Cassazione Penale, Sez. 3, 15 giugno 2017, n. 30115 - Caduta mortale dell'operaio della FINCANTIERI dalla scala non sicura. Responsabilità del datore di lavoro, del delegato e del preposto


 

Presidente: FIALE ALDO Relatore: GRILLO RENATO Data Udienza: 14/07/2016

 

Fatto

 

1.1 Con sentenza del 7 maggio 2015, la Corte di Appello di Palermo, decidendo in sede di rinvio disposto da questa Corte Suprema con sentenza del 17 gennaio 2013, riformava in accoglimento degli appelli proposti dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello e dalle parti civili, la sentenza pronunciata dal Tribunale di quella città in data 10 febbraio 2011 nei confronti di O.R., F.O. e G.T.R. (imputati, il primo dei reati p. e p. dagli artt. 8 e 77 lett. c) del d.P.R. 164/56; dall'art. 389 lett. c) in rel. all'art. 18 del d.P.R. 547/55 e dall'art. 34 comma 4 lett. c) del D. Lgs. 626/94; il secondo del reato di cui all'art. 35 comma 4 lett. b) del D. L.gs. 626/94 e tutti del reato p. e p. dall'art. 589 comma 2° cod. pen. in pregiudizio di V.F. - fatti tutti avvenuti in Palermo il 3 settembre 2004) con la quale i detti imputati erano stati assolti dai reati loro rispettivamente ascritti in epigrafe [perché il fatto non sussiste relativamente alle imputazioni di cui ai capi A ed E limitatamente alla posizione di O.R. e relativamente alle rimanenti imputazioni sub B.C ed E, limitatamente alla posizione degli altri imputati F.O. e G.T.R. per non avere commesso il fatto], dichiarando i tre imputati colpevoli del solo delitto di cui al capo E) (omicidio colposo), condannando costoro, previo riconoscimento a ciascuno delle circostanze attenuanti generiche, alla pena - condizionalmente sospesa - di mesi nove di reclusione per ognuno, oltre al risarcimento dei danni, unitamente al responsabile civile FINCANTIERI s.p.a. in favore delle costituite parti civili da liquidarsi in separata sede. Con la medesima sentenza la Corte distrettuale dichiarava non doversi procedere nei confronti di ciascuno dei predetti imputati in ordine ai reati contravvenzionali loro rispettivamente ascritti ai capi A), B), C) e D) perché estinti per prescrizione.
1.2 In particolare la Corte territoriale, all'esito di una complessa vicenda giudiziaria conseguente alla morte sul luogo di lavoro (3.9.2004) di un operaio (tale V.F.) della FINCANTIERI s.p.a. per caduta al suolo da una scala sulla quale era salito per raggiungere il blocco metallico della nave Neptune Okeanis 6119 posto ad ull'altezza dal suolo di mt. 6, ha ricostruito dettagliatamente i fatti verificatisi quel giorno, basandosi sulle testimonianze di alcuni colleghi di lavoro del V.F. (gli operai M.P. e M.A. che avevano assistito all'incidente in tutte le sue fasi) e sui principi di diritto - non osservati né dal Tribunale né dalla Corte di Appello che aveva confermato la pronuncia assolutoria con sentenza del 10 febbraio 2012 successivamente annullata con rinvio da questa Corte Suprema - enunciati dalla Suprema Corte con la ricordata sentenza del 17 gennaio 2013. Il giudice distrettuale, nell'analizzare le dichiarazioni testimoniali acquisite e gli altri dati processuali disponibili, individuava nei tre imputati, titolari, ciascuno, di specifiche posizioni di garanzia (l'O.R. quale datore di lavoro e responsabile della FINCANTIERI s.p.a., l'F.O. quale delegato per la sicurezza del cantiere e il G.T.R. quale preposto al cantiere della nave Neptune Okeanis 6119) specifiche responsabilità non escluse dal comportamento, pur imprudente della vittima, non qualificabile comunque come abnorme e tale da recidere il nesso di causalità. Da qui la dichiarazione di colpevolezza dei tre imputati, odierni ricorrenti, condannati a tale titolo alle pene di giustizia e al risarcimento dei danni in solido con il responsabile civile FiNCANTIERI s.p.a..
1.3 Nell'assumere la decisione qui impugnata la Corte territoriale superava i plurimi travisamenti della prova come partitamente indicati da questa Corte Suprema (vds. pagg. 3 e 4 della sentenza di annullamento), uniformandosi, poi, ai principi di diritto richiamati in quella sede dalla Corte Suprema con i quali era stato ribadito anzitutto che il datore di lavoro e chi per lui non poteva ritenersi esentato da responsabilità per gli infortuni procurati al lavoratore, utilizzando strumenti di lavoro insicuri o comunque inadeguati lasciati nella disponibilità degli operai; ancora, che nessuna esimente poteva valere per il datore di lavoro ed in generale per chi - come gli imputati - titolare di specifiche posizioni di garanzia, in relazione al comportamento eventualmente imprudente posto in essere dal lavoratore, dovendosi considerare destituita di giuridico fondamento la tesi della colpa del lavoratore consistente nella mancata verifica che lo strumento di lavoro messogli a disposizione fosse fonte di pericolo, valendo, semmai, il principio opposto dell'affidamento da parte del lavoratore di adoperare mezzi efficienti e sicuri. Veniva anche richiamato altro principio di diritto enunciato dalla Corte Suprema in occasione dell'annullamento della sentenza secondo il quale la colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione delle norme antinfortunistiche addebitate ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime costoro da responsabilità, se non nella residuale ed eccezionale ipotesi in cui il lavoratore abbia posto in essere una condotta imprevedibile e/o abnorme - circostanze non verificatesi nel caso in esame (v. postea).
