Corte di appello di Venezia, Sez. Lav., 27 maggio 2011, n. 229 - Placche pleuriche e responsabilità dell'Autorità Portuale di Venezia


 

 

Fatto


Con ricorso d'appello depositato il 22.4.2009 l'Autorità Portuale di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, ha proposto impugnazione avverso la sentenza n.1005/2007 del Tribunale di Venezia - Sezione lavoro - con la quale il giudice accoglieva il ricorso proposto nei suoi confronti da R. L. e, riconosciuta la responsabilità nella causazione della patologia accertata (placche pleuriche), condannava APV al pagamento della somma complessiva di euro 8.821,26, di cui euro 6.300,90 per danno biologico ed euro 2.520,36 per danno morale, oltre accessori dalla data di espletamento del tentativo di conciliazione fino al saldo.
L'appellante ha censurato la sentenza di primo grado in base ai motivi di seguito in dettaglio esposti.
Si è costituito l'appellato chiedendo il rigetto del gravame e la conferma della sentenza impugnata, da ritenersi corretta in base alle argomentazioni nella medesima esposte.
All'udienza del 22.3.2011 la causa è stata discussa dai procuratori delle parti e decisa come da separato dispositivo letto in udienza ed allegato.

Diritto


Lamenta l'appellante errata statuizione in punto a:
Chiamata in causa dell'Inail ex art.354 c.p.c. in ragione dell'istituzione del Fondo per le vittime dell'amianto;
Nullità per indeterminatezza del ricorso di primo grado;
Carenza di legittimazione passiva dell'Autorità portuale;
Concorso di colpa della CLP nella causazione del danno;
Incompetenza funzionale del Giudice del Lavoro;
Nesso di causalità materiale tra esposizione ad amianto e neoplasia polmonare del sig. R. L.;
Assenza di colpevolezza da parte dell'Autorità Portuale (ex Provveditorato del Porto) di Venezia;
Difetto di motivazione sull'individuazione del danno morale;
Errata individuazione del dies a quo per il pagamento degli interessi moratori.
Con il primo motivo di appello l'Autorità Portuale di Venezia (di seguito per brevità APV) lamenta l'erroneità della sentenza nella parte in cui è stata rigettata l'istanza di chiamata in causa dell'Inail. Chiede pertanto che sia disposta la remissione della causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c. per consentire la chiamata in causa del Fondo delle vittime dell'amianto a carico dell'Inail di cui alla l. 244/2007, art. 1 c. 241 e seguenti.
La doglianza è infondata, come già affermato da questa Corte in sentenze, le cui argomentazioni sono di seguito nuovamente espresse, aventi ad oggetto le medesime questioni (tra le tante APV/Casadoro ed altri RG. N.).
Segnatamente il testo normativo richiamato istituisce un fondo dedicato alle vittime professionali dell'amianto ed al comma 242 dell'art. 1 l.244/2007 riconosce la cumulabilità delle prestazioni erogate dal fondo rispetto agli altri diritti (a carattere risarcitorio o indennitario) che le medesime vittime hanno in base ad altre norme generali e speciali. La prestazione erogata dal fondo si aggiungerà alla rendita ex T.U. 1124/65 e la misura sarà in percentuale su tale rendita. Allo stato non è dato evincere se tale "prestazione economica aggiuntiva" operi solo come prestazione aggiuntiva alla "rendita" e non anche all' "indennizzo" erogato dall'I.N.A.I.L., e se essa operi sulla parte indennizzata dall'I.N.A.I.L. a titolo di danno biologico o a titolo di danno patrimoniale. Vi è inoltre da rilevare che il comma 242 art. 1 L. cit espressamente dispone che le prestazioni del Fondo "non escludono e si cumulano ai diritti di cui alle norme generali e speciali dell'ordinamento" . Appare dal dato letterale sufficientemente chiaro che le prestazioni dispensate dal Fondo non potranno escludere alcuno degli altri diritti (quali che essi siano, anche di natura puramente previdenziale) stabiliti dall'ordinamento per i medesimi soggetti; in particolare non si potrà opporre alcuna compensazione né calcolo differenziale tra le prestazioni erogate dal fondo e il diritto al risarcimento dei danni spettanti alla stesse vittime ex art. 1218 c.c. ovvero ex art .2043 c.c.. A differenza di quanto avviene per le prestazioni erogate dall'INAIL in base al T.U. 1124/1965, la legge 244/2007 stabilisce che le speciali prestazioni erogate dal Fondo "non escludono e si cumulano" agli altri diritti (risarcitori o indennitari). A ciò si aggiunga che non è stato ancora predisposto il regolamento attuativo del fondo richiamato.
