Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 maggio 2015, n. 9504 - Rendita da malattia professionale: presupposto dell'azione è la preventiva presentazione della domanda amministrativa


 

 

Presidente Curzio – Relatore Marotta

FattoDiritto


1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
“Con sentenza n. 2216/2012, depositata in data 2 maggio 2012, la Corte di appello di Bari accoglieva l'appello proposto da Rete Ferroviaria S.p.A. nei confronti di C.G. , E.C. e E.G. (eredi di Er.Gi. ) e, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede - che aveva riconosciuto dipendenti da causa di servizio la cervicodiscoartrosi, la discopatia C5-C6 e la periartrite scapolo omerale bilaterale da cui Er.Gi. era risultato affetto e conseguentemente condannato la società a corrispondere la relativa rendita (quantificata in L. 18.567.903 oltre interessi dall'1/2/1997) nonché a pagare l'equo indennizzo -, rigettava l'azionata domanda. Riteneva la Corte territoriale che la domanda diretta ad ottenere la rendita fosse improponibile per mancanza di domanda amministrativa. Quanto alla richiesta di riconoscimento della causa di servizio e di equo indennizzo, escluso che l'Er. avesse presentato domanda giudiziale anche con riguardo alla periartrite scapolo omerale, escludeva che le altre patologie, aventi origine multifattoriale, potessero essere ricollegate alle condizioni di lavoro.
Avverso detta sentenza C.G. , E.C. e E.G. (eredi di Er.Gi. ) ricorrono per cassazione con tre motivi.
Rete Ferroviaria S.p.A. resiste con controricorso.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano: "Violazione dell'art. 443 cod. proc. civ., del D.M. 2/7/1983 n. 1622 e dell'art. 3 del d.P.R. n. 1124/1965 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) nonché insufficiente motivazione su un punto decisivo controverso (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Assumono che erroneamente la Corte territoriale abbia ritenuto necessaria la domanda amministrativa per l'ottenimento della rendita professionale in presenza di un provvedimento di rigetto della domanda di riconoscimento della causa di servizio, presupposto indispensabile sia della domanda di malattia professionale sia di quella di equo indennizzo.
Il motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte ha già da tempo chiarito (Cass. n. 25481 del 6 dicembre 2007; Cass. n. 17053 del 19 agosto 2005; Cass. n. 16392 del 20 agosto 2004) che la rendita da malattia professionale e l'indennizzo per causa di servizio sono istituti concettualmente distinti e soggetti a discipline diverse. L'indennizzo è una prestazione speciale di natura non previdenziale che l’amministrazione attribuisce al proprio dipendente per compensare "menomazioni fisiche comunque connesse col servizio"; la rendita, invece, è una prestazione previdenziale e richiede che la malattia sia contratta nell'esercizio e a causa della lavorazione svolta. Le differenze tra equo indennizzo e rendita per malattia professionale, esistenti sotto diversi profili, involgono anche il nesso eziologico tra infermità ed attività lavorativa, atteso che, con riferimento all'indennizzo, la riconducibilità delle infermità alle specifiche modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita (quali luoghi di lavoro, turni di servizio, ambiente lavorativo, ecc.) rientrano tra i fatti costitutivi del diritto, mentre quanto alla rendita, per la quale rileva che la malattia sia contratta nell'esercizio o a causa della lavorazione svolta, sussiste uno stretto nesso tra patologia ed attività lavorativa, che in caso di fattori plurimi deve costituire la conditio sine qua non della malattia (v., ex multis, Cass. n. 23674 del 23 novembre 2010; Cass. 17353/2005 cit.; Cass. n. 16392/2004 cit.; Cass. 5 febbraio 1998 n. 1196; Cass. 14 febbraio 1997 n. 1536, Cass. 24 giugno 1998 n. 7286). La distinzione tra i due istituti ha come conseguenza che il riconoscimento dell'equo indennizzo non vincola l'amministrazione, l'ente previdenziale o le Ferrovie dello Stato, nella sua funzione previdenziale conservata dall'art. 21, 40 comma della legge 17 maggio 1985 n. 210 in relazione all'art. 127 n. 2 (fino al limite temporale stabilito dall'art. 13 d.l. 1 ottobre 1996 n. 510, convertito in legge 28 novembre 1996, n. 608) a riconoscere l'altro beneficio che va accertato con le modalità sue proprie.