1.4 Avverso la detta sentenza hanno proposto ricorso tramite i rispettivi difensori tutti gli imputati. In particolare i difensori degli imputati F.O. e O.R. con distinti - ma contestuali (vista la medesima data in cui risultano essere stati depositati) motivi - lamentano i seguenti vizi che in questa sede si espongono, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione. Nel primo dei due ricorsi, viene denunciata, con una prima censura, la violazione della legge processuale penale in relazione agli artt. 627 e 546 cod. proc. pen., e la violazione della legge penale sostanziale in relazione agli artt. 40, 41, 43, 113 e 589 cod. pen. Lamentano, in particolare, i difensori il travisamento delle prove dichiarative provenienti dai testi M.A. e M.P. in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale che, oltretutto, avrebbe omesso di considerare alcune affermazioni di tali testi incompatibili con la ricostruzione dei fatti operata nella sentenza; per non dire che da parte del giudici di appello non sarebbero state tenute in conto le diverse e numerose prove favorevoli ai ricorrenti senza che ne venissero esplicitate le ragioni. Osservano, a tale proposito, i difensori: a) che non è affatto rimasta dimostrata - anzi vi è prova del contrario sia logica che fattuale - che l'infortunato V.F. facesse parte della squadra composta da altri operai chiamati ad intervenire per eseguire lavori sulla nave Neptune Okeanis 6119 il giorno del fatto; b) che dagli atti emergeva la prova che vi fossero in cantiere a disposizione degli operai altri mezzi per salire in condizioni di sicurezza (quali ponteggi, manuticelle e scale ancorate - vds. dichiarazioni rese dal teste LS. e dallo stesso M.P., nient'affatto valutate dalla Corte ed anzi, tralasciate); c) che non sarebbe stato tenuto in conto quanto dichiarato dal C.T. della difesa A. in ordine all'esistenza di apposite linee guida che prevedevano per il gruppo Fincantieri, in tutti gli stabilimenti dell'azienda, l'utilizzo di scale regolamentari con altezza massima di mt. 6 per il raggiungimento di quote distanti dal suolo mt. 5 (circostanze comprovate dalle dichiarazioni di altro teste nella persona di P.G.; d) che in riferimento alle difficoltà per gli operai di avvalersi delle manuticelle, la Corte di merito non avrebbe tenuto conto di quanto dichiarato dai numerosi testimoni escussi su questo punto (testi M.V., M.A., P.E., A.S.; lo stesso M.P.) circa la possibilità d reperire senza soverchie difficoltà tali dispositivi in quanto disponibili e circa l'intenzione costantemente manifestata dall'imputato G.T.R. di salvaguardare innanzitutto la sicurezza dei lavoratori anche a scapito della produzione, concretizzatasi sempre nell'invitare i lavoratori a reperire tali strumenti di lavoro; e) che nessuna prova era emersa circa il grado di inclinazione e la scivolosità del piano in legno sul quale risultava poggiata la scala dalla quale il V.F. era precipitato al suolo; f) l'inconciliabilità della tesi della messa a disposizione da parte degli imputati, il giorno stesso del fatto, della scala che aveva poi determinato la caduta del V.F., rispetto alle numerose testimonianze (LS., M.V., A.S., M.A. e gli stessi M.A. e M.P.) che concordavano nel riferire di non avere mai visto quel tipo di scala [si trattava, come figurante nella consulenza di parte A., di una scala in vetroresina appartenente ad un gruppo di scale analoghe commissionate da Fincantieri e giunte in stabilimento per essere montate su una precedente costruzione] prima del giorno in cui si era verificato l'incidente; f1) l'anomala presenza della scala sul luogo di lavoro, in quanto contraria alle regole dello stabilimento industriale (vds. Ct. A.); f2); la mancanza di segnalazione di tale anomala situazione da parte degli operai al G.T.R. e la loro anomala iniziativa di utilizzarla per il lavoro senza avvertire il preposto al cantiere. Da tali circostanze, quindi, la conseguenza della erronea decisione della Corte territoriale inosservante delle norme penali in tema di colpa e viziata nell'intero processo motivazionale.