In conclusione sul punto, non può ritenersi sussistente alcun litisconsorzio necessario nei confronti di un soggetto non ancora compiutamente identificabile e relativamente ad una prestazione che comunque dovrà essere cumulata con quella eventualmente erogabile in prospettiva da detto fondo.
Con il secondo motivo l'appellante ripropone l'eccezione di nullità per indeterminatezza del ricorso.
Tale eccezione era fondata in primo grado su un doppio presupposto: mancanza di una designazione formale del contraddittore processuale del ricorrente, attuale appellato, ed impossibilità di dedurre indicazioni sufficientemente precise sull'identità del convenuto-resistente, attuale appellante.
Anche in ordine a tale doglianza si ritiene condivisibile quanto argomentato nella sentenza impugnata.
Il giudice di primo grado, richiamando giurisprudenza, ha scritto :" ritiene questo Giudice che la complessiva valutazione del ricorso consenta pienamente di individuare sia il soggetto ritenuto dal ricorrente responsabile dei danni di cui chiede il risarcimento sia le ragioni di fatto e di diritto sottese all'individuazione della Autorità Portuale quale soggetto chiamato a rispondere dei danni patiti da ricorrente sia sotto il profilo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. sia sotto il profilo della responsabilità aquiliana ".
Parte appellante deduce che nel ricorso di primo grado non è stata determinata con sufficiente chiarezza la sussistenza nel ricorso del titolo della responsabilità.
Osserva al riguardo la Corte che il profilo di responsabilità (contrattuale e aquiliana ) azionato nei confronti di APV appare ben specificato e si connette con quello della legittimazione passiva di APV, tenuta al rispetto degli obblighi di sicurezza dei lavoratori impegnati, che verrà esaminato nel prosieguo della motivazione.
In conclusione ritiene questa Corte che il ricorso di primo grado non contenga quegli elementi di incertezza che, soli, autorizzerebbero una dichiarazione di nullità del ricorso ex art. 414, n. 2 c.p.c. .
Con il terzo motivo d'appello l'APV ripropone l'eccezione di carenza di legittimazione passiva e formula ulteriore istanza ex art. 354 c.p.c., nei confronti di CLP .
Al riguardo deve osservarsi che in primo grado il R. ha allegato che era il Provveditorato al Porto ad organizzare il servizio portuale programmando lo svolgimento dell'attività e decidendo la consistenza delle squadre di lavoro, mentre la CLP sostanzialmente si limitava a fornire al Provveditorato le squadre da questo richieste - formate dal personale che si era presentato alla chiamata, in base al cd. "molino", alla presenza di funzionari del Provveditorato al Porto - e ad inviarle laddove dovevano essere svolti i vari servizi, come concordato dal Provveditorato con i suoi clienti.
In base alle allegazioni di cui al ricorso di primo grado, risultate peraltro dimostrate all'esito dell'istruttoria espletata, come di seguito si dirà, non ricorre l'ipotesi riconducibile al litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., così come ha inteso il giudice che non ha disposto l'integrazione iussu judicis, anche considerando che non erano state formulate dalla parte ricorrente originaria conclusioni nei confronti di soggetto diverso da APV.
Circa l'eccezione di carenza di legittimazione passiva, di cui per l'appunto al terzo motivo d'appello, parte appellante ritiene che il giudice di primo grado abbia errato anche nel non riconoscere il proprio difetto di legittimazione passiva in considerazione della mancanza di un rapporto di lavoro con il R..
Per giustificare il rapporto di lavoro diretto con APV il giudice di primo grado ha richiamato la normativa in vigore prima della l.84/94 ed in particolare gli articoli 110 Codice della Navigazione ("Le maestranze addette alle operazioni portuali sono costituite in compagnie o gruppi, soggetti alla vigilanza della autorità preposta alla disciplina del lavoro portuale. Le compagnie hanno personalità giuridica .... Salvo casi speciali stabiliti dal Ministro per le comunicazioni l'esecuzione delle operazioni portuali é riservato alle compagnie o ai gruppi" ) e 111 ( " L'esercizio da parte di imprese di operazioni portuali per conto di terzi é sottoposto a concessione del capo del compartimento, per la navigazione e del capo dello ispettorato di porto, per la navigazione interna, secondo le modalità stabilite dal regolamento. Le autorità predette possono determinare il numero massimo delle imprese in relazione alle esigenze del traffico. La concessione può essere data alle stesse compagnie delle maestranze portuali. In ogni caso l'impresa concessionaria deve avvalersi, per l'esecuzione delle operazioni portuali, esclusivamente delle maestranze costituite nelle compagnie o nei gruppi" ).
