrazione più specifica potremmo provvedere volentieri in un momento successivo.

In questo documento abbiamo provato ad affrontare il tema della sicurezza con un approccio pragmatico; un approccio non per principi assoluti, ma che consentisse alla Commissione di avere una rappresentazione il più fedele possibile del modo di pensare del sistema delle imprese rispetto ai temi della sicurezza.

Il documento prende le mosse da una serie di considerazioni, che potete ritrovare anche nell’allegato, riferite all’andamento infortunistico. Dico questo perché partiamo da un dato positivo che conferma un trend in miglioramento in questi anni, che non si giustifica solo per effetto della crisi, ma perché obiettivamente in questi anni – come tentiamo di dimostrare nel documento – le imprese stanno facendo degli sforzi per favorire una reale cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Nel merito distinguiamo due temi, quello che attiene sostanzialmente all’infortunio, sul quale dirò brevemente qualcosa, e quello delle malattie professionali, che hanno approcci completamente diversi e sui quali noi intendiamo evidenziare aspetti differenti.

In merito all’andamento degli infortuni vanno considerati tre aspetti. Il primo è che in questi anni le imprese stanno investendo; ci sono dati – che riportiamo nel nostro documento – secondo i quali anche nel periodo della crisi le imprese hanno continuato a fare investimenti, ancorché in misura piuttosto contenuta rispetto al periodo precedente, sull’innovazione tecnologica. Questo sarà un tema su cui le aziende saranno sempre più chiamate a investire ed è un elemento su cui credo che questa Commissione debba riflettere. Infatti, allungandosi l’età lavorativa, allontanandosi l’età del pensionamento e non potendo più questo Paese trasferire l’anzianità dei lavoratori, con i prepensionamenti o con politiche di esodo incentivato, sul sistema di welfare collettivo, le imprese saranno costrette sempre di più a fare i conti con questo fenomeno e avranno sempre di più la necessità d’investire per rendere la possibilità di continuare a lavorare compatibile, soprattutto nel manifatturiero, con l’avanzamento dell’età. Da questo punto di vista anche in Italia ci sono stabilimenti, operanti nel settore della fabbricazione degli autoveicoli, che hanno avuto dei riconoscimenti anche di carattere internazionale proprio per la quantità degli investimenti fatti in questa direzione, quindi non solo per l’ergonomia, ma anche e soprattutto per la sicurezza.

Il secondo tema sul quale vorrei richiamare l’attenzione della Commissione deriva dalla considerazione che molto spesso gli infortuni discendono dai comportamenti delle persone ed è possibile combattere quelli non corretti attuando una politica d’investimenti molto significativa sulla formazione.

Nel documento che vi consegniamo ci siamo permessi di enfatizzare due aspetti. Il primo è quello per il quale le norme che intervengono in materia di obblighi di formazione sulla sicurezza presentano a nostro avviso elementi di criticità, perché enfatizzano molto gli aspetti formali e molto meno quelli sostanziali. Vi è inoltre una parte del documento in cui sono effettuate sottolineature specifiche, ma su richiesta della Commissione potremmo fornire ulteriori elementi di valutazione.

Il secondo elemento che attiene alla formazione è un invito a considerare che oggi la formazione continua avviene soprattutto attraverso i fondi interprofessionali. Questi ultimi, alimentati da parte delle imprese con una quota obbligatorio dello 0,30 per cento dei contributi versati all’INPS, sono stati considerati in queste ultime congiunture come una sorta di salvadanaio da cui andare a prendere i soldi per pagare le politiche passive per quei settori che non contribuiscono al costo degli ammortizzatori sociali. Se però dobbiamo fare un investimento sulla sicurezza delle persone, non bisogna allora compromettere le fonti con le quali si alimenta questa formazione!

Il terzo aspetto che evidenziamo in questo documento sono le iniziative che Confindustria ha preso su questi fronti perché, come spesso mi piace dire, prima di dire agli altri ciò che devono fare, è importante ricordarsi le cose che siamo tenuti a fare noi e, quindi, le iniziative che Confindustria singolarmente o attraverso gli accordi con le organizzazioni sindacali ha realizzato in questi anni.

Sulle malattie professionali, invece, la riflessione che facciamo non è facilissima da sintetizzare in pochi minuti, tento comunque di farlo così come di seguito. Il tema delle malattie professionali deve portarci a guardare questo tipo di fenomeni con una prospettiva e un respiro temporale molto diverso: mentre l’infortunio è un fenomeno istantaneo, le malattie professionali hanno tempi di incubazione molto differenti. Da questo punto di vista occorrerebbe un approccio un po’ più scientificamente rigoroso su ciò che è effettivamente la causa della malattia professionale. Da questo punto di vista enfatizziamo un aspetto legato alla ricerca perché malattie professionali e ricerca sono due temi che non possono essere tra loro disgiunti. Consideriamo il delicato tema dell’amianto rispetto al quale manifestiamo l’auspicio di un approccio più socialmente e collettivamente responsabile e più orientato a risolvere il problema piuttosto che ad accanirsi nell’individuazione del colpevole. Sappiamo tutti che fino al 1992 l’utilizzo dell’amianto non solo era lecito, ma c’erano norme di legge che lo imponevano, tant’è che oggi l’amianto è dappertutto. Vi è quindi il problema della bonifica di interi ambienti. Rispetto a questi temi Confindustria ritiene che l’approccio corretto dovrebbe essere quello di dire che di fronte a una situazione come la presente in cui di fatto, finché non ne abbiamo avuto l’evidenza, tutti abbiamo pacificamente ammesso l’utilizzo dell’amianto – non saprei dire se c’è un colpevole a fronte di uno Stato che imponeva l’utilizzo dell’amianto negli edifici pubblici – la soluzione non può essere trovata nelle aule dei tribunali, ma con un atto di responsabilità collettiva attraverso misure e strumenti che non vadano alla ricerca del colpevole ma, come dicevo, ad una «socializzazione» di questo tipo di problema.