1.5 Nel secondo ricorso nell'interesse dei predetti F.O. ed O.R. la difesa deduce, con un primo motivo, vizio di motivazione per mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 4 e 7 del D. Lgs. 626/94, per avere la Corte di merito individuato nei detti imputati i soggetti tenuti ad impedire l'evento senza prendere in considerazione il tema della effettiva ripartizione di compiti, poteri e responsabilità all'interno dello stabilimento. In particolare la difesa, in seno a tale motivo, lamenta la mancata valutazione da parte della Corte territoriale della delega di funzioni in materia di sicurezza rilasciata dall'imputato O.R. all'altro imputato F.O.. Ed ancora, si duole la difesa della mancata valutazione da parte della Corte di merito della particolare struttura dello stabilimento palermitano estremamente complessa e oggetto di apposito organigramma prevedente deleghe di funzioni, posto che all'interno di tale complesso operavano oltre cinquecento lavoratori. Con un secondo, altrettanto articolato, motivo la difesa deduce analoghi vizi (vizi di motivazione e inosservanza della legge penale) in riferimento alla ritenuta - ma non condivisibile - inidoneità della delega di funzioni ad esonerare l'O.R. da qualsivoglia responsabilità. Ancora, vizio di motivazione per contraddittorietà, manifesta illogicità e carenza assoluta in quanto la Corte territoriale sarebbe pervenuta a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle raggiunte dal Tribunale in ordine alla responsabilità dell'O.R. per i reati contravvenzionali sub a), b) e c) senza confutare le argomentazioni del primo giudice. Vizio di motivazione ed inosservanza della legge processuale penale in riferimento all'art. 521 cod. proc. pen. per avere la Corte territoriale addebitato all'imputato F.O. una condotta diversa rispetto a quella contestatagli. Ed infine, vizio di motivazione per avere la Corte di merito addebitato all'imputato F.O. la medesima condotta attribuita all'O.R. senza avere esposto le ragioni per l'affermata equiparazione tra le due condotte. Con altro autonomo motivo la difesa si duole della carenza di motivazione anche per contraddittorietà e manifesta illogicità nonché della violazione di legge in riferimento all'art. 40 cod. pen. per avere la Corte territoriale individuato l'uso di una scala non a norma e sprovvista di dispostivi antisdrucciolo quale antecedente causale idoneo a cagionare la morte del V.F.. Con ulteriore specifico motivo la difesa lamenta la violazione della legge penale in tema di cooperazione colposa (art. 113 cod. pen.) in ordine alla valutazione delle condotte tenute dagli imputati F.O. ed O.R., nonostante l'assenza di reciproca consapevolezza da parte di costoro di contribuire all'azione od omissione. Con altro motivo la difesa lamenta vizio assoluto di motivazione in relazione alla mancata valutazione delle specifiche deduzioni difensive avanzate in ciascun grado di giudizio da parte della difesa dei due imputati. Ed in ultimo, la difesa lamenta analoghi vizi motivazionali in tema di trattamento sanzionatorio e di erroneo o comunque mancato bilanciamento delle circostanze tale da determinare un trattamento punitivo eccessivo commisurato unicamente al disvalore del fatto.
1.6 La difesa del ricorrente G.T.R. deduce tre specifici motivi a sostegno del proposto ricorso. Con un primo motivo la difesa lamenta l'inosservanza di legge in relazione all'art. 603 cod. proc. pen. per avere la Corte, in spregio all'art. 6 par. 1 della CEDU, affermato, in disaccordo con il duplice giudizio assolutorio espresso dal Tribunale, prima, e dalla Corte di Appello, dopo, la penale responsabilità dell'imputato senza procedere ad una motivazione cd. "rafforzata" e soprattutto, senza procedere alla indispensabile rinnovazione dell'istruzione dibattimentale come prevista dall'art. 603 cod. proc. pen. nel caso di rivalutazione del materiale probatorio. Con un secondo, ed ancor più articolato motivo, la difesa si duole del fatto che la Corte di merito avrebbe travisato le prove testimoniali, ovvero valutato parzialmente quelle poi utilizzate per la decisione; ancora, omesso di valutare le altre prove esistenti e soprattutto le deduzioni difensive contenute in apposite memorie portate alla attenzione della Corte (in particolare la memoria difensiva depositata alla Corte di Appello di Palermo in occasione dell'udienza di discussione del 7 maggio 2015 ed altra precedente depositata il 7 marzo 2014). Nell'ambito del detto motivo la difesa, in particolare, lamenta che una complessiva e doverosa valutazione dell'intero materiale probatorio - in realtà mancante - avrebbe dovuto condurre la Corte ad escludere la responsabilità dell'Imputato G.T.R., anzitutto perché assolutamente ignaro della presenza sul luogo di lavoro dell'operaio V.F., giunto in ritardo rispetto all'orario di lavoro previsto per la squadra di operai addetta a salire sul ponte della nave Neptune Okeanis, quando ormai quella squadra aveva pressoché terminato il proprio lavoro e senza che lo stesso lavoratore avesse, all'atto del suo arrivo, avvisato il G.T.R. della sua presenza; ancora, perché non rispondeva al vero - contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata - che il G.T.R. avesse consentito alla squadra di operare con la scala che avevano a disposizione sui luoghi, senza nemmeno invitarli all'uso delle manuticelle o di altri dispositivi di sicurezza, come invece era sempre avvenuto nelle occasioni pregresse; inoltre, perché la Corte di merito aveva omesso di valutare gli esiti della prova testimoniale (testi LG.,LS., A.S., M.V., M.A. e gli stessi M.P. e M.A.) che concordemente evidenziavano come il G.T.R. si fosse sempre adoperato per assicurare la sicurezza dei lavoratori in modo estremamente scrupoloso, concordando con gli operai per il reperimento degli strumenti di lavoro idonei ad evitare infortuni ed istruendoli sul da farsi e sui pericoli connessi alla loro attività. Con il terzo - ed ultimo - motivo, la difesa lamenta vizio di motivazione per contraddittorietà ed illogicità manifesta oltre che per travisamento della prova in riferimento alla affermazione di responsabilità del G.T.R. ex artt. 113 e 599 cod. pen, per avere la Corte omesso di valutare adeguatamente la condotta posta in essere dal V.F. (concretizzatasi, a detta della Corte, nel raggiungere in ritardo gli altri operai della squadra della quale egli - sempre a detta della Corte, ma in spregio alle testimonianze acquisite - faceva parte e il salire di propria iniziativa sulla scala senza assicurarsi della sua stabilità che doveva considerarsi esorbitante, imprevedibile e del tutto anomala, sì da spezzare il nesso di causalità tra la condotta (asseritamente colposa) del G.T.R. e l'evento.
