Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 aprile 2015, n. 7388 - Scivolamento della lavoratrice sul pavimento dell'autorimessa del palazzo della Regione: nessuna responsabilità


 

 

"La Corte territoriale, con motivazione corretta sotto il profilo giuridico e congruamente articolata, ha ritenuto che non potesse configurarsi una responsabilità civile a carico del datore di lavoro, giacché, pur dovendosi dare atto che, nel quadro della suddetta normativa, di cui ai suddetti D.M. n. 236/1989 e D.P.R. 503/96, andava rispettato un più rigoroso livello del c.d. coefficiente di attrito (superiore a 40), non potevano trascurarsi le circostanze sopra riportate (assenza dì vizi di manutenzione o di insidia legata alle pulizie, conoscenza, da parte della P., del tratto di pavimento in questione, ecc.), che inducevano ad escludere ogni responsabilità. Così argomentando, la Corte di merito ha mostrato di adeguarsi alle stesse considerazioni del CTU, laddove sottolinea - come riportato testualmente nel controricorso- che le prove strumentali avevano "evidenziato una modesta scivolosità che questo CTU ritiene comune alla generalità dei pavimenti esistenti negli uffici pubblici e privati" e "che il rischio del pavimento de quo, sia pure modestamente scivoloso, in concreto non risulta di particolare rilievo).
Ne deriva che l'infortunio di cui trattasi, ancorché indennizzabile (ed indennizzato), non è, tuttavia, risarcibile."


 

 

Presidente/Relatore Stile

Fatto



Il Tribunale di Bologna, in funzione di giudice dei lavoro, rigettava la domanda della signora F.P., dipendente della Regione Emilia-Romagna ed appartenente all'area dirigenziale dall' 1.3.1997 diretta ad ottenere la rifusione dei danni patiti in dipendenza dell'infortunio in data 13.12.99, giorno nel quale allegava di essere scivolata nel corridoio di un garage posto al secondo piano interrato della sede datoriale.
A sostegno della decisione, il primo Giudice, ammessa ed espletata ctu in ordine alle caratteristiche dei pavimento de quo, osservava che nessuna cautela specifica era stata violata dalla Regione.
Avverso tale decisione proponeva appello la P., lamentando una inesatta ricognizione del diritto oggettivo ed una erronea valutazione del quadro probatorio.
Ricostituito il contradditorío, anche con l'appaltatrice delle pulizie, (nei cui confornti parte datrice proponeva appello incidentate condizionato) e con la relativa società assicuratrice della responsabilità civile, evocate in primo grado, l'adita Corte d'appello di Bologna, ammessa ed espietata c.t.u. di natura medico legale, rigettava il gravame principale e dichiarava assorbito l'incidentale. A sostegno della decisione, dopo avere sotenuto la inapplicabilità del D.M. 236/89 e del D.P.R. 503/96, invocati dalla ricorrente, osservava che nessun addebito poteva attribuirsi alla Regione in ordine al lamentato infortunio, non essendo stato, peraltro, allegato alcun vizio di manutenzione (buche, dislivelli o altro) o insidia legata alle pulizie (acqua o relativi materiali). A tanto erano da aggiungere i seguenti elementi di indole logico presuntiva: da un lato per circa tre anni la P. aveva percorso il tratto di pavimento in questione (come dei resto gli altri dirigenti e consigleri regìonali),senza che nulla fosse accaduto, (o anche solo segnalato); dall'altro l'ausliare officiato in primo grado aveva dato atto della curva a 90° gradi necessaria per accedere al vano ascensori, (curva dove l'infortunio si era verificato); sicché "suole consunte o una andatura eccessivamente veloce" ben avrebbero potuto avere, in concomitanza con la predetta esigenza di svolta di 90°, determinato l'evento.
Onde, in assenza di colpa specifica o generica, solo la non consentita configurazione della responsabilità datoriale come oggettiva avrebbe potuto condurre all'accoglimento delle doglianze della P.. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre F.P. con due motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Resiste la Regione Emilia Romagna con controricorso. Il ricorso non risulta notificato alle altre parti in causa.