L'autonomia tra i due istituti e l'esclusione di ogni influenza ovvero dipendenza dell'uno rispetto all'altro si riflette anche sul piano delle procedure dirette ad ottenere le differenti prestazioni. In conseguenza, per la rendita, prestazione previdenziale, è necessaria apposita domanda amministrativa ai sensi dell'art. 443 cod. proc. civ. che costituisce un presupposto dell'azione, mancando il quale la domanda giudiziaria è improponibile e tale improponibilità è rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio (cfr. Cass. n. 5149 del 12 marzo 2004; Cass. n. 26146 del 27 dicembre 2010; Cass. n. 2063 del 30 gennaio 2014).
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Lamentano che la Corte territoriale non abbia tenuto conto dell'aggravamento delle malattie verificatesi nel corso del procedimento amministrativo e di quello giudiziario e così non abbia tenuto conto della cervicoartrosi e della periartrite scapolo omerale che erano state la prima manifestazione di una malattia che aveva progressivamente interessato il rachide provocando la (denunciata) discopatia C5-C6.
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque manifestamente infondato.
Non si evince quando ed in che termini, nel giudizio di merito, i ricorrenti abbia prospettato la questione della relazione tra le patologie sopra indicate in termini di aggravamento.
In ogni caso la Corte territoriale ha puntualmente tenuto conto della discopatia che, secondo lo stesso assunto del ricorrente, costituisce l'effetto delle altre. Se, dunque, si tratta, come si sostiene, della "stessa patologia", l'esame di quella nella forma "aggravata" non può che aver soddisfatto la pretesa.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 2697 cod. civ. e dell'art. 115 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) nonché insufficiente e illogica motivazione su un punto decisivo controverso (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Si dolgono del fatto che la Corte territoriale abbia individuato la noxa patogena in fattori extralavorativi laddove le risultanze della prova testimoniale deponevano nel senso della sussistenza di un rapporto causale tra esposizione a sbalzi termici e sforzi fisici rispetto alle malattie riscontrate.
Il motivo è manifestamente infondato.
Occorre rilevare che, pur a fronte di un denunciato vizio di violazione di legge, in realtà i ricorrenti lamentano essenzialmente una erronea valutazione delle circostanze fattuali che, se rettamente apprezzate, avrebbero dovuto condurre a ritenere sussistente il nesso causale tra le malattie riscontrate e l'attività lavorativa e dunque, un vizio motivazionale.
Va, al riguardo, ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle emergenze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; id. 13 gennaio 2011, n. 313; 3 gennaio 2011, n. 37; 3 ottobre 2007, n. 20731; 21 agosto 2006, n. 18214; 16 febbraio 2006, n. 3436; 27 aprile 2005, n. 8718).
Il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può, dunque, dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano dei tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura dette risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr., ex multis, Cass. 14 gennaio 2011, n. 8; id. 22 dicembre 2006, n. 27464; 7 marzo 2006, n. 4842; 27 aprile 2005, n. 8718).
Né è possibile far valere con il vizio di motivazione la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospettare un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (così Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
In buona sostanza, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Nella specie, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione né evidenziandosi alcuna aporia o incongruenza. Così la Corte territoriale, dopo aver premesso che la discopatia di cui trattasi può essere causata da una molteplicità di fattori lesivi (invecchiamento, predisposizione ereditaria, obesità, squilibri ormonali, ambiente lavorativo tipico di alcuni lavori caratterizzati in genere da posture fisse), ha ritenuto che gli esiti istruttori raccolti in corso di causa, oltre a confermare che l'attività lavorativa dell'Er. si svolgeva in ambienti freddi, non avessero fornito elementi in ordine alla durata dello stazionamento del lavoratore all'interno e all'esterno dei locali della stazione, ai suoi compiti specifici nel carico e scarico dei colli, al peso di questi ultimi e più in generale alla intensità e gravosità dell'impegno lavorativo (eventualmente sollecitatoria della discopatia).
