Cassazione Civile, Sez. Lav., 24 novembre 2016, n. 24029 - Riorganizzazione aziendale e ricollocazione del lavoratore: non sussiste mobbing


 

 

 

Presidente Macioce – Relatore Di Paolantonio

 

 

Fatto

 



1 - La Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale di Biella che aveva parzialmente accolto il ricorso, ha respinto le domande proposte nei confronti della Commerciale Brendolan s.r.l, poi incorporata dalla Maxi Di s.r.l., da P.D. , il quale aveva convenuto in giudizio la società allegando il carattere vessatorio della condotta tenuta nei suoi confronti dai vertici aziendali, che lo avevano ingiustamente privato di ogni mansione, costringendolo ad una forzosa inattività ed inducendolo a dimettersi. Aveva, quindi, domandato, "previa occorrendo dichiarazione di nullità delle dimissioni rassegnate per vizio del consenso", la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, quantificati in complessivi Euro 543.022,87.
2 - La Corte territoriale ha ritenuto fondato l’appello principale (e conseguentemente assorbito l’incidentale relativo alla quantificazione del risarcimento), escludendo qualsiasi profilo di illegittimità della condotta tenuta dal datore di lavoro. Ha osservato, in sintesi, il giudice di appello che:
a) l’antefatto della vicenda era rappresentato dalla acquisizione da parte della Commerciale Brendolan s.r.l. del Gruppo T., alle dipendenze del quale il P. aveva in precedenza prestato attività lavorativa;
b) a seguito di detta acquisizione la società aveva dovuto attuare una complessa riorganizzazione ed aveva deciso di accentrare tutte le funzioni presso la sede di (omissis) e di avviare contestualmente una procedura di mobilità del personale in eccedenza assegnato all’unità di (omissis) , che si era conclusa con la collocazione in mobilità dei soli dipendenti che avevano aderito volontariamente;
c) le funzioni di responsabile degli acquisti dei prodotti ortofrutticoli, in precedenza svolte dal P. , erano state accentrate e ciò aveva fatto venir meno anche l’incarico ispettivo accessorio, limitato dal punto di vista qualitativo e quantitativo, che era stato assegnato, in aggiunta ai compiti in precedenza espletati, ad altro dipendente, il quale rivestiva una posizione sovraordinata rispetto a quella dell’appellante e svolgeva una generale attività di controllo e di supervisione dei punti vendita, non limitata al solo settore ortofrutticolo;
d) la missiva del 4.11.2005, con la quale la società aveva invitato il P. ad "aderire alla richiesta di godere temporaneamente.... di un periodo di ferie", era giustificata dalla necessità di individuare, all’esito della riorganizzazione aziendale, una diversa posizione lavorativa alla quale assegnare il ricorrente;
e) doveva, pertanto, essere escluso qualsivoglia intento persecutorio, giacché le scelte aziendali erano correlate alla operazione di acquisizione commerciale ed avevano riguardato tutto il personale assegnato alla sede di (omissis);
f) in ogni caso nel periodo compreso fra la lettera del 4 novembre 2005 e la instaurazione del procedimento cautelare l’appellante aveva prestato servizio per soli 24 giorni, sicché doveva escludersi qualsiasi pregiudizio alla professionalità del lavoratore;
g) il Tribunale aveva anche errato nel fare proprie le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio quanto alla ritenuta sussistenza del nesso causale fra la condotta aziendale e l’insorgenza della patologia psichica, poiché i primi sintomi si erano manifestati nel giugno 2005, quando non era ancora stato compiuto il primo atto ritenuto ostile dal ricorrente, che lo aveva individuato nella lettera del 4.11.2005.
3 - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.D. sulla base di sei motivi. La MAXI DI s.r.l. ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

 

 

Diritto

 



