Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 aprile 2017, n. 10430 - Riconoscimento del diritto alla rendita per malattia professionale (patologia neoplastica al colon) a causa dell'esposizione ad amianto


 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: RIVERSO ROBERTO Data pubblicazione: 27/04/2017

 

 

Fatto

 


Con la sentenza n. 408/2010, la Corte d'Appello di Perugia rigettava il gravame proposto dall'INAIL contro la pronuncia del Tribunale di Perugia che aveva accolto il ricorso di P.L. diretto ad ottenere dall'INAIL il riconoscimento del diritto alla percezione della rendita di legge avendo contratto una malattia professionale (patologia neoplastica al colon), a causa dell'esposizione a sostanze nocive (in particolare amianto) subita nell'ambiente di lavoro.
A fondamento della decisione la Corte sosteneva che l'esposizione alla sostanza nociva non fosse in contestazione e che la ctu espletata in secondo grado, come quella di primo grado, avessero accertato correttamente l'esistenza del nesso causale tra la malattia professionale e l'agente patogeno, in base ai dati di letteratura ed in concreto secondo il concetto di alta probabilità.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'INAIL con due motivi di censura. Resistono gli eredi di P.L. con controricorso illustrato da memoria.
 

 

Diritto

 


1. Con il primo motivo l'Istituto ricorrente lamenta la violazione dell'art. 3 DPR 30/6/1965 n.1124 (in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.), poiché, trattandosi di malattia tumorale ad eziologia multifattoriale, la sentenza aveva riconosciuto la natura professionale della malattia sulla scorta di una ctu pur in assenza di sufficienti evidenze scientifiche ed epidemiologiche ritenute affidabili, violando perciò il concetto di causa e la norma sopra citata.
2. Con il secondo motivo l'Istituto assicuratore lamenta l'insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (ex art. 360 , 1 c. n. 5 c.p.c.) in quanto la ctu era inficiata da affermazioni illogiche e contraddittorie che si traducevano in vizi della motivazione della sentenza impugnata. 
3. I motivi, i quali possono essere esaminati unitariamente per la connessione che li contraddistingue, sono infondati.
4. Va ricordato anzitutto che nell’art. 3 del DPR 1124/1965, si legge: “L'assicurazione è altresì obbligatoria per le malattie professionali indicate nella tabella allegato n. 4 le quali siano contratte nell'esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali lavorazioni rientrino tra quelle previste nell'art. 1".
Le sentenze della Corte Costituzionale del 1988 (nn. 178, 179 e 206) hanno ritenuto non adeguato ai dettami costituzionali il riconoscimento della copertura assicurativa limitato alle sole malattie tabéllate e si è giunti alla dichiarazione che sono professionali anche le "malattie di cui sia comunque provata la causa di lavoro", con onere della prova a carico del richiedente.
Tale dicotomia (malattie tabéllate e non tabéllate) è stata poi regolata dal D.lgs. 38/2000 laddove nell'art.10, dedicato alle malattie professionali, al 4° comma si legge "....fermo restando che sono considerate malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle delle quali il lavoratore dimostri l'origine professionale ".
5. E' d'interesse evidenziare ora, ai fini della presente decisione, che, benché l'ordinamento sembra richiedere ancora (art. 3 DPR cit.) uno stretto nesso di derivazione causale tra la malattia e l'attività lavorativa esercitata dal lavoratore ("a causa e nell'esercizio delle lavorazioni specificate nella tabella" ), in realtà, per risalente e consolidata interpretazione giurisprudenziale, anche costituzionale (Corte. Cost. 206/74), ai fini dell'operatività della tutela assicurativa è sufficiente l'identificazione di un rischio ambientale (cfr. Cass. SU 13025/2006; 15865/2003, 6602/2005, 3227/2011); ossia che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una noxa comunque presente nell'ambiente di lavoro ovvero in ragione delle lavorazioni eseguite al suo interno, anche se egli non fosse stato specificatamente addetto ad una attività pericolosa.
6.1. Va altresì ricordato che il nostro ordinamento in materia di nesso casuale (artt. 40 e 41 c.p.) è ispirato al principio di equivalenza delle cause; per cui, al fine di ricostruire il nesso di causa, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire comunque l'azione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale. Sicché solo qualora possa ritenersi con certezza che l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. 26 marzo 2015 n. 6105; Cass. 11 novembre 2014 n. 23990); mentre per contro va negato che la modesta efficacia del fattore professionale sia sufficiente ad escludere l'operatività del principio di equivalenza causale (Cass. 12 ottobre 1987 n. 7551, Cass. 8 ottobre 2007 n. 21021).
6.2. Il principio di cui sopra, che attiene al nesso causale ed al principio di equivalenza, si applica alle malattie tabéllate (per le quali vale in prima battuta la presunzione di origine professionale, salvo appunto la prova a carico dell'INAIL dell'intervento di un fattore esclusivo di origine professionale; in questi termini Cass. 21 novembre 2016 n. 23653); ma anche, una volta che il lavoratore abbia assolto il proprio onere probatorio, a quelle non tabéllate, di cui la scienza medica abbia accertato con un grado di probabilità qualificata l'origine professionale.