Sulla scorta di dette disposizioni si evince che l' attività di impresa consistente nello svolgimento di operazioni portuali per conto terzi poteva essere svolta solamente sulla base di concessione dell'autorità amministrativa, e che dette imprese potevano impiegare - quanto all'esecuzione - solamente manodopera organizzata in compagnie o gruppi portuali; anche la compagnia portuale in sé non poteva svolgere attività di impresa portuale, se non sulla base di previa concessione.
Va altresì richiamata la normativa istitutiva del Provveditorato al Porto di Venezia, costituita dal RDL 503/29, norma che - definito il Provveditorato quale azienda autonoma sotto la dipendenza del Ministero delle Comunicazioni -, affidava allo stesso "l'esercizio commerciale del Porto di Venezia".
In conseguenza dell' affidamento per legge al Provveditorato dell' esercizio commerciale del Porto di Venezia il Provveditorato stesso poteva svolgere direttamente attività imprenditoriale avente ad oggetto operazioni portuali, mentre solo con la L. 84/94 il Provveditorato, mutata denominazione in Autorità Portuale, è stato privato della possibilità di esercitare direttamente attività di impresa ed i suoi compiti sono stati limitati all'attività amministrativa.
Ciò posto, "Il rapporto di lavoro fra compagnie portuali - costituite in forma cooperativa ed aventi personalità giuridica - e singoli lavoratori soci si instaura solo quando le prime esercitano direttamente l'attività di impresa per le operazioni di carico e scarico e non anche quando le compagnie medesime si limitano a fornire la manodopera qualificata alle imprese portuali, ... Infatti il d.P.R. 30 giugno1965 n. 1124 (T.D. sull'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ), dopo aver indicato ( art. 9 ) fra i datori di lavoro obbligati all'assicurazione la compagnia portuale nei confronti dei propri iscritti, prevede espressamente (art. 27) il diritto della compagnia di rivalersi della relativa spesa nei confronti delle persone o degli enti nell'interesse dei quali le operazioni portuali vengono compiute - rivalsa che viene concretamente attuata mediante un'addizionale alla tariffa, vigente in ciascun porto, relativa alle prestazioni della manodopera, addizionale che, come la tariffa, viene fissata dall'autorità portuale - e che devono essere pertanto considerati come gli effettivi datori di lavoro, nei confronti dei quali vale l'esonero della responsabilità civile o si esercita l'azione di rivalsa, ai sensi dell'art. 10 del citato d.P.R. n. 1124 del 1965." (Cass., n.2992/95).
L'appellante pone in risalto che proprio la distinzione tra rapporto tra portuali e compagnia e tra compagnia e provveditorati dimostra l'inesistenza di un rapporto diretto tra portuali e provveditorati, sicché, secondo la prospettazione di APV non vi sono disposizioni normative che prevedevano ex lege l'esistenza di un rapporto giuridico diretto tra enti portuali e soci lavoratori.
L' APV deduce che in base all'attività svolta da CLP deve esserne verificata la natura, ossia deve stabilirsi se si tratta di mera fornitrice di manodopera o di impresa vera e propria.
Secondo l'orientamento della Suprema Corte "le compagnie delle maestranze portuali non svolgono attività di impresa quando si limitino a collocare, come è loro obbligo, le squadre delle maestranze presso l'utente del porto, oppure presso l'impresa concessionaria dei servizi portuali, incaricata dall' utente delle operazioni di imbarco o sbarco delle merci, ancorché essi forniscano ai lavoratori i mezzi meccanici ausiliari, necessari, nella moderna tecnica delle operazioni portuali, ad agevolarli nella loro fatica"(Cass. n.2992/1995 citata anche nella sentenza impugnata).