Diritto



Con il primo motivo di ricorso la P., denunciando violazione o falsa applicazione degli arti. 416 c.p.c. e 115 c.p.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all'art. 360 nn. 3) e 5) c.p.c.5, deduce che la circostanza -dedotta fin dal primo atto introduttivo - circa la sua rovinosa caduta, in quanto scivolata sul pavimento dell'autorimessa del palazzo della Regione, non era stata contestata in alcun modo dalla Regione stessa né al momento della sua costituzione in giudizio né in seguito. Dovendosi, di conseguenza considerare come accertata detta circostanza, erronea risultava la impugnata pronuncia di rigetto del gravame.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1173, 2087, 1218 e 2043 c.c., in combinato disposto fra loro, e degli artt 1, 3, 4, 9, 31, 33 - commi 3 e 9 - e 96 del d. lgs. 19/9/1994, n. 626 ed omessa, insufficiente e contraddiuoria motivazione, in relazione all'ari. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., evidenzia come il tratto pavimentato, che doveva necessariamente percorrere, presentava anomale e pericolose caratteristiche di scivolosità, ben al di sotto del limite minimo di sicurezza, fissato in base a parametri stabiliti per legge; connotazioni queste che sarebbero state accertate dal Tribunale e non oggetto di impugnazione. Vi sarebbe, quindi, colpa del datore di lavoro, nel lamentato evento dannoso, alla luce del D.M. 236/89 e dei d.P.R. 503/96 applicabili al caso in oggetto in virtù dell'art. 2087 c.c. e della l.626/94.
Il ricorso, pur valutato nella sua duplice articolazione, è infondato.
Va innanzitutto chiarito che -come emerge dalla sentenza impugnata- l'infortunio, di cui è rimasta vittima la P., è dipeso dallo scivolamento della lavoratrice sul pavimento dell'autorimessa dei palazzo della Regione.
Ciò di cui si discute è se tale caduta sia da attribuirsi o meno a reponsabilità della Regione, datrice di lavoro della P..
In proposito la ricorrente non censura in alcun modo l' iter logico seguito dal Giudice d'appello per ritenere l'inapplicabilità in via diretta dei richiamati D.M. e D.P.R.; ciò perché si tratta di normative sorrette da una precisa ratio, il superamento delle barriere architettoniche, e destinate dal legislatore ad un ben determinato ambito di applicazione, spaziale e temporale, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata.
Ha, infatti, puntualizzato la Corte di merito che elementi sia letterali, che di indole sistematica inducono a ritenere estraneo il D.M. dei 1989 agli edifici pubblici e, del pari, a ritenere non applicabili le prescrizioni del regolamento del 1996 in quanto recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici, cioè, non riguardanti aree come il menzionato garage non risultante aperto al pubblico, ma solo ai dipendenti ed ai consiglieri regionali.
Sul punto la ricorrente nulla contesta, invocando piuttosto un'applicazione, per così dire mediata della normativa in questione (e dei coefficienti di attrito in essi previsti), sostenendo che tramite la l. 626/94 e l'art. 2087 c.c. sarebbe sorto per la Regione l'obbligo giuridico di conformare il pavimento dell'interrato della sede regionale ai parametri previsti dal D.M.. 236/89.
In materia, è opportuno richiamare preliminarmente l'orientamento di questa Corte (v. tra le ultime pronunce, Cass. n. 1312/2014) alla cui stregua il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro, seppure non debba provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dell'art. 1218 cod. civ. è pur sempre onerato, in base al principio generale affermato da Cass. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533, della prova del fatto costituente l'inadempimento e del nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno (cfr. Cass. 19 luglio 2007, n. 16003). Infatti, soltanto "una volta provato l'inadempimento consistente nell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza nonché la correlazione fra tale inadempimento ed il danno, la prova che tutto era stato approntato ai fini dell'osservanza del precetto dell'art. 2087 cod. civ. e che gli esiti dannosi erano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro" (v. Cass. 8 maggio 2007, n. 10441). La prova liberatoria a carico del datore di lavoro va, poi, generalmente correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle misure di sicurezza, imponendosi, di norma, allo stesso l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici i quali, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standard" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4148; id. 25 maggio 2006, n. 12445; 24 luglio 2006, n. 16881; 27 luglio 2010, n. 17547).
Quanto al dedotto vizio di motivazione, va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle emergenze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; id. 13 gennaio 2011, n. 313; 3 gennaio 2011, n. 37; 3 ottobre 2007, n. 20731; 21 agosto 2006, n. 18214; 16 febbraio 2006, n. 3436; 27 aprile 2005, n. 8718).
Nè è possibile far valere con il vizio di motivazione la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospettare un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento dei giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (così Cass. 26 marzo 2010, n. 7394). In buona sostanza, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. La valutazione, poi, delle risultanze probatorie come la scelta di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412; id. 26 febbraio 2007, n. 4391; 27 luglio 2007, n. 16346).
Tanto precisato, va osservato che, nella specie, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Inoltre, contrariamente a quanto lamentato dalla ricorrente, la Corte territoriale ha debitamente considerato tutte le circostanze emerse nell'ambito della ricostruzione fattuale dell'infortunio occorso alla P., rispetto alle quali i riferimenti al d. lgs. n. 626/1994 non appaiono dirimenti.
Diverge, evidentemente, il giudizio sulla valenza delle stesse al fine di ritenere sussistente ovvero escludere la responsabilità del datore di lavoro.
Ma, la Corte territoriale, con motivazione corretta sotto il profilo giuridico e congruamente articolata, ha ritenuto che non potesse configurarsi una responsabilità civile a carico del datore di lavoro, giacché, pur dovendosi dare atto che, nel quadro della suddetta normativa, di cui ai suddetti D.M. n. 236/1989 e D.P.R. n. 503/1996, andava rispettato un più rigoroso livello del c.d. coefficiente di attrito (superiore a 40), non potevano trascurarsi le circostanze sopra riportate (assenza dì vizi di manutenzione o di insidia legata alle pulizie, conoscenza, da parte della P., del tratto di pavimento in questione, ecc.), che inducevano ad escludere ogni responsabilità. Così argomentando, la Corte di merito ha mostrato di adeguarsi alle stesse considerazioni del CTU, laddove sottolinea - come riportato testualmente nel controricorso- che le prove strumentali avevano "evidenziato una modesta scivolosità che questo CTU ritiene comune alla generalità dei pavimenti esistenti negli uffici pubblici e privati" e "che il rischio del pavimento de quo, sia pure modestamente scivoloso, in concreto non risulta di particolare rilievo).
Ne deriva che l'infortunio di cui trattasi, ancorché indennizzabile (ed indennizzato), non è, tuttavia, risarcibile.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Sussistono giusti motivi, in considerazione a della natura delle questioni trattate e della peculiarità fattuale della controversia in esame, per compensare - tra le parti costituite - le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 dei 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dei comma 1 bis dello stesso art. 13.