Categoria: Cassazione penale
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Responsabilità di un Sindaco per aver abusato della sua qualifica e del suo ufficio mettendo in atto un demansionamento di una dipendente comunale da economo e ragioniere a mansioni di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di sosta - Sussiste.

La Corte afferma che tale demansionamento venne adottato dal sindaco in evidente violazione dell'art. 56 del D.lgs. n. 29/93.
Quanto all'elemento soggettivo del reato i giudici del merito hanno ritenuto indubbia la ricorrenza dell'intenzionalità dell'abuso in danno, "perchè la reiterata condotta del Sindaco C. a destinare persistentemente la CO., piuttosto che altri dipendenti comunali, a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico, appaiono costituire il suggello di tutta una serie di elementi caratterizzanti quel fenomeno sociale noto come mobbing, consistente in atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico che mira a danneggiare il dipendente, così da coartarne o da piegarne la volontà: comportamenti tesi, nella fattispecie, a dequalificare professionalmente la parte lesa, tali da concretare oltre che il reato di abuso d'ufficio in danno di costei, da integrare, altresì, l'illecito di cui all'art. 2043 c.c., essendo derivata, quale ulteriore conseguenza di detti comportamenti "mobbizzanti" del C., una seria patologia neuro-psichiatrica a carico della CO.: attività amministrativa illegittima, dunque, da cui è derivata, in una con la lesione dell'interesse legittimo in sè considerato, quella dell'interesse al bene della vita, che risulta meritevole di protezione, con conseguente risarcibilità del danno causato".

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio Felice - Presidente -
Dott. MARTELLA Ilario Salvato - Consigliere -
Dott. SERPICO Francesco - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) C.W., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 23/09/2005 CORTE APPELLO di LECCE;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. MARTELLA ILARIO SALVATORE;
udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Galati Giovanni, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio, per intervenuta prescrizione del reato;
udito il difensore della p.c. avv. Sansonetti MArio;
udito il difensore avv. Corvaglia Luigi.


FattoDiritto
1. Con sentenza in data 30.10.2003, il Tribunale di Lecce dichiarava C.W. colpevole del reato di cui all'art. 81 cpv. c.p. e art. 323 c.p. (commesso in (OMISSIS)) e, in concorso con le riconosciute attenuanti generiche, lo condannava alla pena - sospesa - di un anno di reclusione.
All'affermazione di responsabilità seguiva la condanna al risarcimento del danno - da liquidarsi in separata giudizio - e alla rifusione delle spese processuali in favore di CO.Ma.R., costituitasi parte civile.
Al C. veniva addebitato di avere, quale Sindaco del Comune di Scorrano, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusato della sua qualifica e del suo ufficio, adottando tre provvedimenti con cui si disponeva che la sig.ra CO.Ma.R., dipendente del Comune di Scorrano con la 6^ qualifica funzionale e le mansioni di coordinatrice economa dell'asilo nido comunale, fosse destinata a svolgere le mansioni di "prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta", in violazione della L. n. 127 del 1997, art. 17, commi 132 e 133, della Circolare ministeriale n. (OMISSIS) del 25.9.97, esplicativa del citato D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 17, commi 132 e 133 e art. 56 (oltre che dell'art. 7 C.C.N.L. approvato con D.P.R. n. 593 del 1993) per avere egli, prima di pervenire all'individuazione della CO. quale destinataria dei citati provvedimenti, omesso di procedere ad una comparazione fra il personale dipendente di pari qualifica, nonchè di valutarne preventivamente l'idoneità e l'indispensabile qualificazione professionale, così recando un ingiusto danno alla nominata CO., destinata allo svolgimento di mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali era stata assunta e "costretta ad esercitare un lavoro all'aperto più gravoso rispetto a quello esercitato in precedenza".

