Cassazione Civile, Ordinanza Sez. 6, 27 maggio 2015, n. 10984 - Caduta dall'albero e nozione di occasione di lavoro. Caduta estranea all'attività lavorativa


 

 

La Corte afferma che la nozione di occasione di lavoro di cui all'art. 2 d.P.R. n. 1124 del 1965 implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo svolgimento dell'attività lavorativa in modo diretto o indiretto (con il limite del cd. rischio elettivo) e, quindi, anche della esposizione al rischio insito in attività accessorie o strumentali allo svolgimento della suddetta attività, ivi compresi gli spostamenti spaziali compiuti dal lavoratore all'interno dell'azienda nell'intervallo lavorativo contrattualmente previsto. E' stato pure affermato che l'indennizzabilità dell'infortunio subito dall'assicurato sussiste anche nell'ipotesi di rischio improprio, non intrinsecamente connesso, cioè, allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto dal dipendente, ma ìnsito in un'attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative, a nulla rilevando l'eventuale carattere meramente occasionale di detto rischio, atteso che è estraneo alla nozione legislativa di occasione di lavoro il carattere di normalità o tipicità del rischio protetto. Si è precisato che in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa. Orbene, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei sopra richiamati principi affermati da questa Corte giungendo a ritenere che l'attività posta in essere dal R.N. e dalla quale era dipeso il mortale infortunio a lui occorso era del tutto estranea alla attività lavorativa e diretta, piuttosto, alla soddisfazione di un impulso personale (la Corte individua nella intenzione di raggiungere un nido sito sull'albero) e senza alcun nesso di derivazione dall'attività lavorativa svolta.


 

Presidente: CURZIO PIETRO Relatore: FERNANDES GIULIO Data pubblicazione: 27/05/2015