1.7 Con memoria difensiva depositata in data 4 luglio 2015, la difesa ha insistito nelle censure già sollevate in seno ai precedenti ricorsi, affrontando tre specifici temi già in quella sede prospettati, ma non adeguatamente scrutinati dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata. In particolare si sottolinea (punto 1 della memoria) la carenza motivazionale in difformità rispetto ad un orientamento ormai stabile della giurisprudenza di legittimità che tiene conto degli specifici ruoli rivestiti all'interno di strutture complesse da vari soggetti titolari di posizioni di garanzia (datore di lavoro; delegato alla sicurezza, preposto, capocantiere etc.) imponendo l'analisi dei singoli doveri cautelari e delle singole responsabilità nel rispetto dei singoli compiti affidati a tali soggetti. Secondo la difesa la Corte territoriale avrebbe operato una motivazione in termini generali in riferimento ad una visione ormai superata del ruolo del datore di lavoro all'Interno di una azienda e senza tenere conto delle varie ripartizioni dei ruoli all'interno di una azienda di notevoli dimensioni. Corollario di tale riflessione l'ulteriore rilievo secondo cui la Corte di merito non avrebbe tenuto conto della reale portata delle numerose dichiarazioni testimoniali esistenti all'interno del processo; non avrebbe individuato carenze attribuibili a scelte gestionali di fondo imputabili - in quanto tali - al solo datore di lavoro, ma mai segnalate dai vari testi escussi; avrebbe sottovalutato le condotte negligenti dei lavoratori (ed in special modo della vittima dell'incidente) nonostante costoro fossero ben consapevoli delle precise regole sia organizzative che cautelari esistenti nello stabilimento; non avrebbe tenuto in conto della intervenuta adozione delle cautele atte a prevenire gli infortuni adottate - nell'ambito di ciascun ruolo, dai soggetti oggi imputati. Con altra argomentazione (punto 2 della memoria) la difesa ricorda la carenza di motivazione da parte del giudice di appello in merito alle deleghe di funzioni ed alla natura esimente di esse, in particolare osservando che è mancato da parte della Corte territoriale qualsiasi accertamento sui poteri di spesa da parte del delegato, essendosi invece la Corte limitata ad escludere che tali poteri esistessero e dunque finendo con l'individuare una colpa a carico del delegato laddove questa sarebbe stata imputabile, al più, al datore di lavoro. Una terza riflessione (punto 3 della memoria) concerne la insufficiente disamina del tema afferente alla cooperazione colposa tra i tre imputati nella causazione dell'evento, in quanto la Corte di merito avrebbe - con argomenti del tutto superficiali - attribuito indifferentemente ai tre imputati la colpa senza la distinzione tra i ruoli da essi rivestiti all'interno dello stabilimento e senza neanche occuparsi del tema della consapevolezza da parte degli imputati (il riferimento è ai ricorrenti F.O. ed O.R.) del coinvolgimento di altri soggetti in una determinata attività. Così come non sarebbe stato approfondito l'altro argomento del contributo causale effettivo e giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento dato da ciascuno dei due imputati, essendosi invece la Corte attestata su una asserzione del tutto apodittica senza che venisse valutato il profilo afferente ad una preventiva informazione degli imputati sulle modalità imprudenti dell'intervento e sul fatto che fossero in atto le lavorazioni in occasione delle quali è poi accaduto l'evento mortale.
 

 

Diritto

 


1. Nessuno dei proposti ricorsi, sebbene particolarmente articolati, merita di essere accolto.
2. Ragioni di priorità logica impongono di trattare il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse dell'imputato G.T.R. sotto il duplice profilo della inosservanza della legge processuale (art. 603 cod. proc. pen.) e del vizio di motivazione per carenza ed illogicità manifesta. Lamenta, in particolare, la difesa che la sentenza impugnata si caratterizza per una motivazione non rafforzata laddove l'intervenuto capovolgimento del (duplice) verdetto assolutorio avrebbe dovuto indurre il giudice di Appello a procedere ad una nuova istruttoria, non essendo possibile una rivalutazione della prova dichiarativa anche perché in contrasto con i canoni desunti dall'art. 6 della CEDU e con i principi applicati dalla Corte di Strasburgo nel rispetto di tale norma nella nota causa Dan contro Moldavia.
