Cassazione Civile, Sez. Lav., 15 maggio 2015, n. 10037 - Mobbing: sette parametri di riconoscimento della fattispecie


 

 

Presidente: STILE PAOLO Relatore: NAPOLETANO GIUSEPPE Data pubblicazione: 15/05/2015

Fatto

 

La Corte di Appello dell'Aquila, confermando la sentenza del Tribunale di Teramo, condannava in solido il Comune di C. e C.E.G. a risarcire il danno alla salute e professionale in favore della dipendente DM.A. quale conseguenza di un comportamento mobbizzante.
La Corte del merito, precisato che la responsabilità del C.E.G. era stata fatta valere dalla DM.A. in via extracontrattuale, osservava, innanzitutto, che la sanzione disciplinare, la cui legittimità era ancor sub iudice, era stata presa in considerazione dal primo giudice solo come fatto storico e non giuridico. Rilevava, poi, la predetta Corte che le risultanze istruttorie confermavano la sottrazione delle mansioni,la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l'assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare,così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione".
Richiamava, inoltre, la Corte territoriale la perizia, allegata agli atti, eseguita in sede penale da uno dei massimi esperti di mobbing che esaminata la vicenda lavorativa della DM.A. aveva riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing. Risultati questi, sottolineava il Collegio di appello, non dissimili da quelli cui era pervenuto il consulente nominato nel giudizio di secondo grado, il quale aveva escluso qualsiasi efficienza causale sulla riscontrata patologia del pregresso morbo di Basedow. Analogamente la Corte del merito escludeva che l'allegata psicosi paranoide trovasse riscontro nella storia clinica della DM.A..
Né secondo la Corte del merito "il Comune poteva essere scriminato dal danno arrecato alla lavoratrice" "giacché la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 2049 cc, ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo". Nella specie, sottolineava la Corte del merito, "la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l'ha comunque tollerata".
Escludeva, infine, la Corte in parola, che vi fosse stata una fase delle operazioni peritali non comunicata ai periti di parte.
Avverso questa sentenza C.E.G. ed il Comune di C. ricorrono, con separati atti, in cassazione sulla base di nove motivi in parte coincidenti.
Resiste con autonomi controricorso la DM.A.. Le parti ricorrenti depositano memorie illustrative.