FattoDiritto

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 21 aprile 2015, ai sensi dell'art 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c:
"Con sentenza del 7 maggio 2013 la Corte di Appello di Catanzaro confermava, sia pure con motivazione parzialmente diversa, la decisione del Tribunale di Castrovillari di rigetto della domanda proposta da M.T. intesa ad ottenere l'accertamento che la morte del di lei coniuge R.N. era avvenuta a seguito dell'infortunio sul lavoro del 17.6.2005 e, conseguentemente, il riconoscimento del diritto di essa ricorrente, in qualità di coniuge superstite del R.N., ad una rendita mensile nella misura stabilita dalla legge, oltre rivalutazione ed interessi, nonché al rimborso delle spese funerarie sostenute.
La Corte territoriale ricostruita, sulla scorta delle risultanze istruttorie, la dinamica dell'infortunio a seguito del quale il R.N. era deceduto giungeva a ritenere che era da escludersi l'esistenza dell'occasione di lavoro in quanto l'INAIL aveva provato la creazione di un rischio elettivo da parte dello stesso lavoratore .
Esponeva: che il R.N., dipendente dell'AFOR, il giorno dell'infortunio era intento, insieme ad altri operai costituenti la propria squadra di lavoro, al rifacimento del tetto di un rifugio di montagna ed alla predisposizione di misure antincendio, consistenti nel taglio dell'erba e della vegetazione circostante, in località "Piano Pichino Laghetto" del comune di Alessandria del Carretto; che, dei componenti la squadra, tre si dedicavano al taglio dell'erba ed altri tre, tra cui il R.N., alla sistemazione del tegole del tetto; che, dopo un primo viaggio con un mezzo agricolo per trasportare le tegole dal luogo del deposito al rifugio, quattro operai si erano recati a caricare altre tegole per un secondo viaggio, un altro operario si era allontanato nei pressi della propria auto, il caposquadra aveva fatto ritorno ad Alessandria del Carretto per prendere il carburante necessario al funzionamento dei decespugliateri mentre il R.N. era rimasto solo vicino al rifugio; che gli operai, tornati nei pressi del rifugio, notavano l'assenza del R.N. ed uno di essi, G.F., si accorgeva che la scala artigianale destinata ad essere usata per salire sul tetto era appoggiata ad un albero poco distante; che il G.F., avviatosi verso la scala notava il R.N. disteso, in posizione supina, ai piedi dell'albero ove detta scala era appoggiata e si accorgeva che perdeva sangue dalle orecchie ed era inanimato; che i Carabinieri immediatamente avvisati, giunti sul posto, constatavano il decesso del R.N..
La Corte riteneva che dal complesso di elementi emersi dalle indagini penali svolte nell'immediatezza dei fatti ( in particolare, sulla scorta del verbale di sopralluogo dei carabinieri, del referto stilato dal dottor DM. che aveva constatato il decesso, della informativa degli Ispettori del Servizio Prevenzione, Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro dell'Azienda Sanitaria di Rossano) si doveva giungere alla conclusione che il decesso del R.N. era stato determinato dalla caduta accidentale dalla scala sulla quale egli stesso era salito per ragioni del tutto estranee alla propria attività lavorativa. Precisava, altresì, che tali conclusioni non erano state confutate dalle circostanze, parzialmente diverse, emergenti dalla dichiarazioni testimoniali rese in primo grado. Riteneva, quindi, provata la ricorrenza di un rischio elettivo cui ricollegare il verificarsi dell'infortunio.
Per la Cassazione di tale decisione propone ricorso la M.T. affidato a due motivi. L'INAIL resiste con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso si deduce errata, contraddittoria, insufficiente e generica motivazione.
In particolare, si assume che tanto il Tribunale che la Corte di appello avevano escluso la configurabilità dell'infortunio sul lavoro presumendo, senza alcun riscontro oggettivo e soggettivo, che la morte del R.N. fosse stata causata da una caduta da un albero, durante le ore di lavoro, sul quale si era arrampicato.
Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli art. 1 e 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965.
Premesse varie pronunce di questa Corte sulla nozione di infortunio sul lavoro, si sottolinea che nel caso di specie non ricorrevano le condizioni per rinvenire nel comportamento del R.N. i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, in quanto l'unico dato certo era che il predetto aveva perso la vita in occasione di lavoro, battendo il capo su un masso lapideo che gli aveva provocato la frattura della base cranica; invero, nessun teste aveva mai dichiarato di aver visto il R.N. salire o scendere dall'albero e di aver preso la scala per appoggiarla all'albero. In effetti, l'incidente in questione doveva essere compreso tra quelli enologicamente riconducibili al rischio insito nell'ambiente di lavoro e cioè al rischio determinato dallo spazio delimitato, dal complesso dei lavoratori in esso operanti e dalla presenza di macchine e di altre fonti di pericolo.
Il primo motivo è inammissibile sotto vari profili.
In primo luogo, perché privo del requisito dell'autosufficienza non essendo stato riportato il contenuto nella sua integrità delle deposizioni testimoniali che si assumono non valutate ( ex multis Cass. Ordinanza n. 17915 del 30/07/2010; Cass. n. 4405 del 28/02/2006).
È, altresì, inammissibile alla luce del nuovo testo dell'art. 360, secondo comma, n. 5, c.p.c. (come modificato dall'art 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
La norma si applica ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti pubblicati dopo 11 settembre 2012 ( quindi al caso in esame).
Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte ( SU 8053/14) hanno avuto modo di precisare che a seguito della modifica dell'art. 360, comma 1° n. 5 cit, il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge e, cioè, dell'art. 132 c.p.c, che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione".
Ed infatti, perché violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio "così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall'art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione" fattispecie che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo "talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.
Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta).
Inoltre, il vizio può attenere solo alla quesito farti (in ordine alle questio juris non è configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale; deve, cioè, attenere alla motivazione in sé, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Quanto invece allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell'art. 360, n. 5, cp.c, in cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un atto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Le Sezioni unite hanno specificato che "la parte ricorrente dovrà indicare — nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, cp.c- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti l'esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso".
E' evidente, quindi, che il motivo all'esame non presenti alcuno dei requisiti di ammissibilità richiesti dall'art. 360, comma 1, n. 5 così come novellato nella interpretazione fornitane dalle Sezioni unite di questa Corte.
Peraltro, la Corte di merito ha ampiamente esposto le ragioni del proprio convincimento con una motivazione priva di contraddizioni e che dimostra un vaglio accurato delle risultanze della istruttoria svolta. In definitiva, il motivo finisce con il sollecitare una inammissibile duplicazione del giudizio di merito (cfr. Cass n. 6288 del 18/03/2011; Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass. 13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 18885/2008, Cass. 6064/2008).
Destituito di fondamento è il secondo motivo.
Vale ricordare che la nozione di occasione di lavoro di cui all'art. 2 d.P.R. n. 1124 del 1965 implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo svolgimento dell'attività lavorativa in modo diretto o indiretto (con il limite del ed. rischio elettivo) e, quindi, anche della esposizione al rischio insito in attività accessorie o strumentali allo svolgimento della suddetta attività, ivi compresi gli spostamenti spaziali compiuti dal lavoratore all'interno dell'azienda nell'intervallo lavorativo contrattualmente previsto (Cass. n. 6511 del 07/05/2002; Cass. n. 5841 del 22/04/2002). E' stato pure affermato che l'indennizzabilità dell'infortunio subito dall'assicurato sussiste anche nell'ipotesi di rischio improprio, non intrinsecamente connesso, cioè, allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto dal dipendente, ma ìnsito in un'attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative, a nulla rilevando l'eventuale carattere meramente occasionale di detto rischio, atteso che è estraneo alla nozione legislativa di occasione di lavoro il carattere di normalità o tipicità del rischio protetto (Cass. n. 14287 del 28/07/2004). Si è precisato che in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; e) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. n. 15047 del 04/07/2007). Orbene, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei sopra richiamati principi affermati da questa Corte giungendo a ritenere che l'attività posta in essere dal R.N. e dalla quale era dipeso il mortale infortunio a lui occorso era del tutto estranea alla attività lavorativa e diretta, piuttosto, alla soddisfazione di un impulso personale (la Corte individua nella intenzione di raggiungere un nido sito sull'albero) e senza alcun nesso di derivazione dall'attività lavorativa svolta.
Per tutto quanto esposto, si propone il rigetto del ricorso con ordinanza, ai sensi dell'art. 375 cod. proc. civ., n. 5..".
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
La M.T. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. in cui si ripropongono le argomentazioni già esposte nel ricorso che finiscono con il prospettare una diversa valutazione delle risultanze istruttorie e sollecitano questa Corte ad una inammissibile rivisitazione del merito della controversia.
Il Collegio, pertanto, condivide il contenuto della riportata relazione e rigetta il ricorso.
Le spese del presente giudizio, avuto riguardo alla natura della controversia ed alla particolarità della vicenda, vanno interamente compensate tra le parti.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la: ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell'obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quatery del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art.1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, il 21 aprile 2015