Nel documento sono contenute quattro considerazioni fondamentali nell’approccio di Confindustria a questo tema, considerazioni relative innanzitutto alla certezza del diritto, alla semplificazione e, infine, a due temi che riguardano le competenze istituzionali sulla vigilanza e sulla sorveglianza sanitaria.

Per essere estremamente coinciso – il documento consentirà ai componenti della Commissione una lettura più attenta di questi aspetti – mi limito ad osservare due questioni. La prima riguarda il tema della certezza del diritto. Quando i colleghi mi hanno sottoposto il documento redatto in vista dell’odierna audizione, al punto 5, laddove per l’appunto si parla del tema della certezza del diritto, ho letto attentamente le sei righe ad esso dedicate e che considero di importanza capitale. In quel passaggio noi ricordiamo che la Corte di giustizia, la Commissione europea e la Corte costituzionale italiana hanno giudicato la normativa nazionale e la sua interpretazione, diversa e incompatibile rispetto a quella europea. Questo lo si dice perché la diversità e l’incompatibilità dipendono dal fatto che la normativa nazionale, nell’alternanza tra principi generali e norme specifiche, manca del requisito essenziale della certezza del diritto. Questo è un tema per noi delicatissimo; mi rendo conto che quando si toccano questi argomenti alla fine si finisce sempre per essere abbastanza impopolari, però credo che occorra cercare di realizzare le condizioni perché la sicurezza sia effettivamente garantita nei luoghi di lavoro e non creare le premesse per un sistema legislativo che consenta solo l’individuazione di un colpevole ex post sulla base di previsioni che rimandano sempre a un momento successivo la verifica di comportamenti compiuti a monte.

Anche sulla semplificazione al punto 6 mi limito al prodromo. La semplificazione è infatti un aspetto differente da quello della certezza del diritto, ma ad esso complementare. Al riguardo citiamo il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla semplificazione legislativa e amministrativa del 31 marzo 2014 in cui la Commissione parlamentare per la semplificazione ha evidenziato, tra gli altri, due elementi preoccupanti. Il primo è che i risultati raggiunti dall’attività di semplificazione sono complessivamente molto modesti, mentre il quadro normativo e amministrativo è andato complicandosi anziché semplificandosi. Sempre in tale rapporto si legge che è in dubbio che una parte dell’economia poggi sulla complicazione che ha comportato negli ultimi decenni la nascita e il consolidarsi di nuove professioni.

Il secondo elemento di criticità che evidenzio è relativo al passaggio di quel documento conclusivo in cui si afferma che il rapporto tra le norme eliminate dall’ordinamento e le norme che entrano in vigore, secondo i dati forniti dalla Corte dei conti, è di 1,2, ovvero 1,2 norme nuove per ogni norma «abrogata».

In questo senso nel documento che vi abbiamo consegnato, nel ricordare alla Commissione la tipologia del tessuto produttivo di questo Paese, formuliamo un auspicio che nella legge delega sul jobs act si colgano anche queste opportunità. C’è un elenco non completo di temi sui quali vorremmo che si intervenisse per la certezza del diritto e la semplificazione che lasciamo all’attenzione della Commissione.

Infine, il documento sottolinea due aspetti che fanno un po’ da corollario al tema della sicurezza, ovvero le competenze istituzionali e la vigilanza. Nel merito le nostre lagnanze riguardano le scelte fatte sul Titolo V della Costituzione.

Inoltre, al punto 8 sono riportate alcune riflessioni sul tema della sorveglianza sanitaria che, dal nostro punto di vista, richiede un’attenzione particolare, considerato che in relazione ad alcuni aspetti si rende necessario rendere il sistema più organico e armonico.

Ho cercato di fare una sintesi del contributo che abbiamo voluto lasciare agli atti della Commissione. Mi scuso per la sommarietà con la quale ho affrontato questi temi, proprio in ragione dell’ampio spettro di argomenti che ritenevamo opportuno affrontare. Ovviamente, siamo a disposizione per ogni chiarimento ed eventuale integrazione della nostra documentazione.»



Il primo incidente mortale all’attenzione della Commissione: le prime valutazioni sulla governance dei controlli pubblici

Nella seduta del 30 settembre 2014 la Commissione si è occupata dell’infortunio sul lavoro avvenuto il 9 luglio 2014 in un’azienda di fuochi d’artificio di Tagliacozzo, per il quale era stata a suo tempo inoltrata un’apposita richiesta di informazioni alla competente Prefettura.

Dalla relazione della Prefettura, pervenuta agli uffici della Commissione, è emerso che nel caso di specie si era verificata un’esplosione all’interno della fabbrica di fuochi d’artificio denominata «Pirotecnica Paolelli s.r.l.», di proprietà della signora Lorenza Mattei, che aveva provocato il crollo totale della struttura usata per la miscelazione delle polveri piriche. L’incidente cagionava la morte di tre dipendenti, ossia di D’ambrosio Antonello e Morsani Antonio, operai, e Paolelli Valerio, operaio e figlio della titolare. Ci sono stati anche tre feriti.

Le indagini sono condotte dalla Procura della Repubblica di Avezzano, mentre le attività di polizia giudiziaria sono state svolte dai Carabinieri del Nucleo operativo della compagnia di Tagliacozzo, coadiuvato da personale del Reparto operativo del locale comando provinciale dei Carabinieri, come pure dal Servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro dell’ASL n. 1 di Avezzano-Sulmona-L’Aquila.

Nel caso di specie l’attività produttiva era autorizzata con licenza per fabbricare e tenere in deposito fuochi artificiali rilasciata dalla competente Prefettura il 16 dicembre 2002 e rinnovata per ultimo con validità fino al 16 dicembre 2014.

Dopo l’incidente la Prefettura competente ha avviato il procedimento finalizzato alla sospensione dell’autorizzazione (ex articolo 47 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), nonché dell’attestato di abilitazione ad esercitare la fabbricazione di fuochi artificiali. Tale misura è stata assunta a seguito di una lettera inviata dalla locale questura, con la quale è stata trasmessa una nota a firma del perito balistico da cui si evinceva una cattiva conduzione nella gestione degli esplosivi presso l’azienda.