1.1 - Con il primo motivo di ricorso P.D. , denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. nonché "omesso esame circa fatti decisivi della causa relativamente al demansionamento", censura la sentenza impugnata per avere omesso "di valutare compiutamente le risultanze documentali e istruttorie emerse nel corso del giudizio di primo grado". Contrappone alla motivazione della Corte territoriale quella della sentenza di primo grado, integralmente trascritta nel motivo, e sostiene che il giudice di appello avrebbe erroneamente minimizzato la funzione ispettiva in precedenza da lui svolta, senza considerare quanto riferito dai testi in merito ai compiti propri dell’ispettore e senza esaminare la produzione documentale. Aggiunge che la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore nell’affermare che il Derivi rivestiva una posizione gerarchicamente sovraordinata ed avrebbe trascurato la documentazione fotografica, dalla quale emergeva che egli era stato lasciato del tutto inattivo ed era stato privato anche degli strumenti di lavoro.
1.2 - Il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c.. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe violato la regola di riparto dell’onere probatorio secondo la quale, una volta che il lavoratore abbia dimostrato di essere stato lasciato inattivo, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per ricollocare il dipendente nell’ambito produttivo. Detta prova non sarebbe stata offerta nella fattispecie per le ragioni indicate dal giudice di primo grado ed in particolare perché, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, non rispondeva al vero che il P. avesse rifiutato le proposte avanzate dalla società.
1.3 - Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. nonché "l’omesso esame di fatti decisivi di causa", sostiene che erroneamente il giudice di appello aveva escluso che la condotta tenuta dalla società potesse essere definita vessatoria. Richiama la giurisprudenza di questa Corte sulla nozione di mobbing e rileva che la sentenza impugnata, oltre ad escludere senza ragione il demansionamento, avrebbe omesso di valutare l’episodio verificatosi il 24.3.2006 (in occasione del quale era stato intimato al P. , che aveva cercato la compagnia di una collega, di tornare al proprio posto di lavoro) nonché l’avvio del procedimento disciplinare per assenza ingiustificata dal lavoro.
1.4 - Il quarto motivo denuncia "violazione e falsa applicazione del CCNL settore terziario 2.7.2004" che limita al solo periodo compreso fra i mesi di maggio e di ottobre la facoltà concessa al datore di lavoro di stabilire le modalità di fruizione delle ferie. Non poteva, pertanto, la società imporre al P. di godere delle ferie dal 1 al 14 febbraio e dal 28 febbraio al 3 marzo 2006, sicché erroneamente la Corte territoriale aveva escluso il carattere vessatorio della imposizione.
1.5 - La quinta censura denuncia, sotto altro profilo, la violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. che il giudice di appello avrebbe commesso nell’attribuire rilievo alle assenze verificatesi nel periodo del demansionamento e, quindi, nell’escludere che quest’ultimo potesse avere pregiudicato la professionalità del lavoratore. Sostiene il ricorrente che l’inadempimento del datore di lavoro che abbia lasciato inattivo il dipendente ha natura di illecito permanente, che cessa solo nel momento in cui viene consentita l’esatta esecuzione della prestazione. Rilevano, pertanto, anche i periodi di sospensione del rapporto.
1.6 - Infine con il sesto motivo il P. , denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c. e 115 c.p.c. nonché omesso esame su fatti decisivi, censura il capo della sentenza che ha escluso il necessario nesso causale fra l’illecita condotta aziendale e la patologia psichica. Nel giungere a dette conclusioni, ritenute erronee, la Corte territoriale, oltre a disattendere immotivatamente la consulenza tecnica d’ufficio, avrebbe anche omesso di considerare il contenuto delle certificazioni in atti, univoche nel ravvisare il nesso eziologico fra le avverse condizioni lavorative e la malattia.
2 - Il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni.
Osserva innanzitutto il Collegio che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).
Occorre altresì premettere all’esame delle singole censure che per le sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. è limitato alla sola ipotesi di "omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti".
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, "in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione".
Di conseguenza il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
2.1 - La applicazione alla fattispecie dei principi di diritto sopra richiamati porta a ritenere la inammissibilità del primo motivo, con il quale il ricorrente, pur denunciando formalmente violazione di norme di legge (art. 2103 c.c.) ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, censura la valutazione delle risultanze probatorie effettuata dalla Corte territoriale, alla quale contrappone i diversi argomenti in fatto che avevano indotto il Tribunale ad accogliere, sia pure parzialmente, la domanda, argomenti che il giudice di appello ha esaminato, con approfondita ed articolata motivazione, ritenendoli non condivisibili.
Il motivo, quindi, sollecita una inammissibile revisione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito e non consentito alla Corte di legittimità.