2. Sulla scorta delle specifiche deduzioni difensive sviluppate con riferimento al vizio di motivazione correlato al ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado ad alla riferita inosservanza dell'art. 603 cod. proc. pen. in effetti va rilevato che la sentenza qui impugnata ha modificato in pejus la decisione assolutoria del Tribunale. Ciò ha fatto, però, traendo spunto da una serie di indicazioni e principi enunciati dal giudice di legittimità che aveva evidenziato come la precedente sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte di Appello il 10 febbraio 2012 fosse particolarmente carente sul fronte non solo della valutazione delle prove dichiarative, ma anche su quello del rispetto di alcuni principi giurisprudenziali da tempo elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e tuttavia ignorati o male applicati dalla Corte di merito.
2.1 Tanto precisato, come correttamente osservato dalla difesa del ricorrente G.T.R., occorre verificare nel giudizio di legittimità se - di fronte ad un complesso probatorio identico nelle due fasi del giudizio - il percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale risponda ai canoni della completezza, della logica e della coerenza interna, ma anche del rispetto delle indicazioni e dei principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione: più in particolare si impone da parte del giudice di appello, in considerazione dell'esito negativo del giudizio nei riguardi dell'imputato, un vaglio cd. "rafforzato" e particolarmente severo delle prove esaminate in primo grado. Ed occorrerà vedere se da parte del giudice distrettuale tali regole valutative e le modalità di vaglio in termini di coerenza, completezza, esaustività e logicità, siano state rispettate.
2.2 Nel nostro sistema processuale, come è noto, vige il sistema del cd. "doppio grado di giurisdizione", consistente nella possibilità di ottenere - sulla stessa questione controversa - una seconda pronuncia da parte del giudice di merito diversa, eventualmente, dalla prima e destinata, quindi, a prevalere su quella adottata dal giudice di primo grado. Con l'entrata in vigore del principio costituzionale del giusto processo, compendiato nell'art. 111 Cost., la raccolta in forma dialettica delle prove è diventato il metodo normale di confronto su una decisione nei termini indicati dalla  Carta costituzionale. La devolutività piena del giudizio di appello permette, quindi - seppure entro i confini delle impugnazioni proposte dalla parti processuali - la possibilità di una rivisitazione, in melius o in pejus, della prima decisione: operazione, quest'ultima, caratterizzata da un controllo di tipo cartolare e scritto di quanto avvenuto in precedenza, con esclusione, quindi, del ricorso alla oralità ed alla dinamica reale del contraddittorio. 
3. Ciò detto, va ricordato che secondo l'interpretazione giurisprudenziale adottata da questa Corte, è ben possibile che nel giudizio di secondo grado possa, per la prima volta, definirsi il giudizio basandosi sullo stesso materiale probatorio utilizzato per una decisione favorevole, pervenendo, all'esito di tale percorso, ad una condanna dell'imputato. Ciò comporta, però, di fatto, che il soggetto condannato per la prima volta in secondo grado si vede privato della possibilità di una impugnazione di merito come, invece, accade nel giudizio di primo grado. L'unico rimedio possibile, in una situazione siffatta, è costituito dalla impugnazione in sede di legittimità che, però, preclude qualsiasi esame sul merito della vicenda.
4. Si esige, allora, da parte del giudice di secondo grado, nel caso di ribaltamento in pejus della prima decisione, non solo di effettuare una logica ricostruzione dei fatti e darne adeguatamente conto della motivazione, ma, soprattutto, di raffrontarsi con la decisione di primo grado e rilevare se la diversa decisione che sia stata adottata rappresenti la conseguenza di una valutazione alternativa del medesimo materiale probatorio o, piuttosto, il frutto di specifici errori, logici o fattuali.
5. Come affermato in numerose pronunce di questa Corte, nella contrapposizione tra due diverse sentenze, esse appaiono analogamente convincenti sul piano logico e dunque tali da offrire soluzioni diverse Luna alternativa all'altra, ma persuasive o comunque non manifestamente illogiche, con la inevitabile conseguenza di giungere al risultato di un "ragionevole dubbio" che non può che risolversi in favore dell'imputato.
6. Laddove, invece, la sentenza di riforma riesca ad individuare tutti quei punti che rendono insostenibile la decisione di primo grado, vuoi per una incoerenza logica, vuoi per un errore nella valutazione del materiale probatorio, o anche per una omessa valutazione di prove non considerate od erroneamente ritenute inutilizzabili, la soluzione cui si perviene è del tutto differente nel senso che "la lettura proposta dalla sentenza di condanna a seguito di appello dovrà essere l'unica decisione possibile alle date condizioni" (Sez. 6A, 10.10.2012 n. 1266,
Andrini, Rv. 254024; v. anche Sez. 6A 26.2.2013, C.M. ed altro non massimata). Il criterio da osservare da parte del giudice di appello nel decidere e motivare la condanna sarebbe dovuto essere quello sopra detto e il rispetto di tale criterio costituisce l'oggetto del controllo rispetto ai vizi logici dedotti dai difensori.