Dalla nota INAIL emerge che presso l’azienda in questione non si sono registrati infortuni fino alla data dell’incidente in oggetto.

Il 16 novembre 2011 il sito è stato oggetto di uno specifico sopralluogo da parte della Commissione tecnica provinciale di vigilanza sulle materie esplodenti, al fine di verificare la sussistenza dei requisiti di legge in merito all’istanza di ampliamento prodotta dalla titolare dell’azienda. A seguito di tale verifica sono state impartite prescrizioni il cui puntuale adempimento è stato accertato dalla Commissione nel corso di un nuovo sopralluogo in data 18 settembre 2013.

Nel corso del predetto sopralluogo del 16 novembre 2011 sono state inoltre riscontrate criticità per l’esercizio di vendita di fuochi artificiali (autorizzata con atto del 17 dicembre 2002, in un locale adiacente alla fabbrica) ed in ragione di tali elementi è stata respinta l’istanza di rinnovo dell’autorizzazione.

Per quel che concerne la sicurezza antincendio, si riscontra un’apposita ricevuta dei vigili del fuoco attestante la presentazione della «segnalazione certificata di inizio attività». Inoltre lo stabilimento è dotato di un piano di emergenza esterna (P.E.E,) approvato il 15 dicembre 2011 (le cui indicazioni sono state di fatto attuate nell’immediatezza dell’evento).

La Commissione, formulando le proprie valutazioni conclusive, evidenzia che dalla documentazione trasmessa sembra emergere che i controlli preventivi presso l’azienda sono stati effettuati solo in occasione di pratiche amministrative (ad esempio per i lavori di ampliamento dei locali). Dagli atti non è emersa alcuna pregressa attività di sopralluogo «a sorpresa», effettuata a prescindere da procedimenti amministrativi attivati dalla titolare, nonostante la palese pericolosità dell’attività di produzione e detenzione di fuochi d’artificio.

La Commissione di inchiesta, pur avendo gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, opera per finalità diverse dalla stessa e in una prospettiva più ampia. Infatti, il fine ultimo della Commissione di inchiesta non è incentrato sull’accertamento della responsabilità penale (pur potendo indagare anche su tale aspetto), ma al contrario deve essere rivolto a capire cosa non abbia funzionato nell’adozione di misure atte a prevenire l’incidente (anche a prescindere da specifiche imputazioni di responsabilità penali) e ad individuare i possibili interventi (ad esempio normativi) volti ad incrementare gli standard di sicurezza. In tale prospettiva, la totale assenza di controlli «a sorpresa» da parte delle competenti autorità pubbliche (almeno da quanto emerge dalla documentazione) su un’attività di tale pericolosità non può essere giustificata nemmeno dalla assenza di infortuni pregressi nell’azienda in questione.

Costituisce elemento di riflessione per la Commissione la circostanza che a volte i controlli e gli adempimenti di verifica preventiva delle autorità competenti vengono svolti scrupolosamente solo in occasione di pratiche amministrative in corso, senza un piano periodico di controlli a sorpresa attivati d’ufficio.

La cattiva conduzione nella gestione degli esplosivi, ravvisata ex post dal perito balistico della polizia, poteva forse essere riscontrata ex ante, se vi fossero stati efficienti e periodici controlli preventivi presso l’azienda.

È necessario individuare le soluzioni per migliorare la sicurezza ed una delle strade da percorrere può essere l’incremento, qualitativo e quantitativo, dei controlli pubblici, in grado di riscontrare inadeguatezze delle misure di prevenzione aziendali e al contempo in grado di stimolare l’imprenditore a migliorare i livelli di tutela dagli infortuni.

Ovviamente c’è la consapevolezza che in un periodo di scarsità di risorse pubbliche gli standard di efficacia dei controlli possono essere raggiunti solo attraverso una razionalizzazione delle attività di verifica e soprattutto attraverso un coordinamento tra le autorità competenti, in modo tale da evitare sovrapposizioni inutili (ad esempio più autorità che effettuano i controlli sulla stessa azienda, l’una all’insaputa dell’altra) e in modo tale da mettere a disposizione dei vari enti coinvolti una rete di informazioni comuni (sui controlli effettuati, sui piani dei controlli futuri, sulle anomalie emerse).

Si ribadisce che nel caso di specie i controlli amministrativi «formalistici» sono stati effettuati scrupolosamente dalle varie autorità, mentre è mancata una periodica attività di verifica, condotta con sopralluoghi «a sorpresa», finalisticamente orientata e attivata d’ufficio a prescindere da pratiche amministrative in corso.



Ulteriori riflessioni sulla governance delle attività di controllo e investigative: l’Agenzia unica in materia di sicurezza sul lavoro

Rispetto alla problematica della governance delle attività di controllo e investigative, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali nel corso dell’audizione ha evidenziato che l’esigenza prioritaria, in questo momento, è quella di sviluppare un sistema di relazioni e fare in modo che ci sia sistematicamente una capacità di co-agire, anche perché su questo versante ci sono responsabilità molto diffuse e situazioni che attengono, sul piano della governance e della responsabilità, a soggetti diversi come l’INAIL, i vigili del fuoco e le ASL, soggetti che istituzionalmente hanno una matrice diversa. Attualmente si ravvisa una larga serie di soggetti competenti e il dato di fatto è che ognuno di questi agisce legittimamente all’interno del proprio contesto normativo e dei propri modelli organizzativi, con conseguente possibilità di inutili duplicazioni di verifiche in taluni casi e di insufficienza dei controlli in altre situazioni.

Si evidenzia, in particolare, che la verifica sul rispetto delle norme in materia di lavoro e sicurezza è dispersa in tanti rivoli, tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, INPS, INAIL, Servizi per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) delle ASL e ARPA regionali. Inoltre, hanno competenza a verificare i rapporti irregolari di lavoro anche la Guardia di finanza, i Carabinieri, l’agenzia delle entrate e quella delle dogane. Si tratta di una situazione unica nel panorama europeo, che determina sovrapposizione di competenze e duplicazione di controlli, con un’evidente inefficienza di cui tutti pagano le conseguenze: imprese, lavoratori e apparato pubblico di controllo.

