Cassazione Penale, Sez. 4, 01 aprile 2015, n. 13858 - Prassi pericolosa e mancanza di formazione: amputazione di un dito. Responsabilità del direttore di stabilimento e del direttore generale con delega


 

 


"Il direttore generale dello stabilimento di una società per azioni è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti".

Con riferimento invece al direttore generale con delega in materia antinfortunistica dell’azienda, nella ipotesi di carenza di ordine organizzativo generale, va rilevato che nelle imprese di grandi dimensioni, come quella in questione, non può individuarsi il soggetto responsabile, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell'effettiva situazione in cui lo stesso ha dovuto operare.
È vero, infatti, come sostenuto dai giudici di merito che la tolleranza di prassi lavorative pericolose, in palese violazione della normativa antinfortunistica, attiene a scelte di carattere generale della politica aziendale, che omette di adottare sia le opportune misure organizzative idonee ad imporre l'osservanza in concreto delle corrette modalità di lavorazione sia di verificare l'adeguamento effettivo dei lavoratori alle istruzioni ricevute, anche mediante una appropriata formazione dei preposti, specificamente adibiti alla presenza sui luoghi di lavoro ed alla diretta sorveglianza dei lavoratori in merito all'adempimento delle istruzioni ricevute, soprattutto allorché si tratti dello svolgimento di fasi di lavorazione pericolose come quella in esame.
È però altrettanto vero che nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare non solo l'apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all'interno di questo, al responsabile di settore ma anche, come nel caso in esame, se il direttore generale con delega in materia infortunistica sia stato messo in condizioni di intervenire, in quanto portato a conoscenza della prassi lavorativa vigente nell'azienda pericolosa per la salute dei lavoratori.


 

Presidente Romis – Relatore Piccialli

Fatto


Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, che aveva affermato la responsabilità di R.R. e M.G. per il reato di lesioni colpose gravi aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore D.I.M. (fatto del (omissis) ).
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso al predetto lavoratore, dipendente della ditta Eu., svolgente produzione di resine per applicazione industriale, il quale, mentre utilizzava la macchina Uteco 1,4 colori per stampare fogli in pvc, durante le modalità di scarico della bobina, in particolare, durante lo sgonfiaggio del mandrino (l'albero sul quale viene inserito il subbio, ossia il tubo di cartone sul quale viene arrotolata la bobina di PVC), eseguito utilizzando il proprio dito indice della mano sinistra, inserito nel buco del mandrino, anziché la strumentazione adeguata (pistola ad aria compressa), a causa della condotta dell'altro operaio che tirava il mandrino con forza verso di sé per sfilarlo dal subbio, urtava con il dito la bobina, subendo l'amputazione della falange distale del predetto dito.
Il R. ed M. erano stati chiamati a risponderne quali responsabili della ditta Eu., il primo, nella qualità di direttore generale, con delega in materia di sicurezza del lavoro (dal 5 marzo 2009), ed il secondo, nella qualità di direttore dello stabilimento, (dal 9 gennaio 2009), essendosi ravvisati a loro carico profili di colpa generica e specifica, fondata quest'ultima sulla inosservanza degli articoli 71 ed 87, comma 2, lettera c) d.Lgs 81/2008 ed,in particolare, per non avere addestrato adeguatamente gli operai D.I. e P. all'uso della macchina da stampa Uteco circa le modalità di sgonfiaggio del mandrino pneumatico.