7. Ma il limite stesso insito nella statuizione di condanna successiva ad una precedente decisione di tenore liberatorio (ovverossia la mancanza del requisito della oralità) impone degli obblighi specifici a carico del giudice di secondo grado che intenda discostarsi dalla precedente decisione utilizzando la stessa prova orale raccolta nel precedente giudizio, proprio perché quel giudice non è stato posto nelle condizioni di effettuare un apprezzamento diretto della prova nel suo formarsi, avvalendosi solo di prove di tipo documentale compendiate nei verbali di trascrizione redatti nel corso delle singole udienze. 
8. Il detto limite ha indotto nel tempo le difese di numerosi imputati a sollevare eccezione di incostituzionalità dell'art. 603 cod. proc. pen., (istituto che prevede la rinnovazione parziale del dibattimento in appello) per un asserito contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, come interpretato dalla CEDU con la sentenza "Dan contro Moldovia" del 5 luglio 2011, in relazione alla mancata previsione della obbligatorietà di una nuova acquisizione delle prove orali innanzi al giudice di appello affinchè lo stesso, con un diverso apprezzamento delle stesse, possa pronunciare sentenza di condanna.
9. Questa Corte, più volte investita della questione, l'ha, a ragione, ritenuta manifestamente infondata, facendo leva sulla indiscutibile applicabilità nell'ordinamento, in base ad una interpretazione adeguata dell'art. 603 cod. proc. pen., della regola che risulta dalla citata giurisprudenza CEDU, riconoscendosi che l'art. 6, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan vs. Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria soltanto in presenza di due presupposti (decisività della prova testimoniale e necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni assenti nell'ipotesi in trattazione), (vds. Sez. 5A 5.7.2012, Luperi ed altri, Rv. 253541).
10. Nel caso in esame la Corte è stata in grado di valutare le stesse prove documentali vagliate in modo superficiale ed approssimativo da parte del Tribunale (considerazione peraltro già presente a più riprese nella sentenza di annullamento della Suprema Corte), procedendo ad una analisi più esaustiva che attraverso una lettura coordinata delle prove dichiarative (testi M.A. e M.P. su tutti) e di quelle documentali ha rivisitato la prima decisione, valorizzando elementi che non rendevano per nulla necessaria la chiesta rinnovazione dell'istruzione attraverso il riascolto dei testi M.P. e M.A..
10.1 Non a caso tutte le difese dei ricorrenti lamentano l'eccessiva valorizzazione, peraltro effettuata asseritamente in modo parziale, da parte della Corte di Appello di quanto dichiarato dai due testi, dimenticando però che quelle dichiarazioni erano state oggetto di valutazione da parte dei primi giudici di merito che le avevano travisate proprio come sottolineato dalla Corte Suprema nella più volte menzionata sentenza di annullamento.
11. Sotto tale profilo, allora, la decisione della Corte appare correttamente ed esaurientemente motivata.
12. Le premesse in punto di fatto e l'accenno ai principi di diritto affermati da questa Corte in sede di annullamento con rinvio che ha poi dato luogo alla sentenza qui impugnata costituiscono i due punti di riferimento da tenere in considerazione al fine di verificare se la decisione gravata risulti affetta dai vizi denunciati.
13. La risposta che se ne trae è senz'altro negativa, posto che la Corte territoriale, ispirandosi al ricordato principio affermato da questa Corte, si è pienamente uniformata alle regole enunciate in quella sede: conseguentemente non si ravvisano né carenze - sotto qualsiasi profilo - di tipo motivazionale, né errate applicazioni delle norme penali.
14. Deve essere qui sottolineato che il compito della Corte territoriale - a seguito dell'annullamento con rinvio disposto da questa Corte Suprema - era quello di verificare se da parte del lavoratore era stato fatto uso di un mezzo di lavoro insicuro senza possibilità di ricorrere ad altri mezzi o per la loro indisponibilità ovvero per la difficoltà di reperirli prontamente con il rischio di intralciare i tempi di lavoro.
15. Afferma la difesa del G.T.R. che, avendo la Corte di Palermo ritenuto "indispensabili" per la ricostruzione degli avvenimenti, le dichiarazioni dei testi M.A. e M.P., colleghi di lavoro della vittima, quel giudice avrebbe dovuto procedere al riesame di tali testi e non limitarsi ad una rivalutazione cartolare delle loro dichiarazioni così contravvenendo ai principi fissati dalla Corte di Strasburgo.
15.1 Tale prospettazione, a giudizio del Collegio, non può essere condivisa in quanto la Corte territoriale non ha proceduto ad una rivalutazione di tali testimonianze, ma si è, piuttosto, soffermata sulla inesatta interpretazione effettuata dalla precedente Corte di Appello. Né può dirsi che quelle prove fossero in contrasto con la valutazione operata dalla Corte di Appello. Così come non può sostenersi, come invece preteso dalla difesa, che quelle prove avessero il carattere della decisività, condizione in presenza della quale la Corte di Appello avrebbe dovuto riaprire l'istruzione dibattimentale e procedere alla riaudizione dei testi.