Nel contesto dell'attività portuale presso il porto di Venezia unico soggetto dotato di caratteristiche imprenditoriali era APV e questo elemento serve a ricondurre a tale soggetto l'esclusiva incombenza del rispetto della normativa ex art. 2087 c.c., indipendentemente dalla diretta dipendenza dei lavoratori. In altri termini, occorre considerare che nel caso di specie, in base alle allegazioni del R. e come dimostrato successivamente in base all'istruttoria, una sola era la figura imprenditoriale di preminenza. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "l'art. 2087 c.c., integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all'imprenditore l'adozione di misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori d'opera; ciò sembra richiedere, quale necessario presupposto, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato - come delineato dal richiamato art. 2094 - tra danneggiante e danneggiato. Se non che, da tempo, specie quando si è trattato di procedere alla individuazione del datore di lavoro in quanto soggetto penalmente responsabile in materia di prevenzione infortuni, si è avvertita l'inadeguatezza della cennata impostazione dandosi rilievo al dato oggettivo, si da ricomprendervi anche i soggetti che, pur non formalmente titolari del rapporto di lavoro, abbiano però la responsabilità dell'impresa o di una sua unità produttiva." ( Corte di Cassazione, n. 4129/2002 ). Inoltre "l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori che operano all'interno dei propri stabilimenti, senza distinguere fra propri dipendenti e dipendenti altrui, quando gli stessi siano comunque diretti da esso imprenditore, senza alcuna ingerenza da parte dell'appaltatore ed alcuna regolare delega in materia di sicurezza" ( Corte di Cassazione, n. 1070/2008 ).
In conclusione, si ritiene che la legittimazione passiva di APV derivi dalla univoca circostanza, allegata nel ricorso introduttivo che tale soggetto, unico, esercitava l'attività imprenditoriale all'origine dei fatti per cui si è instaurato il procedimento e, in quanto imprenditore ,ad esso competeva ogni profilo di responsabilità relativamente alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori che svolgevano attività riconducibile alla propria sfera imprenditoriale. E ciò indipendentemente dalla sussistenza di un diretto rapporto di lavoro tra le parti, che non appare indispensabile per rendere operative le tutele imposte dall'art. 2087 c.c..
Il quinto motivo d'appello è quello relativo alla competenza funzionale del giudice del lavoro.
Secondo l'appellante poiché non sussiste un rapporto diretto di lavoro tra il R. e APV, la competenza funzionale non potrà essere riconosciuta a quel giudice che vede nel rapporto di lavoro ex art. 409 c.p.c. il fondamento della competenza funzionale.
Al riguardo si può richiamare quella giurisprudenza per la quale :" Per controversie relative a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell'art. 409, n. 1, cod. proc. civ., debbono intendersi non solo quelle relative alle obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte le controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente al detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la "causa petendi" di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, e non già meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di lavoro ( Corte di Cassazione, n. 4129/2002 ). Pacifico che l'attività lavorativa del R. costituisca antecedente e presupposto necessario del presente giudizio e, conseguentemente, bene ha fatto il giudice del lavoro di primo grado a ritenere la propria competenza funzionale.
I motivi quarto, sesto e settimo riguardano il merito della controversia, ossia la sussistenza dei requisiti di responsabilità di APV sotto il profilo soggettivo (concorso di colpa CPL e assenza di colpevolezza APV) e con riguardo al nesso causale.
Circa il primo profilo, le argomentazioni esposte nei motivi di appello riguardano la circostanza che nessuna delle possibili precauzioni che erano previste all'epoca delle presunta insorgenza della patologia avrebbe potuto rivelarsi efficace contro le inalazioni da microfibre di asbesto.
Le censure sono infondate.
Segnatamente era sempre e comunque esigibile da parte di APV la predisposizione di tutte quelle misure di prevenzione non adottate nel caso di specie. Sull'argomento specifico si è già espressa la Corte di Cassazione che ha dichiarato in termini generali con riguardo alla normativa relativa al precetto generale: "allorché venga in rilievo la responsabilità civile del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. (non operando l'esonero dalla predetta responsabilità ai sensi dell'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965), la natura di norma di chiusura del sistema infortunistico fa si che sia imposto al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, il dovere di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore" (Cass., 9 maggio 1998, n. 4721) e con riguardo alla normativa specifica ex DPR 303/56 confermando la sentenza di merito "Non si è discostato da tale principio il Tribunale con l'affermazione che, se tutte le prescrizioni cautelative (in particolare, quelle concernenti la riduzione di fumi o polveri nocive e comunque dei rischi), possibili all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, fossero state rispettate, si sarebbe, alla stregua di un giudizio probabilistico, sicuramente ridotto il rischio di assumere la dose innescante e quindi di contrarre la malattia" (Corte di Cassazione, n. 8204/2003).