2. Su gravame dell'imputato, la Corte di Appello di Lecce, con sentenza in data 23.9.2005, depositata il 12 gennaio 2007, confermava l'impugnata decisione.
Ritenevano i giudici del merito la ricorrenza del reato contestato, sulla base del comportamento vessatorio e persecutorio - ritenuto ampiamente provato - posto in essere dal C. nei confronti della CO., all'uopo osservando:
la CO., dipendente di 6^ livello con funzioni di coordinatrice economa dell'asilo nido comunale, venne, di punto in bianco, senza alcun provvedimento formale, spostata di sede e gradatamente esautorata delle sue funzioni e costretta a svolgere mansioni appartenenti a qualifiche inferiori: tale comportamento si riteneva di per sè bastevole ad evidenziare l'atteggiamento tenuto nei confronti della CO. dal C., fin dagli inizi della sua esperienza sindacale (l'imputato era stato eletto sindaco nel novembre 1993 e il provvedimento nei confronti della CO. risaliva al 2 febbraio 1994) culminato, poi, nei tre provvedimenti oggetto del processo;
la CO. fu destinataria dei provvedimenti adottati dal C. ai sensi della L. n. 127 del 1997, art. 17, ma nessuno dei testi escussi (meno che mai i segretari comunali succedutisi presso il Comune di Scorrano), avevano saputo riferire come mai si fosse giunti ad individuare nella "direttrice dell'asilo nido", dipendente di 6^ livello, la persona più adatta a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico (senza alcuna preventiva visita medica e senza alcuna preventiva riqualificazione professionale, in spregio alla circolare ministeriale 25.9.1997); ulteriore manifestazione di umiliazione e dequalificazione professionale della CO., era dato constatare dalla circostanza che dopo l'ennesima visita collegiale che aveva certificato l'idoneità della predetta alle mansioni per cui era stata assunta, la medesima venne restituita all'asilo nido senza che, tuttavia, ne venissero precisate le mansioni da svolgere e che non furono, di certo, quelle per cui era stata assunta.
Tali emergenze fattuali inducevano i giudici del merito a ravvisare nella condotta del C., gli estremi del mobbing, rilevabili in quei comportamenti con cui il datore di lavoro o il superiore gerarchico esercita una sorta di terrorismo psicologico (fatto di vessazioni, umiliazioni, dequalificazioni professionali, eccessivo ricorso alle visite mediche di controllo anche a fronte di referti confermativi della patologia denunciata dal lavoratore, ecc.), nei confronti di uno o più dipendenti, così da coartarne o piegarne la volontà e che sovente è causa di gravi patologie interessanti la sfera neuropsichica del soggetto esposto.
Tale conclusione - oltre che utile a lumeggiare la personalità dell'imputato posta in stretta connessione con i tre provvedimenti adottati dal C. fra il 15.9.97 ed il 31.1.98 e indicati nel capo di imputazione - valeva ad integrare, alla stregua della valutazione espressa in sede di merito, il contestato reato di abuso d'ufficio.
Ritenuta la fondatezza delle doglianze della CO. e la non legittimità dei provvedimenti adottati dal C. nei confronti della predetta (sia perchè non rispettosi del disposto di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 - cui la L. n. 127 del 1997, art. 17, va necessariamente raccordato - non risultando evidenziate le ragioni sulla base delle quali fu individuata proprio la CO., piuttosto che altri dipendenti comunali, a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico, sia perchè, come detto, questi costituirono il suggello di tutta una serie di condotte "mobbizzanti", tese a dequalificare professionalmente la parte lesa), veniva ravvisato un comportamento da parte del C. idoneo ad integrare altresì l'illecito di cui all'art. 2043 c.c., non potendosi dubitare che la descritta condotta del pubblico ufficiale avesse prodotto un evidente danno alla parte lesa, costituito dalla dequalificazione professionale conseguente all'esercizio di mansioni inferiori rispetto a quelle di appartenenza, da cui è derivata una serie patologia neuro-psichiatrica, analiticamente descritta dal dott. T., consulente della parte civile (in cui si evidenzia come la sintomatologia lamentata dalla CO. - puntate ipertensive, tachicardia, stato d'ansia, agitazione e tensione emotiva - fosse dovuta allo stato di stress derivatole dai fatti oggetto di giudizio).
Da tali emergenze fattuali si è, quindi, dedotto il convincimento che il C. intese recare intenzionalmente pregiudizio alla parte lesa, "coprendo" tale condotta sotto supposte (ma non provate) ragioni di interesse pubblico. Di qui la sussistenza del dolo, nei termini di cui all'art. 323 c.p..

3. Con il proposto ricorso per Cassazione, l'imputato, a mezzo dei difensori avv.ti P.Q. e L.C., denuncia:
violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all'art. 323 c.p. Si eccepisce che, in applicazione della normativa vigente, il provvedimento sindacale n. 12082 del 15.9.97 che, con adeguata motivazione, disponeva che la sig.ra CO.Ma.R. fosse destinata dal 16.9.97 al 29.9.97 a svolgere mansioni di "prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta" è un atto amministrativo legittimo e conforme alla legge, in quanto detta normativa consentiva di adibire il dipendente a svolgere occasionalmente e ove possibile con criteri di rotazione, compiti o mansioni immediatamente inferiori..., senza che ciò comportasse alcuna variazione del trattamento economico.
Si richiama che, a seguito dell'indagine integrativa disposta dal G.U.P., ai sensi dell'art. 421 c.p.p., veniva acquisita una nota redatta dalla segreteria comunale di Scorrano, dalla quale si evince che, tra i dipendenti con la 6^ qualifica funzionale, l'unica che potesse essere destinata a svolgere le funzioni di ausiliaria del traffico era la sig.ra CO.Ma.Ro., talchè non poteva essere adottato il criterio della rotazione essendosi la stessa CO. sottratta all'espletamento del servizio.
Comunque, non è da ritenersi configurabile, il delitto di cui all'art. 323 c.p. allorchè sussista la violazione di un contratto collettivo applicabile ai rapporti di pubblico impiego (Cass., Sez. 6, 3.11.2005, n. 13511), per mancanza del presupposto necessario della "violazione di legge o di regolamento".
Peraltro, tutti i provvedimenti che hanno interessato la sig.ra CO. e che sono stati oggetto di imputazione, sono stati adottati in forma scritta e puntualmente motivati, mentre non può ritenersi integrata la violazione dell'obbligo di motivazione, entrando nel merito della stessa al fine di condividerla o meno, poichè in tal modo si travalica il compito consentito al giudice penale, al quale compete solo l'accertamento dell'esistenza della motivazione e non la "qualità della stessa".
In conclusione, la condotta del ricorrente, nell'adozione degli atti amministrativi indicati nel capo d'imputazione, è da ritenersi legittima e conforme alle norme di legge regolanti la materia, talchè nella fattispecie non può ravvisarsi il dolo come richiesto dall'art. 323 c.p..