15.2 Di recente questa Corte ha affermato il principio - che questo Collegio condivide - secondo il quale "Il giudice d' appello per procedere alla "reformatio in peius" della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto - in base all'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell' istruttoria dibattimentale quando fonda il proprio convincimento su una diversa valutazione in punto di diritto sul valore della prova, ovvero in punto di fatto sulla portata della prova nel contesto del compendio probatorio" (Sez. 3A 24.9.2015 n. 44005, B. Rv. 255124). Tale decisione si innesta all'interno di una corrente giurisprudenziale ormai consolidata secondo la quale, nel caso di sentenza di condanna in appello rispetto ad una pronuncia assolutoria in primo grado, la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale si impone soltanto quando il giudice di appello intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale ritenuta in primo grado inattendibile e non, invece, quando il suo convincimento si basa su altri elementi di prova in relazione ai quali la valutazione del primo giudice è mancata o è stata travisata (così Sez. 5A 12.2.2014 n. 15975, Sirsi, Rv. 259843; in senso analogo Sez. 5A 28.5.2015 n. 45847, Colombo, Rv. 258470, depositata nelle more della stesura della motivazione della presente sentenza).
15.3 Alla stregua della giurisprudenza formatasi sul punto, all'indomani della prima, fondamentale, pronuncia in materia (Sez. 5A 5.7.2012 n. 38085, Rv. 253541, secondo cui l'art. 6 CEDU, cosi come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria soltanto in presenza di due presupposti quali la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni), va quindi riaffermato il principio di un obbligo per il giudice di appello che intenda riformare in peius la pronuncia assolutoria di primo grado, di disporre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per escutere, nuovamente, le prove orali solo laddove venga diversamente valutata la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (cfr, tra le altre Sez. 2A 24.4.2014 n. 32619 Rv. 26007; conforme Sez. 6, 26.2.2013 n. 16566 Rv 254623).
15.4 Nel caso in esame è incontrovertibile - proprio sulla base di quanto rilevato dalla Corte di legittimità in sede di annullamento con rinvio - come i precedenti giudici di merito avessero clamorosamente travisato le prove, senza peraltro formulare alcun giudizio di inattendibilità di quei testi le cui dichiarazioni sono poi state riesaminate dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata.
15.5 Valga il vero: afferma la Corte distrettuale - senza attribuire alcun carattere di decisività alle dichiarazioni provenienti dai testi M.P. e M.A. - che non vi era alcuna ragione per ritenere le dette dichiarazioni inattendibili (giudizio, peraltro, mai espresso dal Tribunale né dalla prima Corte di Appello): ciò non significa affatto - come prospettato dalla difesa del ricorrente G.T.R. - che la Corte distrettuale abbia operato una rivalutazione della attendibilità di quei testi precedentemente giudicata inattendibile, ma soltanto che la Corte distrettuale, nel rileggere l'intero materiale probatorio presente nel processo è giunta a conclusioni diverse rispetto a quelle errate formulate dal Tribunale che pure aveva avuto a disposizione l'identico materiale probatorio.
15.6 Ed ancora, la decisione della Corte territoriale si basa anche su altri elementi probatori emersi attraverso le dichiarazioni di tutti i testi escussi (in particolare i lavoratori facenti parte della squadra cui è stato ritenuto appartenesse il V.F.) circa le condizioni di insicurezza in cui si erano trovati a lavorare la mattina dell'incidente, ma anche in precedenti occasioni per la difficoltà di reperire prontamente altri strumenti di lavoro più sicuri e la necessità di effettuare comunque il lavoro. Così come è stato provato, al di là di ogni dubbio, che il G.T.R., dopo aver dato le consegne al lavoratori invitandoli a vedere "com'era combinato per salire" non si era recato sui luoghi in cui quella scala risultava collocata, ma solo dopo che era avvenuto l'incidente mortale.
16. Così vagliato il primo motivo di ricorso nell'interesse del G.T.R., ritiene il Collegio di affrontare il tema relativo alla carenza di motivazione, nonché alla manifesta illogicità e contraddittorietà in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel valutare cartolarmente le dichiarazioni di alcuni testi, senza tenere conto di altre prove asseritamente favorevoli e comunque contrastanti con quelle provenienti dai testi M.P. e M.A.. Non deve essere dimenticato che costoro sono stati testi oculari dell'incidente per avere visto il V.F., giunto in ritardo (verso le ore 8 - 8,30), salire sulla scala poggiata su un piano inclinato e in parte sdrucciolevole per il grasso, (il solo mezzo a loro disposizione per salire sul ponteggio consapevoli del difetto di ancoraggio stabile in quanto la scala si trovava incastrata tra due tubi innocenti e prima dell'arrivo del V.F., gli altri operai della squadra se ne erano avvalsi facendo in modo che uno degli operai a terra tenesse dal basso la scala per evitare pericolose oscillazioni); notare all'improvviso la scala sulla quale il V.F. si era arrampicato ruotare su se stessa dopo una oscillazione, determinando la caduta al suolo del V.F..
17. Ritiene il Collegio che le censure intese a stigmatizzare la motivazione della Corte territoriale mirino in realtà a ricostruire in modo diverso gli avvenimenti come (ri)descritti dalla Corte territoriale, cercando di privilegiare e valorizzare quegli errori interpretativi e di valutazione della prova in cui erano incorsi il Tribunale prima, e la Corte territoriale dopo. Così facendo non può non rilevarsi che tali censure siano improponibili in questa sede, senza che possano assumere valore determinante le allegazioni dei verbali delle dichiarazioni, in quanto i loro contenuti non valgono a smentire quanto dichiarato dai testi M.P. e M.A.. Quel che emerge a chiare lettere è che la scala era insicura; che tutti i lavoratori lo sapevano; che quella era l'unica a loro disposizione quella giornata; che non c'era alcuna possibilità per ricorrere alle manuticelle o ad altri arnesi più sicuri; che il G.T.R., come da lui stesso ammesso, aveva interpellato i lavoratori invitandoli a comunicargli "come fossero combinati per salire" senza attendere alcuna notizia ed allontanandosi dal luogo in cui si stava svolgendo quel lavoro, anche perché impegnato altrove.