Per risolvere tali criticità è ipotizzabile il coordinamento delle Attività di vigilanza e la possibilità di dare vita ad un’Agenzia che assuma su di sé questa responsabilità. Tale Agenzia – prefigurata nel jobs act in alternativa ad altre misure di coordinamento – dovrà necessariamente tener conto delle diverse professionalità e specializzazioni dei soggetti competenti (ASL, ispettori del lavoro...), al fine di garantire adeguati standard qualitativi dei controlli.

La legge delega di riforma del lavoro (10 dicembre 2014, n. 183) assegna al Governo, tra gli altri, il compito di istituire una «Agenzia unica delle ispezioni del lavoro» o potenziare il coordinamento tra le DTL/ DRL del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’INPS, l’INAIL, gli SPSAL e le ARPA (SIA).

Esattamente, il comma 7 recita:

«7. Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali:

(omissis)

l) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale».

Dalla lettura di tale disposizione, appare evidente che, nel caso in cui venisse realizzata l’Agenzia, questa potrebbe integrare solo le funzioni ispettive dell’INPS e dell’INAIL, mentre, per quanto riguarda le funzioni ispettive delle ASL e delle ARPA (circa 250 in tutto), avendo la legge delega previsto solo «forme di coordinamento» non potrebbero essere ricomprese tra i compiti della futura Agenzia.

Sarebbe importante che l’obiettivo della riforma in questione fosse quello di ricondurre alla gestione unitaria dell’Agenzia tutte le competenze frazionate in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro già assegnate ai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali, della salute, dello sviluppo economico, della difesa, per la parte di competenza sulle funzioni delle Capitanerie di porto in merito alla navigazione civile, al Servizio sanitario nazionale, alle ARPA, alle regioni direttamente o alle province e pertanto dovrebbero essere ricondotti all’Agenzia anche i compiti svolti da organismi regionali o statali relativi a:

– porti e navigazione delle navi mercantili e da pesca;

– ferrovie e aeroporti;

– industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee, torbiere;

– acque minerali e termali;

– radiazioni ionizzanti in ambito sanitario.

Si evidenzia come l’Agenzia così definita, esercitando i compiti già assegnati ad altri organi pubblici, statali o locali, riunirebbe in un unico soggetto una molteplicità di funzioni che attualmente sono sovrapponibili con quelle già presenti in alcune direzioni generali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Va poi evidenziato che la riforma costituzionale del Titolo V, con un eventuale ritorno della materia sulla sicurezza del lavoro alle competenze esclusive dello Stato, potrà favorire il superamento della frammentazione delle attività di vigilanza.

Sempre nella prospettiva del coordinamento, che presuppone l’accesso integrato ad un sistema informativo comune, occorre dare attuazione all’articolo 8, comma 4, del citato decreto legislativo n. 81 del 2008, con decreto ministeriale che definisca le regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del SINP. Proprio alla realizzazione del SINP sono state legate le modalità di interazione degli organismi con compiti di polizia giudiziaria rispetto alle verifiche sugli infortuni, nonché alcune innovazioni formali e documentali, tra le quali la soppressione del registro infortuni e degli esposti agli agenti cancerogeni e biologici che, nel frattempo, in relazione alle procedure informatiche autonomamente introdotte, non trovano più alcuna utilità.

In tale ambito può essere utile l’attivazione di un canale di comunicazione diretta con medici competenti, con i responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) e con l’INAIL, per l’implementazione in tempo reale dei dati sugli infortuni e sulle malattie professionali.

L’opzione di istituire una Procura nazionale per la sicurezza sul lavoro, finalizzata a coordinare anche le attività investigative sui vari fenomeni criminosi in questione, è stata valutata attentamente nel corso dell’inchiesta, anche alla luce delle caratterizzazioni di specificità rivestite dalla materia antinfortunistica. Tale soluzione, tuttavia, risulta di difficile attuazione, anche perché la configurazione del fenomeno infortunistico non risulta articolata in una rete di interconnessioni tra i vari ambiti territoriali, riscontrabile invece rispetto ad altre tipologie di situazioni criminose – ad esempio quella mafiosa – con conseguente problematicità di utilizzo, in tale ambito, dei moduli adottati per la Procura nazionale antimafia.

Lo studio dei dati degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, (soprattutto se aggregati per tipi di aziende, territorio, attività lavorativa, patologie, periodi storici) tenuto conto degli esiti processuali, evidenzia un quadro critico che può essere in breve riassunto nei seguenti punti.

1. Prevenzione e repressione

Nel campo della sicurezza v’è una strettissima interconnessione giuridica, operativa e investigativa tra la prevenzione e la repressione (ad esempio un’ispezione in un’azienda muove da un controllo di prevenzione ma sfocia quasi sempre nella contestazione di reati).

Si impone pertanto un monitoraggio programmatico delle ispezioni attraverso un coordinamento centralizzato degli interventi (eseguiti e da eseguire) e l’utilizzo di un’unica banca dati sui controlli in modo da verificare gli illeciti della stessa impresa o degli stessi soggetti su tutto il territorio mediante un’anagrafe nazionale, e da conoscere le imprese controllate più o meno frequentemente.

2. Formazione unica e uniforme del personale ispettivo

Si registra un rilevante bisogno formativo di specializzazione mirata al tipo di controllo e alle categorie di rischio ispezionate. Una preparazione specifica su determinate categorie di rischio lavorativo unitamente a un coordinamento che consenta l’utilizzo di ispettori specializzati in un ambito territoriale non limitato dagli attuali confini di competenza di ASL o Direzione provinciale del lavoro consentirebbe una distribuzione delle risorse per materia e non solo per territorio.

3. Concentrazione delle forze ispettive

Allo stato v’è una concentrazione delle forze ispettive per enti di appartenenza (ASL, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Carabinieri, INPS, INAIL, vigili del fuoco...), ripartite non sempre per materie o tipologie dei fattori di rischio. Si noti che soprattutto in non rare realtà provinciali v’è un’assenza di coordinamento e laddove tale coordinamento è presente spesso è solo frutto di iniziative che mantengono gelosamente distinti i campi di intervento.