2.2 - Ad analoghe conclusioni si giunge quanto alla seconda censura, perché il ricorrente, pur denunciando nella rubrica la violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., in realtà torna a contestare la valutazione del materiale probatorio, dal quale, a suo dire, non sarebbe emerso quanto sostenuto dalla Corte territoriale in merito alle iniziative assunte dalla società per ricollocare il dipendente in una funzione adeguata alla qualifica rivestita ed alle mansioni in precedenza espletate.
È opportuno precisare al riguardo che la violazione di legge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 360 1 comma, n. 3 c.p.c. e 2697 c.c., può essere utilmente denunciata nei casi in cui il giudice di merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo. Solo in tal caso l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli della incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto.
Detta evenienza non si verifica allorquando il giudice, all’esito della valutazione delle prove assunte ed a prescindere dalla individuazione della parte tenuta a provare i fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, pervenga al convincimento che i fatti allegati dall’attore non siano provati, mentre lo siano quelli sui quali il convenuto ha fondato le proprie difese. In tal caso, infatti, il rigetto della domanda non discende dalla errata applicazione del principio dell’onere della prova, giacché, una volta affermato con certezza che il fatto allegato dall’attore non si è verificato mentre si è realizzato quello dedotto dal convenuto, diviene irrilevante stabilire se le circostanze da quest’ultimo allegate costituissero il fondamento di una mera difesa o di un’eccezione.
Nel caso di specie la Corte territoriale, con motivazione articolata, logica e coerente, ha escluso l’asserito inadempimento colpevole della società evidenziando che: il processo di riorganizzazione aveva riguardato non la sola posizione lavorativa del ricorrente bensì l’intera unità produttiva di (OMISSIS) ; la riduzione del personale era stata attuata collocando in mobilità tutti i dipendenti che a ciò avevano prestato adesione; la società aveva prospettato al P. due proposte lavorative alternative, entrambe rifiutate; l’invito a fruire delle ferie non manifestava alcun intento persecutorio ma trovava giustificazione nella necessità di ricercare nel frattempo le anzidette soluzioni.
La sentenza impugnata, quindi, non è fondata sulla applicazione della regola residuale imposta dall’art. 2697 c.c., poiché, al contrario, il giudice del merito ha ricostruito i fatti di causa ed ha escluso che la condotta della società integrasse violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c..
2.3 - Quanto al terzo motivo osserva il Collegio che lo stesso ricorrente richiama l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui "ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi" (Cass. 6.8.2014 n. 17698).
La Corte territoriale ha ritenuto non sussistenti nella fattispecie gli elementi costitutivi sopra indicati, escludendo il preteso demansionamento ed il carattere vessatorio della missiva del 4.11.2005, con la quale il P. era stato invitato a fruire delle ferie, ed evidenziando che i comportamenti tenuti risultavano tutti giustificati dal processo di riorganizzazione, effettivamente attuato.
È evidente che rispetto a detta motivazione l’omesso esame dei due episodi indicati a pag. 28 del ricorso (l’avvio di un procedimento disciplinare per assenza ingiustificata dal servizio e l’invito a tornare al suo posto rivolto al P. che "aveva cercato la compagnia di una collega") non può integrare il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., poichè gli stessi ai fini della configurabilità del mobbing sono privi della decisività richiesta dalla norma richiamata.
2.4 - Il quarto motivo, con il quale si prospetta la violazione del CCNL 2.7.2004 in relazione alle modalità di fruizione delle ferie, è inammissibile perché la sentenza impugnata non esamina la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, sicché il ricorrente aveva l’onere di precisare in che termini la questione era stata posta nel giudizio di merito.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, consolidata nell’affermare che "qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa".
2.5 - Una volta esclusa la ammissibilità delle censure mosse ai capi della sentenza che hanno escluso sia la condotta vessatoria della società, sia l’inadempimento colpevole della obbligazione posta a carico del datore di lavoro dall’art. 2103 c.c., divengono inammissibili per difetto di interesse anche il quinto ed il sesto motivo, con i quali il ricorrente ha lamentato la erroneità delle statuizioni relative alla assenza del nesso causale ed alla mancanza di prova del danno alla professionalità che, secondo la Corte territoriale, non poteva in nessun caso essere ravvisato, poiché la dequalificazione deve essere riferita alle giornate ed ai periodi in cui il lavoratore è disponibile a rendere la prestazione lavorativa, nella specie quantificati in soli 24 giorni.
Il giudice d’appello ha esaminato dette questioni "per tuziorismo", essendo già sufficienti a sorreggere il rigetto della domanda le considerazioni espresse in merito alla insussistenza della violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c..
Opera, quindi, il principio secondo cui "qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa". (Cass. 14.2.2012 n. 2108).
3 - Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

 

 

P.Q.M.

 



La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.