7. Tanto premesso, è vero che come sostiene l'INAIL, trattandosi di malattie non tabéllate, il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione - quanto meno in via di probabilità - anche in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell'evento morboso.
7.1. Ed è pure esatta l'affermazione che ai medesimi fini è sempre il lavoratore (o il suo familiare superstite) a dover provare l'esposizione al rischio ed il nesso di causa (ex art. 2697 c.c.).
7.2. Tuttavia nel caso in esame la sentenza impugnata non ha violato alcuno dei principi giuridici sopra richiamati. Non quello dell'onere della prova; e neppure il criterio legale di probabilità su cui si fonda la nozione del nesso di causalità ex art. 40 e 41 c.p.
Al contrario di quanto affermato dall'INAIL la sussistenza della relazione causale non è stata fondata sulla personale valutazione dell'ausiliario tecnico, ma è supportata da un giudizio di affidabilità della stessa comunità scientifica e dalla corretta valutazione delle circostanze del caso concreto.
7.3. Risulta invero dalla relazione peritale, interamente riprodotta solo nel controricorso, che la eziopatogenesi della malattia in esame è stata anzitutto ricondotta, in tesi, a diversi fattori causali (ereditari, alimentari, ambientali, occupazionali), come peraltro accade oramai in quasi tutte le malattie professionali.
7.4. Tuttavia non è vero che, trattandosi di malattia multifattoriale, il nesso causale con l'attività lavorativa non possa essere lo stesso identificato, dovendo soltanto il giudice procedere agli accertamenti del caso rispettando i criteri indicati dalla giurisprudenza (Cass. SU penali 30328/2002 e Cass. SU civili n.581/2008), i quali confermano che, anche dinanzi all'eventuale intreccio dei fattori causali, il giudice (nel rispetto delle diverse regole probatorie vigenti nei vari settori dell'ordinamento) possa pervenire all'identificazione del nesso causale.
La nostra giurisprudenza (Sezioni Un cit.) ha infatti rifiutato un approccio rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione immancabile, tra i due termini del nesso causale; essendo sufficiente allo scopo una relazione di tipo probabilistico; purché la prova della correlazione causale tra fatto ed evento attinga, nel singolo caso concreto, ad un livello di "alta probabilità logica".
Allo scopo, perché l'evento risulti attribuibile ad un agente partendo da una legge statistica (anche con una frequenza medio-bassa) o da una indagine epidemiologica è necessario dimostrare nel singolo caso, in modo razionalmente controllabile, che senza il comportamento dell'agente, con un alto grado di probabilità logica, l'evento non si sarebbe verificato" (attraverso l'impiego del c.d. giudizio contro-fattuale). Occorre, in sostanza, che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale ( la c.d. legge scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze relative al caso concreto, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative.
8. Ed è quanto risulta aver effettuato nel caso in esame la ctu posta a fondamento della decisione. La quale anzitutto ha dato atto dell'esistenza di una nutrita letteratura medica che riconosce il nesso causale tra l'esposizione ad amianto ed il tumore al colon. Ha citato in proposito studi condotti negli USA che hanno dimostrato la presenza di fibre di asbesto nel tessuti del colon nel 32% di soggetti affetti da cancro al colon ed esposti a tale sostanza. Ha richiamato il D.M. 27.4.2004 che prevede lo stesso rapporto causale in oggetto nella lista III ("malattia la cui origine lavorativa è possibile"), come confermato anche dal D.M 14.1.2008. La ctu ha inoltre evidenziato che anche la letteratura medica contraria a riconoscere attualmente con certezza il nesso casuale per il tumore al colon con la esposizione ad amianto, riporta a livello epidemiologico dati non trascurabili riguardanti casi di lavoratori esposti all'amianto e affetti da carcinoma del colon.
8.1. La ctu ha poi tenuto conto della sensibilità dello specifico soggetto di cui si discute ed inoltre degli elementi topografico, cronologico, di efficienza lesiva e di esclusione di altra causa (non sono stati cioè individuati fattori extralavorativi per i quali è possibile essere invocata una responsabilità eziopatogenetica in tal senso).
8.2. La ctu conclude quindi correttamente per l'esistenza del nesso causale, citando pure la circolare INAIL 7876/bis del 16.2.2006 secondo la quale "l'impossibilità di raggiungere una assoluta certezza scientifica in ordine al nesso di causa non costituisce motivo sufficiente per escludere il riconoscimento della eziologia professionale".
9. In conclusione, deve ritenersi che la sentenza impugnata si sottragga alle censure sollevate col ricorso e si ponga invece nella scia dell'orientamento di legittimità cui questo collegio intende dare continuità (Cass. n.13954/2014, Cass. 23653/2016), orientamento che riconosce l'esistenza del nesso di causa anche nelle malattie professionali ad eziologia multifattoriale purché (quando non tabéllate) siano rispettati i principi di equivalenza delle condizioni e di alta probabilità logica rispetto al singolo caso concreto.
10. Per le ragioni fin qui espresse il ricorso va quindi rigettato. Le spese seguono la soccombenza come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso e condanna l'INAIL al pagamento delle spese del giudizio che liquida in complessivi € 3700 di cui € 3500 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed agli accessori di legge.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 19.1.2017.