4. Esposizione personale e difficoltà ambientale

Non si deve trascurare al riguardo che il numero esiguo degli ispettori delle ASL e DPL, nonché la loro frammentazione per enti di appartenenza, non consente una frequente variazione delle singole aliquote ispettive e la presenza costante delle medesime persone nello stesso territorio di competenza crea in molte zone a rischio di criminalità (anche organizzata) un’esposizione personale e sicuramente delle difficoltà ambientali (si pensi ad esempio al caporalato) nel momento dell’accertamento diretto di un illecito penale.

5. I consulenti tecnici preparati e reperibili

L’accertamento di un reato specialmente se eziopatogenetico comporta necessariamente la trattazione specialistica già nei primi momenti delle indagini preliminari (da parte della polizia giudiziaria e del pubblico ministero) di temi tecnici, scientifici, contrattuali, medici, organizzativi, microeconomici che portano automaticamente gli inquirenti a incaricare consulenti tecnici o periti, mancando una vera e propria polizia giudiziaria specializzata su tutto il territorio nazionale.

Ma la presenza di consulenti tecnici effettivamente dotati di alta preparazione su tutto il territorio è tutt’altro che scontata; piuttosto si registra spesso il condizionamento delle indagini per la discutibile qualità degli apporti soprattutto nelle zone del Paese in cui mancano apparati scientifici competenti (università, istituti di medicina del lavoro, ingegneri della sicurezza, esperti di organizzazioni produttive complesse...).

Non si trascuri al riguardo che l’ausilio di un consulente tecnico è un rilevante (verosimilmente il principale) costo processuale sostenuto innanzi tutto dallo Stato.

6. La disparità di trattamento per le vittime

Si registra di frequente la non uniformità sul territorio nazionale del contrasto agli infortuni e quindi l’iniquità e la disparità di trattamento soprattutto per la diversa tutela offerta alle stesse vittime (si pensi alle patologie da amianto).

Pertanto si presenta l’esigenza che l’Agenzia unica espleti le funzioni di seguito elencate:

a) prepari e coordini le forze ispettive;

b) fornisca il supporto investigativo, informativo, tecnico e scientifico a tutti gli uffici giudiziari, di cui beneficerebbero soprattutto le Procure di piccole o medie dimensioni che non possono avere dipartimenti specializzati nella materia antinfortunistica;

c) abbia una competenza che non comporti alcun modifica all’ordinamento giudiziario;

d) non si sovrapponga ad alcuna autorità giudiziaria ma la coadiuvi anche alleggerendola dallo studio di determinati fattori;

e) consenta interventi mirati in caso di grandi opere o comunque di realtà lavorative particolarmente complesse, attraverso la costituzione di unità operative funzionalmente collegate (v. esperienza EXPO 2015);

f) custodisca le banche dati e il collegamento con il SINP;

g) si colleghi con altre agenzie, enti, organismi preposti a specifici settori di lotta all’illegalità (ANAC, ARPA, Agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia, Agenzia delle entrate).

In alternativa alla soluzione incentrata sull’Agenzia unica si può dar luogo alla costituzione di un organismo tecnico-scientifico, che possa svolgere tutti i compiti precedentemente elencati.



Le misure premiali e l’incentivazione degli incrementi degli standard di sicurezza

Come è emerso anche dalle audizioni effettuate, occorre assicurare un sostegno alle imprese che investano nell’incremento degli standard di sicurezza sul lavoro.

La sicurezza sul lavoro deve essere concettualmente concepita non solo come un obbligo, da adempiere in conformità alle prescrizioni legislative, ma deve essere connotata anche come un’opportunità, che possa indurre le aziende, attraverso misure premiali, ad elevare gli standard di sicurezza, incrementandoli anche in una misura maggiore rispetto ai livelli «minimi» previsti ex lege.

In questo senso va riconosciuto all’INAIL l’impegno profuso per dare attuazione all’articolo 11 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che prevede il finanziamento da parte dell’Istituto di una serie di attività formative e di progetti di investimento in materia di salute e sicurezza effettuati dagli operatori imprenditoriali.

Utile è stata, negli anni (restando completamente disatteso il decreto legislativo n. 38 del 2000 laddove dispone la revisione delle tariffe INAIL con cadenza almeno triennale, mentre le vigenti tariffe dei premi individuano nel triennio 1995/1997 il periodo di osservazione dell’andamento infortunistico per la determinazione dei nuovi tassi) la riduzione del tasso medio di tariffa INAIL prevista dall’articolo 24 del decreto del Ministro del lavoro 12 dicembre 2000, pubblicato sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2001, per tutte quelle imprese che effettuano interventi riconosciuti di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro.

L’INAIL, tuttavia, ha recentemente annunciato un taglio di tale incentivo che ha comportato complessivamente una riduzione dei premi per oltre 300 milioni di euro. Si considera tale scelta negativa, almeno fino a quando non verrà completamente riformato il sistema della determinazione delle tariffe, nel senso di correlarle all’andamento delle singole gestioni assicurative di cui al decreto legislativo n. 38 del 2000 – in quanto il diritto alla riduzione deve essere dimostrato dalle imprese tutti gli anni con nuovi interventi di miglioramento. L’«OT 24» – ovvero la riduzione del tasso medio di tariffa – andrebbe considerato un investimento per l’Istituto e non un onere, visto che è finalizzato a ridurre i costi connessi con gli infortuni. Oltretutto qualora la diminuzione dell’incentivo trovasse applicazione a partire dalle domande da presentare entro il 28 febbraio 2015, vanificherebbe gli interventi già programmati e realizzati dalle aziende sulla base dei precedenti criteri.

Tuttavia, il tema reale e più importante, è quello di ridurre in maniera consistente il costo del lavoro derivante dall’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali ripristinando condizioni di equilibrio tra premi ed oneri per singola gestione.

Infatti, alcune gestioni separate registrano avanzi di esercizio, costantemente vicini al miliardo di euro ciascuna, contribuendo in maniera determinante all’avanzo di esercizio dell’Istituto.

