Cassazione Penale, Sez. 4, 05 febbraio 2015, n. 5403 - Pesantissime lastre di ferro cadute su un piede: uso del carrello elevatore senza abilitazione


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIRENA Pietro A. - Presidente -
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere -
Dott. ZOSO Liana M.T. - Consigliere -
Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere -
Dott. IANNELLO Emilio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
P.M., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 409/2013 CORTE APPELLO di ANCONA, del 31/01/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/12/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. OSCAR CEDRANGOLO che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione;
udito per il ricorrente il difensore Avv. GABRIELE MARRA del Foro di Urbino, in sostituzione dell'Avv. LUCIO MONACO, che si è riportato ai motivi associandosi alle conclusioni del P.G..


Fatto


1. Con sentenza del 31/1/2013 la Corte d'appello di Ancona ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Urbino, in data 13/10/2011, aveva dichiarato P.M., amministratore unico della S. S.r.l., colpevole del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di M.L., conseguentemente condannandolo alla pena di Euro 800,00 di multa: fatto commesso il 5/2/2008.

Era accaduto che il M., impegnato quale dipendente della D.G.S. nei lavori di realizzazione di guardrail unitamente ai dipendenti della S., in esecuzione di appalto commesso ad un R.T.I. del quale sia la D.G.S. che la S. facevano parte, veniva attinto al piede dalla caduta di pesantissime lastre di ferro accatastate su di un cavalletto, provocata dal maldestro sollevamento di quest'ultimo, da parte dell'operatore L.S., dipendente della S., attraverso un muletto al cui uso il L. non era abilitato.

L'evento era ascritto all'imputato per colpa generica e specifica, consistita nella violazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 38, comma 1, lett. b) perchè, nella sua qualità di datore di lavoro del L., aveva acconsentito che quest'ultimo utilizzasse il carrello elevatore, sebbene non fosse adeguatamente formato e addestrato.

Nel confermare il giudizio di penale responsabilità espresso dal primo giudice, ha rilevato la Corte d'appello che, benchè risultasse la presenza al momento dell'infortunio di lavoratori adibiti all'uso del carrello e l'esistenza di disposizioni dirette a consentirne l'utilizzo solamente a lavoratori adeguatamente formati, era tuttavia emerso che già altre volte il L. aveva eseguito la manovra di caricamento delle lastre e che, comunque, la stessa veniva effettuata anche da soggetti non abilitati.

Ha ritenuto, pertanto, la Corte, di dover precisare "il sillogismo posto dal tribunale a fondamento della sentenza" nel senso che, nel descritto contesto, la responsabilità del datore di lavoro andava "radicata sul fatto di non avere adeguatamente vigilato sulla precisa osservanza delle dette disposizioni" e di avere così consentito "anche mediante l'omissione dei necessari controlli, l'adozione di una prassi, ancorchè non connotata da abitualità, in forza della quale veniva consentito l'uso dei carrelli a soggetti non dotati di specifica preparazione e addestramento".

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, per mezzo del proprio difensore, articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo deduce inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e segnatamente dell'art. 521 cod. proc. pen., lamentando il difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

Rileva, in sintesi, che la motivazione addotta dalla Corte d'appello comporta un sostanziale mutamento delle ragioni della decisione, sostituendosi alla condotta commissiva descritta in imputazione ("aver consentito l'utilizzo del carrello elevatore a soggetto non adeguatamente formato e addestrato"), una condotta omissiva (mancato controllo del rispetto delle disposizioni impartite), peraltro genericamente rapportata ad un fatto (la prassi asseritamente radicata all'interno dell'impresa) diverso da quello descritto in rubrica.

2.2. Lamenta - con il secondo motivo - che tale operazione ha comportato una violazione del diritto di difesa, in primo luogo in ragione delle mutate coordinate temporali di riferimento. Osserva che, infatti, ponendo a fondamento del giudizio di responsabilità la violazione dei doveri di controllo, la Corte ha finito per dare rilievo a circostanze fattuali che si collocano a monte della violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 38: circostanze sulle quali esso ricorrente non ha avuto la possibilità di esplicare le proprie difese ed esercitare il suo diritto alla prova.

2.3. Deduce ancora - con il terzo motivo - mancanza e contraddittorietà della motivazione, in quanto ruotante attorno alla ritenuta esistenza di una prassi interna all'impresa, che però non viene in sentenza affermata in termini di certezza e che, comunque, contraddittoriamente, si precisa non essere "connotata da abitualità", tanto più a fronte dell'affermazione contenuta nella sentenza di primo grado circa l'esistenza, all'interno dell'impresa, di "modelli organizzativi idonei ed efficacemente implementati".

