Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 aprile 2017, n. 10145 - Lavoratore scivola dalla scala. Risarcimento del danno e onere della prova. Attività produttiva subordinata ai valori di sicurezza, di libertà e dignità del lavoratore


 

La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Per la qual cosa, in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nella fattispecie, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva e tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (cfr. Cass. n. 15156/11).
Al riguardo, è altresì da sottolineare che la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente “ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato’’, in considerazione del fatto che l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma. Cost.) - è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue che la concezione "patrimonialistica" dell'individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute - anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa momenti tutti che "costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento, anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi di sicurezza al fine di tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo, nonché le diposizioni antinfortunistiche, fra le quali quelle contenute del D.Lg.vo n. 626/94 - attuativo, come è noto, di direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa - ed altresì dell’art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela del'integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce “nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche - e soprattutto - alla predisposizione "di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio’’. ...

Fatte tali premesse, deve osservarsi che, nel caso di specie, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui il ricorrente rettamente deduce la violazione sub 5, dovendosi ritenere la sussistenza del nesso causale tra l'infortunio occorso al M.C. e l’attività svolta dallo stesso in un ambiente in cui per la scivolosità del pavimento e degli strumenti connessi all’attività lavorativa, causata dal particolare tipo di lavorazione, era altamente probabile che, non adottando ogni cautela prescritta si verificassero eventi dannosi per il personale.


 

 

Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: LEO GIUSEPPINA Data pubblicazione: 21/04/2017

 

 

 

Fatto

 


La Corte territoriale di Bologna, con sentenza depositata il 7/5/2013, rigettava l’appello principale proposto da M.C. avverso la sentenza del Tribunale di Modena con la quale era stata respinta la domanda proposta dal M.C. volta ad ottenere la condanna della Ma. Group S.r.l. al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale per il complessivo importo di Euro 250.000,00 ed al rimborso delle spese mediche sostenute in conseguenza dell’infortunio sul lavoro avvenuto presso lo stabilimento di Fiorano Modenese il 12/4/1999.
Per la cassazione della sentenza ricorre il M.C. affidandosi ad otto motivi, ulteriormente illustrati con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 del codice di rito.
La Ma. e la Cattolica Assicurazioni resistono con controricorso.
 

 

Diritto

 