Si ricorda che il decreto legislativo n. 38 del 2000, ha suddiviso la Gestione industria INAIL nelle 4 sotto gestioni Industria, Artigianato, Terziario ed Altre attività, ed ha previsto la revisione delle tariffe dei premi INAIL ogni triennio, in modo da consentire la riduzione dei premi per le aziende delle gestioni attive. Tuttavia tale previsione è rimasta lettera morta.

La legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) ha disposto la riduzione dei premi per l’importo complessivo di un miliardo di euro per il 2014, di 1,1 miliardi di euro per il 2015 e di 1,2 miliardi di euro a decorrere dal 2016, ma, in attesa della riforma della tariffa dei premi, si è operato mediante un taglio lineare. Tale scelta ha prodotto un risultato divergente rispetto allo spirito della norma, che prevede di operare tenuto conto dell’andamento economico, finanziario e attuariale registrato per singola gestione assicurativa, nel rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 38 del 2000, il quale, come sopra evidenziato, ha costituito le quattro gestioni separate.



La semplificazione in materia di sicurezza, finalizzata ad accrescere l’efficacia delle misure di prevenzione

La semplificazione incide sulla eliminazione di inutili complessità che fanno della sicurezza un costo e non un investimento.

Nel Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla semplificazione legislativa ed amministrativa del 31 marzo 2014, la Commissione parlamentare per la semplificazione ha evidenziato, tra l’altro, due elementi preoccupanti.

Il primo è che «I risultati raggiunti dall’attività di semplificazione sono complessivamente molto modesti, mentre il quadro normativo ed amministrativo è andato complicandosi anziché semplificandosi. È indubbio che una parte dell’economia poggi sulla complicazione, che ha comportato, negli ultimi decenni, anche la nascita ed il consolidamento di nuove professioni (dal consulente del lavoro al consulente per la sicurezza sui luoghi di lavoro)».

Il secondo è che «il rapporto tra norme eliminate dall’ordinamento e norme che entrano in vigore, secondo i dati forniti dalla Corte dei Conti, è di 1,2 nuove norme per ogni norma abrogata».

Anche a livello europeo, la semplificazione, in questa materia, è un punto cardine. Si pensi al programma REFIT (Regulatory fitness), alla Smart regulation, allo Small Business Act, alla riduzione degli oneri amministrativi, alla strategia in tema di salute e sicurezza, che richiama con forza questi obiettivi.

Secondo l’ISTAT, il 94,8 per cento delle imprese ha meno di 10 dipendenti: la normativa – per essere efficace – dev’essere a misura di impresa, per il principio di effettività ed efficacia proprio del diritto alla sicurezza.

La semplificazione è funzionale anche alla riduzione degli oneri impropri, in quanto evita inutili spese di consulenza, controversie giudiziarie, scelte organizzative inadeguate; garantisce la scelta di idonee misure di prevenzione; consente di orientare opportunamente la formazione, senza inutili sovrapposizioni.

Tenere conto della realtà delle imprese italiane significa valutare le soluzioni più semplici e più efficienti che permettano di garantire una prevenzione efficace della salute e sicurezza dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro, indipendentemente dalla dimensione delle imprese.

In particolare, per il miglioramento della prevenzione, è necessario sburocratizzare la materia, definendo una serie di modalità semplificate per una applicazione reale e non meramente documentale degli obblighi prevenzionali.

Un esempio eclatante di perversione burocratica e formale è costituito dall’ipotesi inserita all’articolo 27 del decreto legislativo n. 81 del 2008 di una «patente a punti» per il settore edile che, quantomeno nelle versioni finora proposte, potrebbe comportare un inutile fardello amministrativo con elevati costi per le imprese, senza che tale misura possa determinare alcun miglioramento effettivo per la sicurezza dei lavoratori e degli imprenditori delle micro e piccole imprese.

Una linea in tal senso è stata tracciata da una disposizione contenuta nella recente legge n. 183 del 10 dicembre 2014 (jobs act), che delega il Governo ad adottare tramite uno o più decreti, disposizioni di semplificazione anche in materia di sicurezza e igiene del lavoro, al fine di conseguire «obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure».
Si esprime l’auspicio che vengano normativamente introdotte semplificazioni incentrate sulle seguenti esigenze:

a) eliminazione di comunicazioni e notifiche inutili, in quanto i relativi dati sono già in possesso delle pubbliche amministrazioni; laddove esse siano necessarie, previsione che avvengano in via informatica;

b) sostituzione di nulla osta e autorizzazioni con l’autodichiarazione del soggetto obbligato;

c) semplificazione degli adempimenti documentali (ad esempio il Documento unico di valutazione dei rischi interferenti DUVRI) per la gestione di appalti, servizi e forniture;

d) elaborazione di procedure di sicurezza (per la valutazione dei rischi, la formazione, l’informazione e la sorveglianza sanitaria) adatte alle particolari modalità di svolgimento di lavori saltuari e con tempistiche limitate, sostenibili dalle imprese e, al contempo, ugualmente in grado di tutelare i lavoratori.

Si riporta di seguito un prospetto tecnico, acquisito dalla Commissione, recante ulteriori proposte tecniche puntuali di semplificazione:

«PROPOSTE DI SEMPLIFICAZIONE senza ipotesi di incremento di spesa o modifiche legislative da porre in essere solo per la piena vigenza del decreto legislativo n. 106 del 2009:

 

– abolizione del Libretto di idoneità sanitaria per i parrucchieri;

– abolizione del Certificato sanitario per l’abilitazione alla conduzione di generatori di vapori e caldaie;

– abolizione del Certificato di idoneità a svolgere la mansione di fochino;

– abolizione del Certificato di idoneità alla conduzione di impianti di risalita;

– abolizione del Certificato sanitario per i lavoratori extra comunitari dello spettacolo;

– abolizione dell’obbligo della radiografia del torace ANNUALE per gli esposti a silice cristallina (articolo 157 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965);

– abolizione della vidimazione da parte delle ASL dei Registri infortuni (quando entrerà in vigore la piattaforma informatica decisa dal SINP (articolo 8, comma 4, del decreto legislativo n. 81 del 2008);