APV non ha chiesto di provare, né di conseguenza ha provato, l'adozione di misure di protezione, ma, come si è visto, per un verso nega di esservi stata tenuta e, per altro verso, deduce che deve essere esclusa la propria responsabilità civile nei confronti del lavoratore, considerato all'epoca dei fatti di causa non era noto il pericolo generato dall'amianto.
La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. cit., pur non essendo di carattere oggettivo, sanziona l'omessa predisposizione di cautele per la salute del lavoratore, commisurate al tipo di lavorazione ed al connesso rischio, dato specialmente da fumi o polveri nocive (Cass. 9 maggio 1998 n. 4721, 23 maggio 2003 n. 8204,14 gennaio 2005 n. 644, quest'ultima con riferimento al rischio amianto già negli anni sessanta).
Nel caso di specie il rapporto di lavoro ha avuto svolgimento da aprile 1968 a maggio 1996; può dunque considerarsi come noto al tempo dei fatti di causa il rischio da inalazione di polveri di amianto (così Cass. n.2491/2008).
L'appellante non contesta specificatamente poi la situazione di rischio nell'ambiente lavorativo, ma sostiene la sussistenza del concorso di colpa della CLP in quanto l'operazione di sollevamento dei sacchi di amianto dall'interno della stiva delle navi verso la banchina del porto era rimessa all'organizzazione della CLP.
Come correttamente affermato nella sentenza impugnata, l'istruttoria testimoniale espletata in primo grado ha dimostrato che in effetti la Compagnia Lavoratori Portuali fungeva da "interpositore lecito" di manodopera, ossia limitandosi a fornire il personale al Provveditorato al Porto, vera impresa portuale. Il Provveditorato era impresa di sbarco e la CPL forniva i servizi di sbarco sotto la vigilanza del primo (così teste C. indicato da APV).
In particolare, le modalità di avvio dal lavoro, come riferite dal teste L. e riportate testualmente in ampi stralci nella sentenza, il personale veniva semplicemente "smistato", in squadre di sei elementi, ogni mattina, così come la proprietà dei mezzi necessari per carico e scarico facevano capo al Provveditorato (in senso conforme anche testi P. e L.).
Non può dunque che condividersi la valutazione del primo Giudice sulla ricostruzione giuridica del rapporto e della vicenda per cui è causa sulla scorta delle deposizioni e della normativa in materia (artt. 108-111 c.n.). In particolare, perciò, la Compagnia Lavoratori Portuali era costituita dalle maestranze addette alle operazioni portuali, ed aveva una struttura organizzativa diretta non a gestire una impresa per operazioni portuali ma solo ad organizzare il personale, gestendo ferie, permessi, stipendio e via dicendo.
" La Compagnia Lavoratori Portuali infatti, aveva come unico interlocutore il Provveditorato al Porto ( ora Autorità Portuale) dalla quale riceveva le richieste di personale per le operazioni di sbarco e imbarco, mentre il Provveditorato al Porto riceveva le richieste dalle agenzie marittime e provvedeva al reperimento del personale e dei mezzi".(così la sentenza di primo grado).
Consegue da tale ricostruzione la mancata dimostrazione del concorso di colpa della CPL, per quanto sopra rilevato circa il limitato ambito di "competenze" e correlate responsabilità della stessa, e ribadito che la CPL operava sotto la vigilanza del Provveditorato.
Quanto al nesso causale, deve essere precisato che, contrariamente a quanto riportato nel titolo del sesto motivo d'appello, il R. non è affetto da neoplasia polmonare ma da placche pleuriche.
L'appellante non censura specificatamente l'affermazione dell'esposizione ad amianto, ma contesta invece la riconducibilità delle placche pleuriche a detta esposizione e soprattutto sottolinea l'assenza di danno all'integrità fisica del R..
In base alla CTU espletata in primo grado dal dott. M. l'appellato presenta " placche pleuriche bilaterali calcifichi e diaframmatici di destra di tipo nodulare -calcifica ...nodulo di piccole dimensioni ..." . Il CTU ha precisato che le placche pleuriche sono le affezioni più importanti nel gruppo delle pleuropatie benigne asbesto- indotte e sono riconosciute come indicatori di esposizione all'asbesto usualmente a bassi dosi o ad esposizioni brevi ed intermittenti, nonché compaiono venti o più anni dopo l'inizio della esposizione alle polverio di asbesto. Le placche pleuriche associate alla esposizione all'asbesto sono - come nel caso in esame - bilaterali ed il medical Advisor Panel sostiene che la bilaterialità delle lesioni è un attendibile indicatore di esposizione di tipo professionale.