4. Il reato ascritto all'imputato - abuso d'ufficio continuato - va dichiarato estinto per prescrizione, per essere decorso dal tempus commissi delicti (15.9.1997) il termine previsto dalla legge, non sussistendo i presupposti per il proscioglimento nel merito, ex art. 129 c.p.p., comma 2 - come difensivamente richiesto - poichè dagli atti non risulta "evidente" che il fatto non sussiste o non costituisce reato.
Osserva il Collegio: la censura mossa dal ricorrente alla sentenza impugnata è che la condotta posta in essere dall'imputato, nella sua veste di pubblico ufficiale (quale Sindaco del Comune di Scorrano), nei confronti della dipendente comunale CO.Ma.Ro., non possa sussumersi nella fattispecie delittuosa, ex art. 323 c.p., non avendo in alcun modo inciso sul buon funzionamento e imparzialità dell'azione amministrativa, in quanto non in contrasto con norme "specificamente mirate ad inibire o prescrivere la condotta stessa", norme che, comunque, non presenterebbero i caratteri formali e il regime giuridico della legge o dei regolamenti.
Tale assunto non può ritenersi fondato, in quanto le risultanze processuali evidenziate nelle decisioni di merito, attestano inequivocamente la ricorrenza degli elementi costitutivi del contestato reato di abuso d'ufficio.
Quanto alla violazione delle norme di legge, il demansionamento della dipendente comunale CO.Ma.Ro. da economo e ragioniere presso l'asilo nido di Scorrano, a mansioni di "prevenzione e di accertamento delle violazioni in materia di sosta", appare essere stato adottato dal Sindaco C. in evidente violazione del disposto del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 sui dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e dell'art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel D.P.R. n. 593 del 1993.
Pur consentendo tali norme che un dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di qualifica immediatamente inferiore, ne evidenziano, tuttavia, l'occasionalità di tale destinazione e la possibilità che ciò avvenga con criteri di rotazione.
Tale ratio legis risulta inosservata dal Sindaco C.:
per non avere dato conto con adeguata motivazione dei criteri d'individuazione del dipendente da demansionare, sia pure occasionalmente; - per aver omesso di prevedere una rotazione per tutti i dipendenti astrattamente idonei ad essere nominati;
per aver omesso di motivare sulle cause che hanno reso impossibile il ricorso a tali canoni di comportamento espressamente richiamati dalla legge.
Quanto all'elemento soggettivo del reato, l'avverbio intenzionalmente, che figura nel testo della norma incriminatrice, esclude la configurabilità del dolo sotto il profilo indiretto od eventuale; e richiede che l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non già semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, in ipotesi diretta ad un fine pubblico, sia pure perseguito con una condotta illegittima.
Ciò, beninteso, a patto che il perseguimento di tale fine non rappresenti un mero pretesto, col quale venga mascherato l'obiettivo reale della condotta.
Ne deriva che, per escludere il dolo sotto il profilo dell'intenzionalità, occorre ritenere, con ragionevole certezza, che l'agente si proponga il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio.
Un'ipotesi del genere, in subiecta materia, è stata motivatamente esclusa dai giudici del merito, che hanno ritenuto indubbia la ricorrenza dell'intenzionalità dell'abuso in danno, sia per quanto dianzi rilevato, sia perchè la reiterata condotta del Sindaco C. a destinare persistentemente la CO., piuttosto che altri dipendenti comunali, a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico, appaiono costituire il suggello di tutta una serie di elementi caratterizzanti quel fenomeno sociale noto come mobbing, consistente in atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico che mira a danneggiare il dipendente, così da coartarne o da piegarne la volontà:
comportamenti tesi, nella fattispecie, a dequalificare professionalmente la parte lesa, tali da concretare oltre che il reato di abuso d'ufficio in danno di costei, da integrare, altresì, l'illecito di cui all'art. 2043 c.c., essendo derivata, quale ulteriore conseguenza di detti comportamenti "mobbizzanti" del C., una seria patologia neuro-psichiatrica a carico della CO.: attività amministrativa illegittima, dunque, da cui è derivata, in una con la lesione dell'interesse legittimo in sè considerato, quella dell'interesse al bene della vita, che risulta meritevole di protezione, con conseguente risarcibilità del danno causato (cfr.: Cass., Sez. 6, 24 febbraio 2000, Genazzani).
Per quanto sopra va disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.
Il ricorrente va, altresì, condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, spese che vengono liquidate in complessivi Euro 2.168,44, oltre I.V.A. e C.P.A..

P.Q.M.
LA CORTE Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.168,44, oltre I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2007