2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, infine, erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta configurabilità dell'elemento soggettivo.

Sostiene che l'esistenza di condotte che, in modo saltuario e asistematico, violano le precise prescrizioni impartite dal vertice aziendale, non può ritenersi circostanza idonea a intaccare la legittimità dell'affidamento che esso ricorrente poteva riporre sulla funzionalità degli interventi di sicurezza operati e dell'apparato di controllo.

Soggiunge che, peraltro, una volta accertata la presenza in ogni turno di lavoro di un capo reparto, chiamato a garantire il rispetto di protocolli lavorativi, è difficile ipotizzare l'assenza di interventi di controllo da parte del datore di lavoro, così come è difficile rimproverare a quest'ultimo l'eventuale inerzia del capo reparto nell'adempimento degli obblighi di vigilanza su di esso gravanti.

Diritto

3. Mette conto in premessa rilevare che, diversamente da quanto ipotizzato nella sua requisitoria dal Procuratore Generale, non può considerarsi maturata la prescrizione del reato per cui è processo.

Trattasi, infatti, di delitto di lesioni colpose commesso in data 5 febbraio 2008 per il quale il termine massimo di prescrizione è da individuarsi in sette anni e mezzo; termine evidentemente ad oggi non ancora decorso.

4. Sono infondati i primi due motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili.

Il principio di correlazione tra sentenza e accusa, per pacifica giurisprudenza, è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa.

Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 16422 del 29/01/2007, Di Vincenzo, non massimata).

Ciò è, nella specie, certamente consentito affermare atteso che il profilo di colpa specifica accertato in sentenza è certamente riconoscibile nella descrizione dell'addebito quale contenuta in imputazione. Non può, infatti, dubitarsi che il rimprovero di aver "consentito l'utilizzo del carrello elevatore a soggetto non adeguatamente formato e addestrato" non costituisca affatto qualcosa di diverso rispetto a quello di aver omesso di controllare che il carrello elevatore non fosse utilizzato da soggetti non adeguatamente formati, risolvendosi tale ultima prospettazione in null'altro che in una diversa formulazione, in negativo, della medesima proposizione.

E' vero che tale formulazione vale anche a precisare il carattere omissivo, piuttosto che commissivo, della condotta addebitata, ma è da escludere che tale precisazione possa integrare violazione alcuna del principio di correlazione tra accusa e sentenza. Ed infatti, non si ricava affatto dalla formulazione della prima, nel caso di specie, una univoca prospettazione in senso commissivo della condotta ascritta, ben potendo il verbo "consentire", ivi utilizzato, essere interpretato nel più lato significato di "far sì che" e, quindi, rapportato più all'esito finale della condotta anzichè alla struttura della stessa, come commissiva piuttosto che omissiva. A tanto del resto conducendo anche il riferimento alla norma cautelare specificamente menzionata (il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 38, comma 1, lett. b), la quale descrive un obbligo positivo di condotta (quello di assicurarsi, da parte del datore di lavoro, che "i lavoratori incaricati dell'uso delle attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari di cui all'art. 35, comma 5, ricevono un addestramento adeguato e specifico che li metta in grado di usare tali attrezzature in modo idoneo e sicuro anche in relazione ai rischi causati ad altre persone"), dovendosi per converso ritenere che la contestata violazione di tale obbligo non possa che implicare di per sè - quantomeno anche - l'ipotesi di una condotta omissiva (ossia non essersi il datore di lavoro assicurato di ciò che si è detto).

Appare in ogni caso dirimente, nel senso di smentire la fondatezza della censura, il rilievo che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altri termini, riferimento alla colpa generica, come accade nella specie), essendo in tal caso consentito al giudice di aggiungere, agli elementi di fatto contestati, altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

Analogamente, non sussiste la violazione dell'anzidetto principio anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell'imputato per un'ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella colpa generica, giacchè il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall'indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata, sicchè questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (v. e plurimis Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014 - dep. 19/08/2014, Denaro, Rv. 260161; Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco, Rv. 257902; Sez. 3, n. 19741 del 08/04/2010, Minardi, Rv. 247171; Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv.237469).

5. E' infondato anche il terzo motivo.

La Corte d'appello motiva adeguatamente il proprio convincimento, conforme sul punto a quello del giudice di primo grado, circa la penale responsabilità dell'imputato, evidenziando che dalle convergenti dichiarazioni rese dal L. e dal teste M. emerge che già altre volte il primo aveva eseguito la manovra di caricamento delle lastre e che, comunque, la stessa veniva effettuata anche da soggetti non abilitati all'uso del muletto. I giudici di appello hanno inoltre ragionevolmente escluso che l'efficacia probatoria di tali elementi potesse ritenersi contrastata dalla deposizione di altro teste, che ha affermato di non avere mai visto il L. alla guida di uno dei muletti.

