Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 gennaio 2017, n. 291 - Allestimento di impianti elettrici navali ed esposizione a polveri di amianto. Morte per mesotelioma pleurico


 

 

Presidente: DI CERBO VINCENZO Relatore: BRONZINI GIUSEPPE Data pubblicazione: 10/01/2017

 

 

 

Fatto

 


P.M.T., R.B. e R.S. appellavano la sentenza del Tribunale di Ancona che aveva rigettato la domanda da loro proposta come eredi e congiunti di R.A. per il decesso di quest'ultimo il 27.9.2002 conseguente a mesotelioma pleurico contratto per esposizione a polveri di amianto nell'espletamento delle mansioni di allestimento degli impianti elettrici navali svolte alle dipendenze di Fincantieri navali italiani spa. La Corte di appello, in riforma della sentenza impugnata, condannava la società appellata al pagamento in favore di P.M.T. della somma di euro 168.302,000, in favore di R.B. della somma di euro 93,302,00 e di analoga somma in favore di R.S., oltre rivalutazione. La Corte territoriale osservava che non era in discussione la sussistenza del nesso causale tra la morte di R.A. e la pregressa esposizione alle polveri come emergeva dal riconoscimento dell'Inail, dagli atti del procedimento penale, dalla documentazione medica, dai materiali impiegati e dagli ambienti ove le lavorazioni si erano svolte, nonché dall'istruttoria svolta in primo grado. La società datrice di lavoro non aveva offerto la prova di aver adottato ex art. 2087 c.c. tutte le cautele necessarie ad evitare l'evento; gli aspiratori messi a disposizione dei lavoratori ex art. 21 D.P.R. n. 303/1956 erano inidonei vista la loro scarsa potenza ed efficienza anche in relazione al basso voltaggio ed alla limitata areazione degli ambienti all'interno della navi in costruzione (sul punto le dichiarazioni dei testi in ordine alle misure cautelative adottate erano del tutto generiche). Non era stata peraltro neppure dimostrata un'effettiva vigilanza da parte del datore di lavoro in ordine all'adozione delle maschere come dichiarato dai testi. Non si poneva affatto, nel caso in esame, la questione della conoscibilità della pericolosità delle polveri di amianto in quanto la norma prescrittiva dell'adozione della maschere di protezione era certamente in vigore. Circa il petitum, tenuto conto che la percentuale del danno biologico era pari al 60% in relazione alla malattia che aveva portato al decesso, del "periodo di i.t.p." indotto dai successivi ricoveri, in applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano, il danno veniva determinato in euro 260.000,00 quale danno conseguente ai postumi stabilizzati e in euro 8.000,00 per il periodo di inabilità. Doveva altresì essere considerata la condotta datoriale e la consapevolezza per un periodo di tempo non trascurabile della causa della malattia e del suo inevitabile decorso, eventi idonei ad incidere nella sfera personale con liquidazione equitativa del danno in euro 32.000,00; dalle somme predette andava sottratto quanto già corrisposto dall'INAIL. Inoltre andava liquidato il danno per perdita del congiunto che andava liquidato equitativamente, tenuto conto delle circostanze del caso (età adulta dei figli e piuttosto avanzata del coniuge con convivenza solo del coniuge al momento del decesso) in euro 110.000,00 per il coniuge e in euro 35.000,00 per ciascuno degli eredi. Pertanto la società appellata veniva condannata alle somme complessive a titolo di risarcimento prima ricordate.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Fincantieri con 4 motivi illustrati da memoria; resistono gli appellati con controricorso.
 