Del resto, i ricorrenti si limitano a prospettare la propria lettura delle risultanze istruttorie (senza, peraltro, riportare il contenuto degli atti su cui incentrano le critiche) invocando una inammissibile revisione del "ragionamento decisorio", non sussumibile nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, n. 5, cod. proc. civ..
Egualmente immune da censure è il passaggio motivazionale nel quale la Corte barese, recependo le conclusioni del c.t.u. ha ritenuto che la riscontrata ulcera duodenale fosse da mettere in relazione con gli antiflogistici assunti dal dipendente. Né invero sul punto i ricorrenti (che non hanno provveduto a trascrivere le c.t.u. neppure nelle parti essenziali a reggere le censure) hanno fornito elementi per escludere che l'ausiliare nominato in grado di appello (cui peraltro erano stati proprio sottoposti i rilievi mossi dalla società appellante alla consulenza di primo grado) abbia esaminato criticamente le conclusioni del primo consulente.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell'art. 375 cod. proc. civ., n. 5”.
2- I ricorrenti, a sostegno dei motivi di ricorso, hanno depositato due distinte memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Anche la società controricorrente ha depositato memoria.
3 - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalle osservazioni di cui alle memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ. depositate dai ricorrenti.
Va, in ogni caso, ulteriormente precisato che, ferma restando l'autonomia tra il procedimento di riconoscimento della dipendenza dell'infermità o lesione da causa di servizio rispetto a quello per la concessione dell'equo indennizzo, non rileva, ai fini della fondatezza dei rilievi, che la domanda dell'interessato per l'ottenimento dell'equo indennizzo (che non può essere concesso d'ufficio) vada considerata necessaria solo in caso di riconoscimento della causa di servizio e non anche quando sia stata esclusa ogni relazione causale tra le malattie denunciate e l'attività lavorativa (così Cass. 5 febbraio 2004, n. 2148; Cass. 10 aprile 1999 secondo cui, stante il tenore letterale dell'art. 4, co. 1 del D.M. 2 luglio 1983 n. 1622, in tale caso la domanda amministrativa sarebbe priva del suo fondamento essenziale, ponendosi come domanda inevitabilmente destinata ad essere disattesa dall'azienda destinataria).
Ciò per due ordini di ragioni:
- nell'ipotesi in esame l'accertata esclusione di ogni rapporto di causalità tra l'attività svolta dall'Er. e le patologie contratte travolge ogni pretesa di riconoscimento dell'equo indennizzo (che è un beneficio previsto, appunto, per compensare menomazioni fisiche connesse al servizio e dunque inscuidibilmente collegato alla sussistenza di una causa di servizio, costituente il presupposto necessario e imprescindibile della richiesta di indennizzo);
- non può svolgersi lo stesso ragionamento (della non necessità della domanda) con riguardo alla rendita professionale. Ed infatti il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una infermità o di una lesione (cui solo può conseguire l'equo indennizzo) non coincide con il presupposto richiesto per l'attribuzione della rendita per malattia professionale, differenziandosi i due istituti - in particolare - per l'ambito e l'intensità del rapporto causale tra attività lavorativa ed evento protetto, nonché per il fatto che il riconoscimento in oggetto non consente di per sé alcun apprezzamento in ordine all'eventuale incidenza, sull'attitudine al lavoro dell'assicurato, di altri fattori di natura extraprofessionale. Pertanto, ai fini del riconoscimento della causa di servizio occorre che l'attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni. Come già evidenziato nella relazione, l'indennizzo che consegue al riconoscimento della causa di servizio è una prestazione speciale di natura non previdenziale che l’amministrazione attribuisce al proprio dipendente per compensare "menomazioni fisiche comunque connesse col servizio"; la rendita è, invece, una prestazione previdenziale la quale richiede che la malattia sia contratta nell'esercizio e a causa della lavorazione svolta. Tale diversità comporta che l'accertamento della dipendenza della malattia da causa di servizio (con il consequenziale riconoscimento dell'indennizzo) e l'accertamento di una malattia come professionale (tabellata o meno) sono retti da regolamentazioni processuali e probatorie proprie e distinte (si vedano per la differenza in termini di nesso causale tra equo indennizzo e rendita da malattia professionale, come individuata dalla giurisprudenza di legittimità, tra le altre, Cass. 5 febbraio 1998 n. 1196; Cass. 14 febbraio 1997 n. 1356, Cass. 6 marzo 2001 n. 3220).