– revisione dell’Accordo Stato-regioni in materia di alcol e sostanze stupefacenti;

– semplificazione documentale (DVR, DUVRI, POS, PSC);

– semplificazione del sistema della formazione puntando alla responsabilizzazione del datore di lavoro e alla verifica del comportamento dei lavoratori;

– attivazione del Sistema informativo delle attività di vigilanza dei servizi della pubblica Amministrazione da parte dell’INAIL, in attesa sempre del SINP, ancora NON ATTIVO;

– attivazione attraverso lo sviluppo del web dei registri esposti a cancerogeni da parte dell’INAIL, ancora NON ATTIVO:

– notifica on line ex articolo 99 del decreto legislativo n. 81 del 2008 da parte del Ministero del lavoro, ancora NON ATTIVA;

– supporto alle verifiche ex articolo 71 del decreto legislativo n. 81 del 2008 INAIL-ASL-Organismi Autorizzati: NON E’ PIENAMENTE OPERATIVO da parte dell’INAIL e delle REGIONI;

– banca dati prescrizioni: ancora NON OPERATIVA da parte delle REGIONI;

POSSIBILI DA SUBITO

decreto-legge n. 69 del 2013

– individuazioni aziende a basso rischio;

– crediti formativi;

– trasmissione telematica infortuni dall’INAIL a ASL, DTL, ecc.;

– semplificazione per imprese agricole di piccole dimensioni o con lavoratori stagionali.

SFIDE PER LA PIANIFICAZIONE 2015 – 2018: tener conto del cambiamento del mondo del lavoro; fine del modello industriale/manifatturiero; precariato forme del lavoro; invecchiamento della popolazione; lavoro grigio/nero; sfruttamento».



Formazione e diffusione della cultura per la sicurezza

Rispetto al tema della formazione e al tema della valutazione del rischio, va conciliata l’efficienza e l’efficacia degli strumenti di formazione con l’esigenza di semplificazione, evitando che tali due necessità vadano a sovrapporsi e, in taluni casi, a contrapporsi.

Come ha evidenziato anche il Ministro del lavoro e delle politiche sociali nel corso dell’audizione svolta, la formazione dei lavoratori in materia di sicurezza è un elemento essenziale, perché mette le persone nella condizione di valutare il rischio e quindi di capire le conseguenze derivanti in tale ambito dai comportamenti soggettivi. Questi temi, che oggi sono regolati, possono sicuramente essere rimeditati; evitando tuttavia che riconsiderarli in una chiave di semplificazione produca un effetto collaterale non voluto, quello cioè di smantellare tali moduli formativi.

Nella prospettiva di una diffusione della cultura sulla sicurezza, va sottolineato che il tema della prevenzione deve diventare sempre più un dato di tipo culturale e diffuso, sistematicamente presente all’interno dei percorsi scolastici e dei processi formativi.

Per quel che concerne poi il tema della formazione (centrale in tale ambito), va evidenziato che l’attività in questione è uno degli interventi di maggior rilievo che il datore di lavoro è chiamato a gestire ed è finalizzato a trasferire le competenze che mettono in grado i lavoratori di affrontare responsabilmente i rischi inevitabilmente insiti in ogni attività lavorativa. Dunque la formazione – come contenuti e modalità – dev’essere tale da incidere sulla consapevolezza dei lavoratori, dotandoli di strumenti operativi commisurati ai rischi che concretamente sono chiamati ad affrontare. Fondamentali, dunque, risultano i caratteri di concretezza ed efficacia dei messaggio formativo, così come la coerenza dei contenuti con le specifiche attività svolte e le mansioni esercitate.

Si è convinti del valore della formazione come strumento strategico per prevenire gli infortuni e le malattie professionali e, proprio per questo, si valuta utile che la regolamentazione in materia sia guidata da una strategia efficace, con obiettivi e criteri univoci e chiari.

La formazione obbligatoria è invece oggi regolata da svariati e non coordinati accordi Stato-regioni che prevedono, in alcuni casi, ripetizioni di contenuti, criteri diversi per quanto riguarda organizzazione, docenti, percorsi; il tutto rende la loro applicazione estremamente difficoltosa, pure a fronte di un costante e costoso impegno dei datori di lavoro.

L’attuale regolamentazione, che doveva correttamente specificare i generali criteri di sufficienza e adeguatezza, ha introdotto disposizioni complesse, ridondanti, spesso disconosciute o diversamente interpretate ed applicate dalle singole regioni o degli organi ispettivi. La semplicità delle regole, al contrario, potrebbe indurre le imprese a svolgere la formazione al proprio interno, un modo da farne uno strumento concreto e pienamente coerente con le specificità aziendali.

Il complessivo impianto regolatorio, invece, ha visto prevalere gli aspetti procedurali, burocratici e formali (accreditamenti, autorizzazioni, certificazioni...), non ha considerato l’inutile ripetizione di corsi identici (non esistendo ancora il «libretto del cittadino») e non ha consentito di riconoscere la legittimazione dei soggetti formatori in regioni differenti da quella di accreditamento.

Le previsioni della legge sono state integrate dagli accordi Stato-regioni, a loro volta attuati da delibere regionali e poi interpretati da ulteriori circolari amministrative.

Ad esempio sarebbe logico che le aziende non siano tenute, come oggi, allo svolgimento di un numero di ore sproporzionato rispetto al rischio reale dell’impresa, in quanto gli accordi Stato-regioni vigenti in materia commisurano le ore di formazione obbligatoria al codice ATECO dell’impresa, generando la paradossale situazione per la quale un’azienda che non abbia attività significativamente pericolose possa essere, in quanto in possesso di un codice merceologico di un certo tipo, tenuta al numero di ore di formazione massimo previsto dalla legge.

Per superare questo impasse è avvertita l’esigenza di pervenire ad una formazione efficace, riferita al reale rischio presente negli ambienti di lavoro, tenendo conto delle necessarie semplificazioni laddove la prestazione del lavoratore presupponga una permanenza di breve durata nei luoghi di lavoro.