La Corte di appello ha, innanzitutto, affermato, in conformità al giudice di primo grado, che l'effettuazione di quella fase di lavoro con quelle improprie modalità costituiva prassi costante invalsa in azienda da vari anni prima ancora dell'ingresso del P. , e che tale prassi era da tutti - ivi compresi dirigenti e preposti - tollerata.
Ciò premesso l'addebito a carico degli imputati era individuato nell'essere stati gli stessi inadempienti all'obbligo di acquisire un'adeguata consapevolezza della situazione e dello svolgimento usuale delle lavorazioni in azienda ed all'adozione delle misure organizzative necessarie perché le lavorazioni venissero invece eseguite secondo le modalità di sicurezza, eventualmente provvedendo a colmare le lacune della precedente formazione, che, come evidenziato dal giudice di primo grado, non aveva riguardato quella specifica fase di lavorazione.
Sostanzialmente, ai due imputati venivano imputate le carenze organizzative, con la conseguente violazione della normativa antinfortunistica, che avevano portato a quelle modalità di lavorazioni cui è causalmente attribuibile l'infortunio, non rappresentanti una estemporanea ed imprevedibile iniziativa dei lavoratori, ma costituenti una prassi costante adottata in azienda da lungo tempo.
Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione R. e M. , articolando tre motivi.
Con il primo motivo lamentano l'erronea applicazione degli articoli 71 ed 87, comma 2, d.Lgs 81/2008, sul rilievo che la Corte di merito si era limitata a ribadire il principio per il quale l'obbligo della formazione è posto in capo al datore di lavoro, ma aveva omesso di motivare in ordine ai tempi ed alle modalità con le quali nel caso concreto l'attività di formazione avrebbe dovuto essere realizzata. Si evidenzia sul punto che l'omessa formazione non era addebitabile agli imputati (i quali avevano assunto le funzioni nel 2009, a gennaio il M. e a marzo il R. ), in quanto il citato art. 37 non si riferisce genericamente ad un dovere di formazione permanente ma individua con precisione i momenti in cui l'attività di formazione dei dipendenti viene considerata obbligatoria per legge. Il riferimento è, in particolare, al comma 6 dell'art. 37, secondo il quale la formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione all'evoluzione dei rischi o alla insorgenza dei nuovi rischi.
In questa prospettiva, tenendo conto che entrambi i dipendenti lavoravano da anni sulla stessa macchina, l'obbligo di formazione degli stessi non poteva gravare sugli imputati, che avevano assunto le relative cariche nel 2009 ma su coloro che li avevano preceduti nelle medesime funzioni dirigenziali, ciò soprattutto tenuto conto della produzione documentale che dimostrava la partecipazione dei lavoratori ai corsi di formazione e della messa a disposizione degli strumenti tecnici da utilizzare, quale la pistola pneumatica. Con il secondo motivo lamentavano la violazione dell'art. 41 cpv c.p. in relazione alla mancata rilevazione dell'interruzione del nesso causale per la pericolosa e scorretta modalità di esecuzione del lavoro posta in essere dai dipendenti, già oggetto di richiamo verbale in precedenza da parte del caporeparto, come emergeva dalle dichiarazioni testimoniali rese dallo stesso e dai due lavoratori. Tale condotta abnorme si concretizzava, tra l'altro, nella scelta di non usare la pistola pneumatica collegata alla macchina per azionare la valvola pneumatica sul mandrino, di non indossare i guanti come prescritto, e nel far coincidere due momenti dell'operazione, quello della pressione sulla valvola per sgonfiare il mandrino e quello della spinta del tubo in cartone pressato.
Con il terzo motivo, strettamente connesso a quello precedente, si deduce il mancato esame da parte del giudice di merito della prova documentale a discarico, rappresentata dalle disposizioni testimoniali del caporeparto e dei due dipendenti.