La natura di prestazione previdenziale della rendita da malattia professionale comporta allora la necessità di apposita domanda amministrativa (si ricorda che l'indispensabilità dell'istanza amministrativa in relazione a tutte le controversie di cui all'art. 442 cod. proc. civ. - nella materia previdenziale e nell'assistenza sociale; nei confronti non solo dell'I.N.P.S. ma anche dell’I.N.A.I.L. e degli altri enti erogatori - è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex multis Cass. 28 novembre 2003, n. 18265; Cass. 12 marzo 2004, n. 5149; Cass. 24 giugno 2004, n. 11756; Cass. 27 dicembre 2010, n. 26146; Cass. 30 gennaio 2014, n. 2063; non diversamente deve ritenersi con riguardo agli enti pubblici datori di lavoro che, prima della privatizzazione dei servizi - così di quello ferroviario -, provvedevano direttamente alle assicurazioni sociali).
La rendita, allora, presupponendo un giudizio avente ad oggetto l'accertamento dei presupposti specifici (diversi da quelli relativi al riconoscimento della causa di servizio e dell'indennizzo), andava richiesta con una distinta domanda, irrilevante risultando la circostanza che (non essendo ancora subentrato l'I.N.A.I.L. alle Ferrovie dello Stato per effetto del disposto dall'art. 2, comma 13, del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni nella legge 28 novembre 1996, n. 608 -) ricadesse sul medesimo soggetto sia la competenza a riconoscere la sussistenza della causa di servizio (e conseguentemente l'equo indennizzo) sia la titolarità del rapporto assicurativo (ai fini della rendita professionale).
La sopra evidenziata autonomia trova, del resto, conferma nel principio affermato da questa Corte secondo cui: "L'accoglimento della domanda relativa all'equo indennizzo previsto dall'art. 60 d.P.R. n. 3 del 1957 non comporta anche la condanna dell'amministrazione al pagamento della rendita per malattia professionale, che va chiesta con una distinta domanda, e presuppone un giudizio avente ad oggetto l'accertamento dei presupposti della rendita stessa (diversi da quelli relativi all'indennizzo)" - così Cass. 6 marzo 2001, n. 3220 -.
Non può, di conseguenza, ritenersi, che il rigetto o il silenzio-rifiuto sulla domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio valesse ad esprimere la volontà di negare i diritti del lavoratore anche con riguardo alla malattia professionale.
Pure dopo l'entrata in vigore della legge 11 agosto 1973 n. 533, la preventiva proposizione della domanda amministrativa costituisce un presupposto dell'azione giudiziaria, la mancanza del quale determina l'improponibilità di tale azione (e della relativa domanda); senza che in contrario possano trarsi argomenti dall'art. 8 della citata legge (che si limita a negare rilevanza ai vizi, alle preclusioni e alle decadenze verificatisi nel corso del procedimento amministrativo) o dall'art. 443 cod. proc. civ., che - con disposizione insuscettibile d'interpretazione estensiva e adoperando (con riguardo alla fase amministrativa) il termine "ricorso" nella sua accezione propria e non coincidente con quella del termine di "domanda" - sancisce (con previsione con la quale è in sintonia la norma dell'art. 148 disp. att. cod. proc. civ.) la semplice improcedibilità - anziché l'improponibilità - della domanda giudiziale solo per il caso del mancato esaurimento del procedimento amministrativo (iniziato con la proposizione della domanda in sede amministrativa e proseguito, dopo il mancato accoglimento di questa, con la presentazione del ricorso nella stessa sede) - cfr. al riguardo Cass. 4 novembre 1983 n. 6526; Cass. 11 dicembre 1995 n. 12661; -. In tale ottica è stato così ribadito e definitivamente affermato dalla Suprema Corte che la mancata presentazione della domanda amministrativa di prestazione previdenziale determina non già la mera improcedibilità ex art. 443 cod. proc. civ. ma la radicale "improponibilità" della domanda giudiziale (così Cass. Sez. U, 5 agosto 1994, n. 7269; Cass. 23 luglio 1996, n. 6615; Cass. 19 giugno 2000, n. 8318; Cass. 28 novembre 2003, n. 18265).
Sussiste con ogni evidenza il presupposto dell'art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 - Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
5 - La regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità segue la soccombenza.

P.Q.M.



LA CORTE rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore di Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.