Note sulla prevenzione di genere

Nell’ambito della tutela della salute sul lavoro, attuare lo stato di benessere psicofisico e non soltanto la tutela igienico-sanitaria della lavoratrice significa essenzialmente ottenere una maggiore personalizzazione dell’attività lavorativa e un miglioramento, da un punto di vista psicologico, dell’impatto con l’ambiente di lavoro.

La protezione sanitaria nella prevenzione di genere, non può quindi prescindere dai problemi dell’organizzazione di lavoro, che nel caso della differenza di genere, diventa essa stessa rischio di lavoro, né dalle condizioni e dai ritmi di ogni attività lavorativa.

Il rigoroso controllo dell’ambiente di lavoro, quando si affronta il discorso «valutazione del rischio» richiede l’avvio di indagini epidemiologiche soprattutto di tipo longitudinale prospettico, che consentano di stabilire, non solo la natura ma anche i livelli quantitativi dell’esposizione al rischio ambientale. Ciò presuppone un follow-up in tempi lunghi, con disponibilità di personale altamente qualificato.

Studi e ricerche devono interessare gli effetti delle sostanze manipolate e presenti nell’ambiente, come anche gli effetti di nuove tecnologie e strumentazioni soprattutto nei periodi più delicati e vulnerabili della donna quali l’adolescenza e l’età fertile, con particolare riguardo al primo trimestre della gravidanza, per evitare eventuali rischi al nascituro. Secondo alcuni queste procedure aiuterebbero sicuramente la donna a preservare il suo stato di buona salute, ma potrebbero ridurre le possibilità di impiego. In effetti è chiaro che le necessità di condizioni differenziate debbano essere riconosciute e concordate con le lavoratrici, non decise arbitrariamente al di fuori o contro di loro.

Del lavoro delle donne, fino ad oggi, si è parlato in maniera esaustiva, soltanto nel periodo della gravidanza, in rapporto esclusivamente ai rischi del nascituro mentre la tutela della fertilità di coppia rispetto ai possibili rischi occupazionali, ha avuto scarsa attenzione.

Gli infortuni e le malattie professionali che riguardano maggiormente le donne (come le dermatosi e i disturbi muscoloscheletrici) non sono sufficientemente prese in considerazione. Ancora minore è l’attenzione data agli eventi patologici connessi con il lavoro domestico, in particolare gli infortuni. Scarsa è ancora l’attenzione alla diversa risposta biologica delle donne ai comuni rischi lavorativi come il lavoro pesante, il lavoro a turno, la tossicocinetica. Lo stress patologico è associato esclusivamente al lavoro produttivo, senza considerare il maggior rischio psico-sociale che colpisce le donne e che è dato dal doppio carico di lavoro. Così il Ministero della salute descrive l’approccio alla tutela della salute delle lavoratrici.

Ecco perché sono ben otto gli articoli del decreto legislativo n. 81 del 2008, (1, 6, 8, 28, 40, 183, 190, 202) in cui il legislatore ha richiamato il datore di lavoro a rivolgere un’attenzione specifica al genere femminile, perché fosse particolarmente protetto durante l’attività lavorativa. La precarietà del lavoro femminile in più occasioni è stata evidenziata senza una precisa risposta rispetto alle attività lavorative svolte dagli uomini: problemi muscolo-scheletrici delle donne ancora sottovalutati rispetto a quelli dei colleghi dell’altro sesso; discriminazione nell’accesso agli indennizzi; maggiore incidenza infortunistica delle donne se chiamate a svolgere lavori maschili; dispositivi di protezione individuali (DPI) non concepiti ancora per il genere femminile; mancanza di studi mirati in cui viene approfondita una relazione tra tossici industriali e menopausa. A questo quadro vanno aggiunti altri aspetti di salute indiretti quali i diversi livelli di formazione nei due generi, in quanto alle donne il doppio carico (impegno familiare e lavoratrice) sottrae tempo per la formazione, anche in materia di salute e sicurezza, e il tempo extralavorativo difficilmente può essere impiegato in questa direzione. Un’altra difficoltà per le donne sarebbe generata anche dalla diversa esperienza femminile nel mondo del lavoro, troppo recente per avere acquisito sufficiente «cultura» nei processi decisionali in un quadro di valori che può esprimere differenze rispetto a quello maschile generando maggiori conflitti.

Occorre perciò attivare idonei percorsi preventivi partendo dalle «buone pratiche» orientate al genere, tenendo presente quanto sottolineato dal foglio informativo 43 dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Osha-EU). In questo documento, ancora poco noto, vengono elencati i settori lavorativi dove l’elevata presenza femminile necessita di per se´ di un’attenzione specifica: rischio biologico (agenti infettivi, polvere organica e spore); rischio chimico (agenti detergenti, disinfettanti, gas anestetici, farmaci, coloranti, solventi, piombo, silice, pesticidi, ridotta qualità dell’aria); rischio fisico (movimentazione manuale dei carichi, posizioni di lavoro faticose, cadute e scivolamenti, temperature fredde o calde, rumore, movimenti ripetitivi, posizione di lavoro fissa); rischio psico-sociale (lavoro che richiede impegno emotivo, lavoro in ore diverse da quelle socialmente condivise, violenze e aggressioni da utenti, lavoro monotono e ripetitivo, lavoro frenetico, lavoro a prestazione, lavoro senza controllo, interruzioni frequenti).

Va inoltre considerato che, nell’ambito delle previsioni europee basate sul parere degli esperti sui rischi psicosociali, non vanno tralasciati rischi emergenti legati alla condizione femminile come le nuove forme di contratto di lavoro e l’insicurezza del posto di lavoro, l’invecchiamento della forza lavoro, l’intensificazione del lavoro e il già noto elevato coinvolgimento emotivo sul lavoro.

Per finire occorre evidenziare, quale elemento inconscio di insoddisfazione delle donne, il fatto che esse svolgono, più spesso degli uomini, lavori non retribuiti come l’assistenza ai famigliari malati, nonché le cure parentali alle quali dedicano, mediamente, tre volte il tempo degli uomini.


Fonte: senato.it