Diritto



La Corte distrettuale ha ritenuto che al M. ed al R. , nella rispettiva qualità di direttore dello stabilimento e di direttore generale dell'azienda, con delega in materia di sicurezza del lavoro, incombevano gli obblighi di acquisire una adeguata consapevolezza della situazione e dello svolgimento usuale delle lavorazioni in azienda, con precipuo riferimento a prassi consolidate in uso non conformi alle regole della sicurezza e di adottare le misure organizzative necessarie perché le predette lavorazioni venissero eseguite secondo le modalità di sicurezza, eventualmente provvedendo a colmare le lacune nella precedente formazione dei lavoratori, che non aveva riguardato la specifica fase di lavorazione nel corso della quale si era verificato l'infortunio.
La colpa degli imputati è stata, pertanto, individuata nella carenza di ordine organizzativo generale e non nell'omessa costante sorveglianza delle modalità di lavorazione.
In sostanza, a fronte di una consolidata prassi in quella specifica fase della lavorazione, che presentava così evidenti rischi infortunistici, era richiesto agli imputati, proprio nell'espletamento delle loro mansioni dirigenziali, di adottare le necessarie misure dirette ad evitare il protrarsi di quella pericolosa modalità di lavorazione.
La sentenza impugnata si è soffermata su tale punto indicando le condotte doverose omesse, sintomatiche della carenza organizzativa addebitata agli imputati: la formulazione di adeguate istruzioni scritte (in precedenza del tutto carenti tanto che la lacuna è stata colmata solo nel settembre del 2010), la rinnovazione della formazione relativamente a tale fase di lavorazione (la formazione svolta in precedenza non aveva riguardato questa specifica attività): il conferimento di adeguate istruzione ai preposti perché esercitassero adeguata sorveglianza sugli operatori con la verifica anche da parte di essi che le istruzioni stesse fossero state effettivamente adempiute ed avessero perseguito il risultato (soltanto qualche giorno prima dell'infortunio il capo reparto era intervenuto in un diverbio sorto tra i due lavoratori, richiamandoli alla corretta esecuzione del lavoro con il ricorso agli strumenti disponibili).
I principi sopra indicati sono in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte e risultano calzanti con riferimento alla posizione del M. , direttore di stabilimento della Eu. spa dal gennaio del 2009 mentre per la corretta applicazione degli stessi al R. , direttore generale con delega in materia infortunistica dal marzo del 2009, si impone, per quanto verrà poi precisato, una nuova verifica da parte del giudice di merito.
Passando all'esame del ricorso, con riferimento al M. , va innanzitutto precisato che il direttore dello stabilimento di una società per azioni è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti. (v. Sezione IV, 7 febbraio 2012, Pittis, rv. 255001).
Non si può negare, infatti, che il compito del direttore dello stabilimento, non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertare che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d'uso da parte dei dipendenti o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione.
Il dato da cui bisogna partire nel caso in esame è la sussistenza nell'azienda di una prassi, molto risalente nel tempo, a tutti nota secondo la quale l'operazione di "sgonfiaggio " del mandrino (necessaria al fine di poter estrarre il subbio sul quale era avvolta la bobina di PVC) veniva effettuata dal lavoratore inserendo il dito indice nell'apposito foro, trattandosi di una modalità più veloce, comoda ed istintiva, in quanto non richiedeva di allungarsi per prendere la pistola ad aria compressa. È altresì incontroversa la mancanza di istruzioni operative sul punto, intervenute solo nel settembre 2010 e l'omesso svolgimento di attività di formazione specifica relativamente a questa specifica fase di lavorazione.
Il ricorrente contesta il ritenuto nesso di causalità tra le violazioni addebitate e l'evento nonché in ogni caso, l'asserita riconducibilità delle predette violazioni alla sua responsabilità, censurando la decisione nella parte in cui aveva tralasciato di considerare la recente assunzione della carica rispetto alla verificazione dell'infortunio, osservando altresì che gli eventuali addebiti erano imputabili a coloro sui quali gravava in precedenza l'obbligo di formazione. Si sostiene, altresì, che in ogni caso l'eventuale deficit di formazione sarebbe stato colmato e superato dal richiamo alla corretta esecuzione del lavoro operato dal caporeparto nella settimana precedente all'infortunio.
Tale impostazione difensiva non è condivisibile.
La ricostruzione dell'infortunio operata dai giudici di merito attraverso le testimonianze e gli accertamenti svolti del fatto - sostanzialmente non contrastata dall'imputato - giustifica le conclusioni a cui sono pervenuti con riferimento alla rilevanza causale delle violazioni alla normativa antinfortunistica sopra richiamata.
Non è mai stato contestata, infatti, come sopra evidenziato, l'esistenza, in quella specifica fase della lavorazione, di una prassi risalente nel tempo, anche prima dell'assunzione del lavoratore infortunato, da tutti tollerata in azienda.
Non è mai stata contestata neanche la pericolosità di quella prassi per la salute dei lavoratori.
L'infortunio non si è, pertanto, verificato a seguito di una estemporanea ed imprevedibile iniziativa dei lavoratori.
Questo quadro fattuale è stato correttamente e logicamente posto dai giudici di merito a fondamento del giudizio di rilevanza causale delle predette violazioni nella determinazione dell'evento. Se non vi fossero state le citate carenze organizzative e se, quindi, i lavoratori avessero assimilato le relative corrette modalità di lavorazione e si fossero alle stesse adeguate, l'infortunio non si sarebbe presumibilmente verificato.