A fronte di un tale impianto argomentativo le presunte lacune o contraddizioni segnalate dal ricorrente investono aspetti marginali ovvero si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle prove come tale certamente inammissibile nel giudizio di legittimità.

In particolare, l'affermazione, contenuta in sentenza (pagina 11), secondo cui dalle suindicate dichiarazioni emergerebbe "una prassi, ancorchè non connotata da abitualità" può forse bensì costituire una espressione erronea sul piano lessicale, ma non basta di per sè a segnalare anche una insuperabile contraddittorietà intrinseca della motivazione, restando chiaro ed univoco il nucleo centrale della motivazione, rappresentato dalla individuazione, sulla scorta dei predetti elementi, di condotte, non episodiche nè isolate, ancorchè non talmente frequenti da potersi definire anche come abituali, che come tali interpellavano comunque l'obbligo di controllo e vigilanza gravante sul datore di lavoro, circa la corretta osservanza delle disposizioni riguardanti l'uso delle attrezzature descritte.

Quanto poi all'affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, relativa all'esistenza, all'interno dell'impresa, di "modelli organizzativi idonei ed efficacemente implementati", analogamente è da escludere che essa rappresenti un elemento di incoerenza interna della complessiva struttura giustificativa delle conformi sentenze di merito, valendo quell'affermazione solo a evidenziare l'approntamento da parte del datore di lavoro di disposizioni organizzative in astratto corrette ed efficaci, circostanza che di per sè non contraddice in nulla il diverso addebito posto a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità, il quale riguarda l'inadempimento dell'obbligo di attento controllo e vigilanza sulla corretta osservanza da parte dei dipendenti di quelle disposizioni.

6. E' altresì infondato, infine, il quarto motivo di ricorso.

La tesi del ricorrente, secondo cui l'obbligo gravante sul datore di lavoro doveva ritenersi adempiuto con la predisposizione di corretti protocolli lavorativi e la previsione della presenza, in ogni turno di lavoro, di un capo reparto, chiamato a garantirne il rispetto, si appalesa debole e inconsistente, non rispondendo ad una corretta interpretazione del contenuto e dello scopo degli obblighi imposti dalle norme infortunistiche a carico del datore di lavoro: prima tra tutte della norma base rappresentata dall'art. 2087 cod. civ. che, come noto, obbliga l'imprenditore "ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Secondo pacifica interpretazione di tale fondamentale disposizione, infatti, il compito del datore di lavoro non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertarsi che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 09-03-1992, n. 2835), attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d'uso pericolose da parte dei dipendenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 27- 05-1986, n. 3576) o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706).

Si è in tal senso precisato che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro, o del dirigente cui spetta la sicurezza del lavoro, è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori vi si adeguino e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il responsabile della sicurezza, sia egli o meno l'imprenditore, deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore ed ha perciò il preciso dovere non di limitarsi a assolvere formalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare "sino alla pedanteria", che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706; ma vds. anche, nello stesso senso, Sez. 4, n. 13251 del 10/02/2005, Kapelj, Rv. 231156, secondo cui "in tema di infortuni sul lavoro, il compito del datore di lavoro è articolato e comprende l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinate attività, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate e disapplicate, il controllo infine sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione").

Alla luce di tali univoche indicazioni normative e giurisprudenziali, non può dubitarsi che, lungi dal potersi considerare adempiuto l'obbligo gravante sul datore di lavoro in materia antinfortunistica con la previsione di corretti protocolli operativi, il fatto stesso che questi siano stati non occasionalmente violati vale di per sè a dimostrare un atteggiamento lontano dal contenuto ben più attivo e sostanziale che a tale obbligo occorre assegnare.

Quanto poi al richiamo al principio di affidamento (nella specie, sulla funzionalità degli interventi di sicurezza operati e dell'apparato di controllo, in particolare per la presenza in ogni turno di lavoro di un capo reparto) lo stesso si appalesa destituito di fondamento, in difetto dei presupposti che tale affidamento potrebbero legittimare.

Il motivo si risolve infatti nella generica affermazione dell'esistenza di deleghe a figure sottoposte di garanti, correttamente negata dalla Corte d'appello (v. sentenza impugnata, pag. 12) con motivazione con la quale il ricorrente non si confronta affatto.

7. In definitiva il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2015