1. Con il primo motivo il M.C. denuncia, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1218 e 2697 c.c.. lamentando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato i predetti articoli del codice civile, in quanto avrebbe sostanzialmente ritenuto che spettasse al M.C. di dimostrare la causa specifica dello scivolamento e, quindi, la colpa del datore di lavoro, asserendo che la circostanza che sia rimasta indimostrata ed ignota la causa per cui il lavoratore è scivolato dalla scala escluderebbe la responsabilità del datore di lavoro.
2. Con il secondo motivo, formulato sempre in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 c.c., poiché la Corte territoriale non avrebbe tenuto nella debita considerazione la pacifica giurisprudenza di legittimità, alla stregua della quale il datore di lavoro deve dimostrare di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, per evitare il danno, in relazione alla specificità del caso, ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge. Con tale mezzo di impugnazione si lamenta altresì che la sentenza oggetto del giudizio di legittimità avrebbe gravemente violato ed erroneamente applicato l’art. 2087 c.c., in quanto, pur essendo emerso al di là di ogni ragionevole dubbio in fase istruttoria che l'ambiente di lavoro era pericoloso e nocivo, peraltro con particolare riguardo al rischi di scivolamento, a causa della presenza di acqua e fanghiglia sul pavimento e sulle scale, non ha ritenuto responsabile il datore di lavoro dell’evento lesivo subito dal M.C., mentre per pacifica giurisprudenza tale responsabilità sussiste sempre, allorquando il datore di lavoro non provveda a rendere sicuro il posto di lavoro e ad eliminare i rischi ed i pericoli per la salute del lavoratore.
3. Con il terzo mezzo di impugnazione il ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, sottolineando che. comunque, le censure formulate con i primi due motivi dovrebbero essere ritenute del tutto assorbenti rispetto a qualsivoglia altra questione e/o considerazione. In sintesi, con tale motivo si lamenta che la sentenza della Corte territoriale risulta viziata poiché, come emerge de plano dalla lettura della stessa, non ha preso in considerazione in alcun modo la contestazione sollevata dal M.C. circa il fatto che la Ma. S.p.A. avrebbe potuto e dovuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., adottare misure ulteriori rispetto a quelle adottate ed indicate in sentenza (formazione, fornitura di calzature antisdrucciolo), tali da evitare sinistri derivanti dallo scivolamento sul pavimento e sulle scale del reparto atomizzatori e la correlativa contestazione circa l'inadeguatezza a tale scopo delle misure prevenzionali adottate.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, lett. a,b,d,o,q.r,s,t; 4, n. 1, lett. b.c; 5, lett. d; 8, n. 1; 9, nn. 1 e 2; 32, n. 1, lett. b,c; 35, nn. 1 e 2; 37, n. 1 bis\ 38 del D.Lgs.n. 626/94. nonché degli artt. 4 e 8, nn 1 e 9 del d.P.R. n. 547/55. lamentando che la sentenza impugnata si fonda sulla tesi, del tutto erronea, che il datore di lavoro avrebbe rispettato sia l’art. 2087 c.c., sia le prescrizioni specifiche previste dal D. lgs. n. 626/94 e dal d.P.R. n. 547/55, per il solo fatto che ha adottato le sole misure antinfortunistiche sopra indicate, mentre è evidente che ai sensi dei decreti menzionati, avrebbe dovuto adottare ulteriori e più penetranti misure di sicurezza.
5. Con il quinto motivo si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, poiché la Corte d‘Appello avrebbe omesso completamente di pronunciarsi in ordine alla violazione, da parte della Ma. Group Ceramiche s.p.A, della normativa antinfortunistica citata sub 4, nonostante che il mancato rispetto di tale normativa fosse stato espressamente denunziato dal M.C. nei due gradi di merito e fosse stato oggetto di discussione tra le parti.
6. Con il sesto motivo si denuncia, in riferimento all’art. 360. primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1218. 1223. 1226, 2056, 2059 c.c., 32 Cost., con riguardo al mancato riconoscimento al M.C. del risarcimento del danno non patrimoniale e del danno patrimoniale emergente relativo alle spese mediche sostenute: si lamenta, in sostanza che la Corte territoriale abbia respinto le ragioni di appello relative al mancato riconoscimento al M.C. del danno non patrimoniale, ritenendo assorbiti i relativi motivi di appello che atterrebbero, secondo la sentenza, al quantum debeatur, senza tenere conto che tale motivo di impugnazione investe anche la sussistenza del diritto al risarcimento di tali pregiudizi e, pertanto, l'an debeatur. L’errore sarebbe stato causato, a parere del ricorrente, dal fatto che. in palese violazione dei richiamati artt. 2087, 1218 e 2697 c.c.. nonché della menzionata normativa antinfortunistica, la Corte distrettuale ha ritenuto la Ma. esente da responsabilità, respingendo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dal lavoratore.
7. Con il settimo mezzo di impugnazione si denuncia, in riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., per il mancato riconoscimento al ricorrente della rivalutazione monetaria e degli interessi legali dal momento del sinistro a quello della corresponsione del risarcimento.
8. Con l'ottavo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c.. in riferimento all'art. 360. n. 3, c.p.c., e si lamenta che la Corte di Appello abbia condannato l'appellante al pagamento delle spese legali relative al secondo grado di giudizio nei confronti della Ma. ed abbia confermato la sentenza di primo grado che aveva compensato le spese processuali del procedimento di primo grado.
Premessa l’esposizione dei motivi articolati, è da osservare che i primi cinque di essi possono essere trattati unitariamente essendo tra loro connessi per la identica questione logico-giuridica ad essi sottesa, pur se la stessa è stata prospettata sotto diversi profili. Alla stregua, infatti, dei consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte di legittimità,(cfr, ex plurimis, Cass. nn. 13956/12: 17092/12; 18626/13; 22710/15) la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn. 6377/2003; 16645/2003). Per la qual cosa, in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nella fattispecie, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva e tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (cfr. Cass. n. 15156/11).
Al riguardo, è altresì da sottolineare che la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizione della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente “ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato’’, in considerazione del fatto che l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma. Cosi.) - è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue che la concezione "patrimonialistica" dell'individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute - anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa momenti tutti che "costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento, anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi di sicurezza al fine di tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo, nonché le diposizioni antinfortunistiche, fra le quali quelle contenute del D.Lg.vo n. 626/94 - attuativo, come è noto, di direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa - ed altresì dell’art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela del'integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce “nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche - e soprattutto - alla predisposizione "di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio’’. Tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile si giustifica alla stregua dell'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr.. già da epoca risalente. Cass. nn. 7768/95; 8422/97). sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute - art. 32 Cost. - sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio - artt. 1175 e 1375 c.c., disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi" e di clausole generali (Generalklauseln) - cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, “pur se nell'ambito della generica responsabilità extracontrattuale”, ex art. 2043 c.c.. in tema di neminem laedere (al riguardo, questa Suprema Corte ha messo, altresì, in evidenza, già da epoca non recente, che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l'altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso). Fatte tali premesse, deve osservarsi che, nel caso di specie, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui il ricorrente rettamente deduce la violazione sub 5, dovendosi ritenere la sussistenza del nesso causale tra l'infortunio occorso al M.C. e l’attività svolta dallo stesso in un ambiente in cui per la scivolosità del pavimento e degli strumenti connessi all’attività lavorativa, causata dal particolare tipo di lavorazione, era altamente probabile che, non adottando ogni cautela prescritta si verificassero eventi dannosi per il personale.
Non è quindi condivisibile la conclusione cui è giunta la Corte territoriale, che non ha considerato che mancasse la detta prova liberatoria da parte dell’impresa, trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ai sensi dell’art. 2087 c.c., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro, pur tenendosi conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Ne consegue che il ricorso va accolto; gli altri motivi restano assorbiti, considerata la evidente pregiudizialità ed il carattere assorbente che le doglianze di cui ai primi cinque motivi rivestono nei confronti dell'intera controversia.
La sentenza va pertanto cassata con rinvio della causa alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, a tutti i principi innanzi affermati, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione.
Così deciso in Roma. 17 maggio 2016