Il CTU, per la tipologia delle mansioni svolte e in base alle informazioni contenute in atti ha accertato, seppure in via presuntiva, che l'esposizione è stata di elevata intensità seppure discontinua nel periodo 1968-1979 e di moderata intensità e discontinua fino al 1990 e quindi complessivamente " una esposizione discontinua ma significativa per ventidue anni". Secondo il dott. M., la esposizione subita da L. R. è stata sufficiente a causare la comparsa di placche pleuriche documentate dalla TAC del 2000 e successive ed il tempo di latenza tra l'inizio della prima presunta esposizione (1968) e la diagnosi della malattia (2000) di trentadue anni, è stato sufficiente a produrre le predette placche pleuriche.
Circa l'assenza di danno all'integrità fisica, in mancanza di menomazione della funzione respiratoria del lavoratore, si condivide l'indirizzo della Cassazione secondo il quale " quando l'alterazione anatomica non abbia attualmente incidenza funzionale, non è censurabile la sentenza di merito che ravvisi il danno biologico a causa del semplice pericolo cagionato dall'alterazione"(così Cass. n. 2491/2008).
Con l'ottavo motivo d'appello l'APV censura la sentenza in relazione al riconoscimento del danno morale, sostenendo che erratamente il primo Giudice ha risarcito il danno da "sospetto di malattia futura".
Anche detta doglianza è infondata.
In primo luogo, contrariamente a quanto detto nell'atto di appello, in primo grado il R. aveva formulato allegazioni sul punto (pag.n.22 ricorso ex art.414 c.p.c.).
Secondariamente, correttamente il primo Giudice ha sottolineato che la presenza di placche sembra associarsi ad un aumentato rischio di mesotelioma rispetto a soggetti con comparabili storie espositive che non hanno placche e pertanto vengono comunque interpretate come un indicatore di elevato rischio di tumori maligni.
Ora il patema o turbamento d'animo correlato alla "paura di ammalarsi" è stato più volte riconosciuto dalla giurisprudenza (Cass. n. 2515/2002 ; Corte Appello Roma SL n.7131/2008) ed è senz'altro da ritenersi accertato nella fattispecie in via presuntiva, in base alle considerazioni medico-legali espresse dal dr. M..
Pertinente e condivisibile è altresì l'indirizzo giurisprudenziale richiamato nella sentenza impugnata, secondo il quale, in presenza di una fattispecie contrattuale che, come nell'ipotesi del contratto di lavoro, obblighi uno dei contraenti (il datore di lavoro) a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità fisica e psichica dell'altro (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale. E ciò in quanto la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 cod. civ. ( cfr. Cassazione civile lavoro 24.02.2006 n. 4184).
Né argomenti in senso contrario possono sostenersi in base alle sentenze gemelle delle Sezioni Unite del novembre 2008, considerato che resta in ogni caso consentita, ed anzi doverosa la personalizzazione del danno biologico in relazione a circostanze peculiari del caso concreto per l'integrale ristoro del danno non patrimoniale (cfr. Cass. nn. 12318/2010 e 4023/2010), nella specie allegate e, si ripete, dimostrate in via presuntiva.
Il nono ed ultimo motivo di appello concerne il riconoscimento degli interessi legali dalla data dell'esperimento del tentativo di conciliazione all'effettivo saldo. Deduce l'appellante che la richiesta di tentativo di conciliazione non equivale a messa in mora.
Anche detta doglianza è infondata.
È sufficiente al riguarda richiamare la recente sentenza della Cassazione n.6336/2009, con la quale si afferma che l'espletamento del tentativo di conciliazione equivale a costituzione in mora. Inoltre la richiesta di convocazione conteneva gli elementi sufficienti ad integrare espressione inequivocabile di volontà di azionare il credito risarcitorio per cui è causa.
L'appello deve essere pertanto integralmente respinto e la sentenza impugnata può essere confermata.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede:
Respinge l'appello e per l'effetto conferma la sentenza impugnata;
Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del grado, liquidate in euro3.220, di cui euro2.200 per onorari, euro1.000 per diritti ed euro20 per spese, oltre IVA, CPA e rimborso spese generali come per legge.
Venezia, 22.3.2011