Cassazione Civile, Sez. 6, 29 maggio 2015, n. 11270 - Amianto: requisito della durata continuativa del periodo di esposizione


 

 

Presidente: CURZIO PIETRO Relatore: ARIENZO ROSA Data pubblicazione: 29/05/2015

 

FattoDiritto

 

La Corte di appello di Cagliari, con sentenza depositata in data 11.6.2013, accoglieva il gravame proposto da N.G. e, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che il predetto aveva diritto alla rivalutazione contributiva ex art. 13, comma 8, della legge 257/1992 e ss. modifiche, per il periodo di esposizione qualificata all'amianto del 24 settembre 1973 al 31 maggio 1982 e dal I gennaio 1987 al 28 febbraio 1988.
Rilevava la Corte che l'art. 13 della legge su richiamata non poneva quale condizione del verificarsi dell'esposizione ultradecennale il requisito della durata continuativa del periodo di esposizione e che doveva procedersi, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, alla sommatoria dei due periodi di esposizione, ovvero di quello durante il quale il N.G. aveva lavorato con mansioni di conduttore pontista in sala Elettrolisi e dell'altro dal 1.1.1987 al 28.2.1988, riconosciuto dall'INAIL.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l'INPS con unico motivo di impugnazione. Il N.G. è rimasto intimato.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della relazione redatta ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
Viene dedotta violazione dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 27.3.1992, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c, assumendosi che il giudice di appello ha ritenuto in modo erroneo che la normativa in materia di rivalutazione contributiva per esposizione all'amianto non ponga la condizione della continuità dell'esposizione complessivamente decennale, non avvedendosi neanche che la durata di quest'ultima, in ogni caso, nell'ipotesi considerata non aveva superato il periodo decennale, pure ammettendo che l'esposizione richiesta potesse non essere continuativa. Osserva che, quand'anche si ritenesse applicabile il regime di cui al'art. 47 del d.I. 269/2003, il periodo di esposizione non inferiore ai dieci anni neanche si era realizzato nel caso in esame. La censura è fondata.
Ed invero, la norma contenuta nell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 deve essere interpretata nel senso che il beneficio pensionistico ivi previsto spetta unicamente ai lavoratori che, in relazione alle lavorazioni cui sono stati addetti e alle condizioni dei relativi ambienti di lavoro, abbiano subito per più di dieci anni (periodo in cui vanno valutate le pause fisiologiche, quali riposi, ferie e festività) una esposizione a polveri di amianto superiori ai limiti previsti dagli artt. 24 e 31 del d lgs. N. 277/1991 (cfr. Cass 17916/2010, e, da ultimo Cass. 9457/2014, con riferimento, in particolare, alla non computabilità di periodi di sospensione riferibili ad un singolo lavoratore, in relazione a condizioni soggettive o a particolari vicende del rapporto di lavoro, ed all'esclusione, ove siano stati di durata significativa ed abbiano comportato in concreto l'effettivo venire meno del rischio tutelato, i periodi in cui il lavoratore è stato assente per malattia e in dipendenza da un infortunio sul lavoro).
La sentenza non ha fatto corretta applicazione di tale principio, interpretando la norma in modo erroneo, senza considerare che anche a voler considerare ratione temporìs applicabile la normativa di cui all'art. 47 del d. I. 269/2003, in ogni caso il requisito della durata non inferiore ai dieci anni non sarebbe stato realizzato, atteso che aggiungendo agli otto anni e otto mesi riferiti al periodo dal 24.9.1973 al 31.5.1982 un ulteriore anno e 2 mesi riferiti al periodo dal 1.1.1987 al 28.2.1988, il periodo complessivo sarebbe inferiore al decennio, pure sommando i periodi di lavoro succedutisi in modo non continuativo presso reparti ove si era realizzata l'esposizione a fibre di amianto in misura superiore alla soglia prevista dalla legge.
Per le svolte considerazione il ricorso va accolto e potendo la causa essere decisa nel merito ai sensi dell'art. 384, Il comma, seconda parte, e. p.c, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la domanda del N.G. va rigettata.
La peculiarità della vicenda e l'alternanza dell'esito dei giudizi di merito giustificano la compensazione delle spese dell'intero processo. Essendo stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 occorre dare atto della insussistenza dei presupposti per l'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014). Nella specie l'accoglimento del ricorso esclude la sussistenza degli indicati presupposti.

P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa tra le parti le spese dell'intero processo. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21.4.2015