 

Diritto

 


Con il primo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 13 d. Lgs. n. 38/2000 e dell'art. 10, comma 1 e 2, del D.P.R. n. 1124/1965. Parte ricorrente in primo grado avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza di un danno differenziale vista la copertura INAIL per l'evento di cui è processo e spiegare le ragioni della eventuale insufficienza della liquidazione INAIL.
Il motivo appare infondato alla luce dell'orientamento di questa Corte, che si condivide e cui si intende dare continuità, secondo il quale "In tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato, e la limitazione dell'azione risarcitoria di questi al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale a norma dell'art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, riguarda, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, soltanto l'ambito della copertura assicurativa, ossia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica e non anche il danno alla salute, o biologico, e il danno morale di cui all'art. 2059 cod. civ., entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della responsabilità del datore di lavoro" (Cass. n. 777/2015): parte ricorrente non allega neppure peraltro che la questione sia stata riproposta in appello. In ogni caso l'esistenza di un danno ulteriore rispettato a quello risarcito dall'INAIL è stato ampiamente dimostrato e quanto già corrisposto dall'INAIL è stata puntualmente sottratto dal dovuto.
Con il secondo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087, 1218 e 2697 c.c., e dell'art. 21 D.P.R. n. 303/1956 e dell' 115 c.p.c. All'epoca dei fatti non sussisteva un divieto di utilizzo dell'amianto che è stato introdotto molto dopo sotto la spinta di direttive Cee. Diversamente opinando si rientrerebbe in un caso di responsabilità oggettiva e non per colpa non prevista dal nostro sistema. Era stata dimostrata l'adozione della misure all'epoca previste dall'art. 21 D.P.R. n. 303/1956 ( mascherine).
Il motivo appare infondato. Non appare necessario entrare in merito alla circostanza dedotta nel motivo per cui all'epoca dei fatti non vi era una proibizione assoluto di utilizzazione dell'amianto negli ambienti di lavoro (anche se corre l'obbligo ricordare che la più recente giurisprudenza di questa Corte ha fatto retroagire di molto l'epoca in cui deve ritenersi nota la particolare pericolosità dell'amianto con conseguente adozione di misure rafforzate per prevenire il rischio; cfr. Cass. n. 10425/2014; Cass. n. 18503/2016) posto che la sentenza impugnata ha accertato che la società non aveva rispettato quanto previsto addirittura dal D.P.R. del 1955 in ordine all'adozione di mascherine protettive, sia per l'inidoneità delle stesse sia perché non era stata verificata attraverso una doverosa vigilanza l'effettiva utilizzazione di queste come era emerso dalla prova per testi, sicché la doglianza sviluppata come censura di diritto in realtà appare una censura di merito diretta ad una rivalutazione del " fatto" come tale inammissibile in questa sede.
Con il terzo motivo si allega l'insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. La Corte di appello non aveva accertato che l'adozione degli accorgimenti di cui all'art. 21 D.P.R. n. 303/1956 avrebbe evitato l'evento.
Il motivo è infondato posto l'adozione di mascherine protettive costituiva all'epoca la specifica misura da adottare nel caso di lavorazioni che comportassero rischi di inalazione di polveri; nel caso in esame è emerso che i lavoratori operavano con mascherine inidonee e talvolta addirittura senza mascherine visto che la società aveva omesso le verifiche necessarie; pertanto emerge ex actis che il datore di lavoro non ha adottato neppure quelle misure minime previste all'epoca per contrastare l'inalazione di polveri di amianto e quindi non ha rispettato l'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. assumendosi i rischi di eventuali tecnopatie: come affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 10425/2014: "in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie)".
Con l'ultimo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c. : il danno non patrimoniale andava rigorosamente dimostrato.
Il motivo è inammissibile in quanto si sostanzia in critiche generiche ed avulse dal contenuto motivazionale della sentenza che ha indicato l'entità del danno, liquidato in via equitativa, indicandone specificamente i parametri che non vengono neppure richiamati e tantomeno discussi nel motivo.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite- liquidate come al dispositivo- seguono la soccombenza.
 

 

P.Q.M.

 

La Corte:
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 8.500,00 oltre spese generali al 15% ed interessi come per legge.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 19.10.2016