Il giudizio controfattuale, formulato in questi termini, non presenta alcuna manifesta illogicità siccome scaturente e dedotta dalle risultanze di causa correttamente evidenziate e le deduzioni difensive tendono a prospettare elementi meramente possibilisti incapaci di inficiare quella conclusione.
Non è certamente qui in contestazione il principio affermato dalla difesa secondo il quale non può individuarsi il soggetto responsabile, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice e che occorre avere presente che i tempi di assunzione dell'incarico erano ravvicinati rispetto al verificarsi dell'infortunio e tali da far ritenere che adeguata attività di formazione fosse stata già svolta in precedenza da chi li aveva preceduti negli incarichi dirigenziali.
Tale conclusione non tiene conto del dato inequivoco emergente dagli atti sulla esistenza in azienda di quella prassi consolidata nota a tutti e che non doveva sfuggire a chi ricopriva l'incarico di direttore dello stabilimento, che si caratterizza per i poteri attribuitigli dal regolamento aziendale e l'ampiezza della procura institoria e,come tale, ricoprente posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavori dipendenti in servizio nello stabilimento dallo stesso prevenuto diretto.
Né in senso contrario depone che il M. aveva assunto tale incarico da circa un anno, dovendosi ritenere tale tempo utile per l'assunzione di un'adeguata consapevolezza dello stesso sulla concreta situazione aziendale, proprio in ragione dello stretto rapporto esistente - o che comunque dovrebbe esistere - tra il direttore dello stabilimento e l'ambiente di lavoro, alla luce dei poteri e degli obblighi derivanti gli dal regolamento aziendale.
In questi termini, sono ineccepibili le conclusioni della sentenza impugnata quando questa afferma che la negligenza dell'imputato andava ravvisata non nell'inadempimento all'obbligo di vigilanza e sorveglianza costante sulle lavorazioni in relazione ad istruzioni già precedentemente impartite ma nelle carenze di ordine organizzativo generale, sopra specificate, idonee a prevenire i rischi infortunistici in quella fase della lavorazione che, se poste in essere, avrebbero presumibilmente evitato il verificarsi dell'infortunio.
Non è neanche condivisibile la linea difensiva diretta a concentrare la responsabilità sui dirigenti precedenti, che non avrebbero promosso una adeguata attività di formazione del personale.
Siffatta considerazione non tiene conto che la molteplicità delle posizioni di garanzia in funzione delle rispettive attribuzioni e competenze, non esclude che, nel concreto, chiamati a rispondere della violazione possano essere più soggetti contitolari di posizioni di garanzia concorrenti e convergenti rispetto alla medesima finalità prevenzionale.
In conclusione il ricorso del M. va rigettato.
Con riferimento alla posizione del R. , pur valendo in linea astratta i principi sopra delineati sulla responsabilità del direttore generale con delega in materia antinfortunistica, nella ipotesi di carenza di ordine organizzativo generale, va rilevato che nelle imprese di grandi dimensioni, come quella in questione, non può individuarsi il soggetto responsabile, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell'effettiva situazione in cui lo stesso ha dovuto operare.
È vero, infatti, come sostenuto dai giudici di merito che la tolleranza di prassi lavorative pericolose, in palese violazione della normativa antinfortunistica, attiene a scelte di carattere generale della politica aziendale, che omette di adottare sia le opportune misure organizzative idonee ad imporre l'osservanza in concreto delle corrette modalità di lavorazione sia di verificare l'adeguamento effettivo dei lavoratori alle istruzioni ricevute, anche mediante una appropriata formazione dei preposti, specificamente adibiti alla presenza sui luoghi di lavoro ed alla diretta sorveglianza dei lavoratori in merito all'adempimento delle istruzioni ricevute, soprattutto allorché si tratti dello svolgimento di fasi di lavorazione pericolose come quella in esame.
È però altrettanto vero che nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare non solo l'apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all'interno di questo, al responsabile di settore ma anche, come nel caso in esame, se il direttore generale con delega in materia infortunistica sia stato messo in condizioni di intervenire, in quanto portato a conoscenza della prassi lavorativa vigente nell'azienda pericolosa per la salute dei lavoratori.
Ciò tenuto conto del breve spazio di tempo intercorso tra l’assunzione dell'incarico (9 marzo 2009) ed il verificarsi dell'evento (22 dicembre 2009), ma soprattutto tenendo conto che ben diversa - con riferimento alla situazione di interesse - è la posizione del direttore generale rispetto a quella del direttore di stabilimento, in ragione della obiettiva situazione di maggiore contiguità di quest'ultimo rispetto alle modalità di svolgimento delle attività lavorative [ciò che qui ha portato a diversa soluzione quanto alla posizione del M. ].
Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l'addebitare all'organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a prassi consolidate in uso non conformi alle regole della sicurezza delle quali, proprio in considerazione della durata dell'incarico, non era stato portato a conoscenza.
L'accertamento in ordine alla concreta situazione in cui in versava l'imputato al momento dell'infortunio con riferimento alla sussistenza in capo al medesimo di un'adeguata consapevolezza delle modalità di quella particolare fase di lavorazione del processo produttivo è questione di merito nella quale questa Corte non è legittimata ad intervenire.
Si impone, pertanto, l'annullamento con rinvio della impugnata sentenza limitatamente alla posizione del R. , che verrà nuovamente esaminata dalla Corte di merito alla luce dei principi sopra indicati.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata nei confronti di R.R. e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Milano.
Rigetta il ricorso di M.G. che condanna al pagamento delle spese processuali.