Diritto


Pregiudizialmente i ricorsi vanno riuniti riguardando l'impugnazione della stessa sentenza.
Preliminarmente rileva il Collegio che poiché i motivi di ricorso, come accennato in narrativa, sono in parte coincidenti si procederà per le censure comuni ad ambedue i ricorsi ad un esame congiunto degli stessi, mentre i motivi non coincidenti saranno analizzati separatamente.
Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione dell'art. 2909 cc e vizio di motivazione, rilevano che erroneamente la corte del merito ha fondato il proprio decisum sulla sentenza relativa a sanzione disciplinare non ancora divenuta cosa giudicata.
La censura è infondata.
Invero la Corte del merito precisa e con motivazione giuridicamente corretta ed immune da vizi logici, che la vicenda relativa alla sanzione disciplinare viene presa in considerazione, non nella sua valenza giuridica, ma quale fatto storico.
A tanto aggiungasi che, comunque, dalla motivazione complessiva della sentenza impugnata non è dato riscontrare che il fatto storico di cui si discute avesse un efficienza determinante nella soluzione adottata dalla Corte del merito. Né ciò è allegato dalle parti ricorrenti.
Con la seconda censura i ricorrenti, denunciando vizio di motivazione, sostengono che la Corte del merito ha assunto la CTU ad elemento di prova e non ha considerato tutte risultanze di causa.
La censura è infondata.
Invero, quanto al profilo medico legale, va rilevato che la Corte del merito facendo proprie le conclusioni del perito ne ha implicitamente condiviso le argomentazioni.
Relativamente,invece, al profilo fattuale la Corte territoriale ha, con motivazione congrua e formalmente logica, accertato che le dichiarazioni testimoniali confermano "la sottrazione delle mansioni,la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l'assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare,così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione".
Circa, poi, la valutazione delle risultanze istruttorie occorre precisare che costituisce principio del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. S.U. n. 13045/97) che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267, Cass. 27 luglio 2008 n.2049 e da ultimo Cass.25 maggio 2012 n.8298).
Con la terza critica i ricorrenti,allegando violazione degli artt. 1218,2087,2043 e 2697 cc, nonché vizio di motivazione,sostengono che le risultanze processuali non fanno emergere nel caso di specie una fattispecie riconducibile a quella tipica del mobbing.
La critica è infondata.
Richiamate le considerazioni, di cui all'esame del precedente motivo di ricorso,concernenti la valutazione delle risultanze processuali, devesi rimarcare che la Corte del merito pone a base del proprio decisum anche le risultanze della perizia, allegata agli atti, eseguita in sede penale da uno dei massimi esperti di mobbing che, esaminata la vicenda lavorativa della DM.A. aveva riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing "che sono l'ambiente; la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive,l'intento persecutorio", parametri questi di cui la Corte territoriale trova riscontro, come detto, nelle risultanze istruttorie.
Con il quarto motivo i ricorrenti,prospettando violazione degli artt. 194, 2° comma, c.p.c. e dell'art. 90, l°comma, disp. att. c.p.c. nonché vizio di motivazione, assumono che il CTU non ha comunicato alle parti una fase delle operazioni peritali con conseguente nullità della sentenza impugnata.
Il motivo è infondato.
Invero la Corte del merito accerta che non vi è stata una fase delle operazioni peritali non comunicata ai periti di parte.
Inoltre poiché la comunicazione alle parti ex artt. 194, secondo comma, cpc e 90, primo comma, disp. att. cpc, è funzionalmente connessa all'esercizio del diritto di difesa è necessario, ai fini di cui trattasi, che venga allegato il concreto pregiudizio del diritto di difesa e la sua decisiva incidenza sulla soluzione della controversia.
Nella specie difetta appunto l'allegazione della predetta decisività con conseguente non ricorrenza di un rapporto di causalità tra eventuale omessa comunicazione e sentenza impugnata.
Con la quinta censura i ricorrenti,deducendo vizio di motivazione, criticano la sentenza impugnata per non aver i giudici di appello chiamato a chiarimenti il CTU a fronte delle note del CT di parte.
La censura è infondata.
Infatti secondo giurisprudenza di questa Corte rientra nel potere discrezionale del giudice di merito accogliere o rigettare l'istanza di riconvocazione del consulente d'ufficio per chiarimenti o per un supplemento di consulenza, senza che l'eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità deducendo la carenza di motivazione espressa al riguardo, quando dal complesso delle ragioni svolte in sentenza, in base ad elementi di convincimento tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici e giuridici, risulti l'irrilevanza o la superfluità dell'indagine richiesta, non sussistendo la necessità, ai fini della completezza della motivazione, che il giudice dia conto delle contrarie motivazioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, si hanno per disattese perché incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione (Cass. 25 novembre 2013 n. 17906 e Cass. 15 luglio 2011 n. 15666).
Nella specie la Corte del merito prende in considerazione i rilievi del CT di parte e con motivazione congrua e formalmente logica, li disattende osservando, tra l'altro, che il CTU aveva escluso qualsiasi efficienza causale sulla riscontrata patologia del pregresso morbo di Basedow e la psicosi paranoide non trovava riscontro nella storia clinica della DM.A. e non era stata riscontrata dal detto CTU, specialista in psichiatria. Con il sesto motivo i ricorrenti, denunciando vizio di motivazione, rilevano che la Corte del merito non ha tenuto conto degli stralci del fascicolo del procedimento penale e tanto perché gli stessi non sono confluiti nel fascicolo d'ufficio essendo stati ritrovati nel fascicolo di parte. Il motivo è infondato.
La mera circostanza che gli stralci in parola non sarebbero confluiti nel fascicolo d'ufficio non può fondatamente far ritenere che di essi la Corte del merito non ne ha tenuto conto.
Del resto la circostanza che la rilevanza di tali atti sarebbe limitata/ secondo la prospettazione degli attuali ricorrenti, alle considerazioni svolte dai periti di parte circa l'insorgenza della patologia a causa del presunto mobbing, dà conto di come, sia pure implicitamente, la Corte del merito, nel condividere le conclusioni del CTU di appello, abbia ritenuto non fondati i rilievi dei detti periti di parte.
Con la settima censura i ricorrenti, assumendo plurime violazioni di legge e plurimi vizi di motivazione,sostengono che la Corte territoriale: riconoscendo anche il danno da dequalificazione professionale è andata ultra petita omettendo di pronunciarsi sul relativo motivo d'appello; ha erroneamente ritenuto sussistente un demansionamento quando invece si trattava di revoca d'incarico di responsabilità d'ufficio, è incorsa in vizio di motivazione in ordine alla prova del demansionamento ed all'entità del danno.
La censura è infondata.
Quanto alla denunciata pronuncia ultra petita va sottolineato che i ricorrenti pur assumendo che non è stato richiesto il danno da dequalificazione professionale omettono di trascrivere nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, il ricorso originario della DM.A. non consentendo in tal modo a questo giudice di legittimità alcun sindacato al riguardo.
Né può obliterarsi che secondo questa Corte l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell'esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cfr. Cass. 24 luglio 2012 n. 12944, Cass. 6 ottobre 2005 n. 19475 e Cass.6 febbraio 2006 n. 2467, nonché in particolare Cass. 12 ottobre 1998 n.10101 - seguita da Cass. 25 settembre 2002 n.13945 - la quale ha precisato che il sindacato su tale operazione interpretativa, in quanto non riferibile ad un vizio in procedendo, è consentito alla Corte di cassazione nei limiti istituzionali del giudizio di legittimità).
Tanto comporta che rimane assorbita la denuncia di omessa pronuncia. Relativamente alla questione del demansionamento va osservato che la Corte del merito non prende in considerazione il demansionamento quale elemento autonomo su cui fonda la ritenuta sussistenza del mobbing, ma lo iscrive nel più ampio contesto della vicenda fattuale che, nella specie, ha caratterizzato il complessivo comportamento vessatorio a danno della DM.A. ed in tale prospettiva appunto valuta la verificata sottrazione di mansioni che vengono in rilievo, per le indicate ragioni, anche se non hanno sempre determinato di per sé l'adibizione della DM.A. a mansioni non corrispondenti alla qualifica rivestita, ma che, pur tuttavia, denotano una dequalificazione professionale rispetto a quella acquisita (V. per tutte da ultimo Cass.4 marzo 2014 n. 4989).
Ciò che viene in rilievo non è, pertanto, la revoca dell'incarico dirigenziale, quanto la dequalificazione professionale, nei termini anzidetti, conseguente alla diversa assegnazione di posizione lavorativa. Né può ritenersi, diversamente da quanto prospettato dai ricorrenti, che la Corte del merito non dà conto delle risultanze istruttorie da cui evince la dequalificazione in parola, atteso che nella sentenza impugnata, con motivazione adeguata, si dà atto che i testi escussi hanno confermato quanto, appunto, poi ritenuto dai giudici di appello sotto il profilo in questione.
Sotto altro profilo mette conto, inoltre, sottolineare che la censura concernente l'entità del danno non può essere valutata da questa Corte a fronte della sua genericità non essendo precisato in quale misura il giudice di primo grado avrebbe riconosciuto tale danno e tanto in assenza di espressa pronuncia della Corte del merito.
Con l'ottavo motivo il ricorrente C.E.G., denunciando violazione dell'art. 410 c.p.c. e vizio di motivazione, assume che la Corte del merito non ha tenuto conto e non ha motivato in ordine alla rilevata improcedibilità della domanda nei suoi confronti non essendo stato convocato per l'espletamento del tentativo di conciliazione. La censura è destituita di fondamento.
Premesso che la Corte del merito correttamente motiva in ordine al sollevato difetto di legittimazione passiva del C.E.G. sul rilievo che la DM.A. ha agito nei suoi confronti a titolo di responsabilità extracontrattuale, va sottolineato che secondo giurisprudenza consolidata di questo giudice di legittimità l'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione è previsto dall'art. 412 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro; la relativa mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c., e può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice, purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l'improcedibilità dell'azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio (Cass. 16 agosto 2004 n. 15956 e Cass. 11 giugno 2009 n. 13591).
Con l'ottavo motivo il Comune di C. e con il nono motivo il C.E.G., allegando violazione dell'art. 92 c.p.c. e vizio di motivazione, sostengono che erroneamente il giudice di primo grado nonostante la DM.A. non fosse risultata totalmente vittoriosa vi è stata la loro condanna al rimborso integrale delle spese di lite e la Corte di Appello pur investita con specifico motivo ha omesso qualsiasi motivazione al riguardo. La censura è infondata.
Invero, oltre alla considerazione che i ricorrenti pur deducendo sostanzialmente un vizio di omessa pronuncia, non precisano in quali termini, in violazione del principio di autosufficienza, la questione è stata devoluta al giudice di appello, vi di contro il fondante rilevo che, come precisato da questa Corte, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell'ipotesi di concorso con altri giusti motivi  (per tutte V. Cass. 11 gennaio 2008 n. 406). i
Nella specie i ricorrenti non sono risultati totalmente vittoriosi, sicché non vi è violazione dell'art. 92 c.p.c. denunciato.
Con il nono motivo il Comune di C., denunciando vizio di motivazione, assume che la Corte del merito non motiva sulla responsabilità dell'Organo politico. Il motivo è infondato.
Invero la Corte territoriale sulla questione di cui trattasi specificamente argomenta, come già detto in narrativa,che "il Comune non poteva essere scriminato dal danno arrecato alla lavoratrice" "giacché la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 20149 cc, ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo e nella specie, sottolinea la Corte del merito,"la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l'ha comunque tollerata.
Trattasi di una motivazione giuridicamente corretta e formalmente coerente che come tale è sottratta al sindacato di questa Corte di legittimità.
In conclusione i ricorsi vanno rigettati.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi li rigetta e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 100,00 per esborsi ed E. 3500,00 per compensi oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 febbraio 2015