18. La tesi esposta sia dalle difese dei ricorrenti F.O. e O.R. che del ricorrente G.T.R. in ordine alla non appartenenza del V.F. alla squadra di operai incaricata di svolgere quel determinato lavoro di pulizia sulla nave Neptune Okeanis 6119 è sostanzialmente incentrata su valutazioni di tipo fattuale e finalizzata ad una diversa rilettura (o lettura) delle dichiarazioni dei testi (e segnatamente del M.A. e del M.P.) che hanno concordemente riferito come il V.F. facesse parte della loro squadra; che egli era giunto in ritardo perché sindacalista CISAL e che gli altri componenti (che avevano iniziato il lavoro con il turno delle ore 6,00) erano stati avvertiti via radio del suo imminente arrivo. Sostenere che il V.F. non facesse parte della squadra, significa proprio travisare quella prova così come rilevato dalla Corte di Cassazione.
19. Anche le censure difensive incentrate sul fatto che la Corte in modo illogico e travisante ha ritenuto che in cantiere non vi fossero a disposizione degli operai altri mezzi per salire in condizioni di sicurezza; ancora, che non sarebbe stato tenuto conto di quanto dichiarato dal C.T. della difesa A. in ordine all'esistenza di apposite linee guida che prevedevano per il gruppo Fincantieri in tutti gli stabilimenti dell'azienda l'utilizzo di scale regolamentari con determinate caratteristiche; che non vi fossero difficoltà di alcun genere per gli operai di avvalersi delle manuticelle, bastando richiederle come riferito dai numerosi testi escussi (testi M.V., M.A., P.E., A.S.; lo stesso M.P.) e che il G.T.R. aveva sempre manifestato l'esigenza di salvaguardare innanzitutto la sicurezza dei lavoratori anche a scapito della produzione, invitando sempre i lavoratori a reperire strumenti di lavoro sicuri; l'assenza di prova circa il grado di inclinazione e la scivolosità del piano in legno sul quale risultava poggiata la scala dalla quale il V.F. era precipitato al suolo; l'inconciliabilità della tesi della messa a disposizione da parte degli imputati della (unica) scala che aveva poi determinato la caduta del V.F., rispetto alle numerose testimonianze (LS., M.V., A.S., M.A. e gli stessi M.A. e M.P.) che concordavano nel dire di non avere mai visto quel tipo di scala prima di quel giorno; l'anomala presenza della scala sul luogo di lavoro in quanto contraria alle regole dello stabilimento industriale (vds. CT. A.) ed infine la mancanza di segnalazione di tale anomala situazione da parte degli operai al G.T.R. e la loro anomala iniziativa di utilizzarla per il lavoro senza avvertire il preposto al cantiere, risultano basate su interpretazioni fattuali: si tratta, infatti, di circostanze che, oltre ad integrare una censura di tipo fattuale anche perché miranti a ricostruire in modo diverso una vicenda che appariva invece chiara così come riferita dai testi M.A. e M.P., non appaiono sufficienti a screditare la logicità della decisione.
20. In linea generale va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3A 19.3.2009 n. 12110; Sez. 3A 6.6.2006 n.. 23528). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione, per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3A, 20.6.2007 n. 35397: S.U. 24.11.1999 n. 24, Spina, Rv. 214794). Più di recente è stato ribadito come, ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma é circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (Sez. 2A, 13.2.,2013 n. 21644, Badagliacca e altri, Rv. 255542).
21. Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto. Non c'è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Né il ricorrente può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto.
21.1 Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane sempre giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
21.2 Quanto, al vizio - pur esso dedotto - di contraddittorietà, essa rientra latu sensu nel concetto di manifesta illogicità - attenendo alla coerenza e congruità del ragionamento logico¬giuridico: trattasi di un vizio che, introdotto come autonomo dalla L. 46/06, si manifesta in termini di incongruenza interna tra lo svolgimento del processo e la decisione e si atteggia, quindi, come una sorta di contraddittorietà "processuale" in contrapposizione alla contraddittorietà "logica" che è intrinseca al testo del provvedimento. Più in generale, si parla di contraddittorietà della motivazione quando essa non sia adeguata in quanto non permette un agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione in relazione a ciò che è stato oggetto di prova (così Sez. 6A 14.1.2010 n. 7651 P.G. in proc. Mannino, Rv. 246172). In ultima analisi il vizio in questione di sostanzia "nell'incompatibilità tra l'informazione posta alla base del provvedimento impugnato e l’informazione sul medesimo punto esistente in atti (si afferma ciò che si nega e si nega ciò che è affermato" (in termini Sez. 3A 21.11.2010 n. 12110, Campanella e altro, Rv. 243247).
21.3 L'avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo" costituisce il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione. Tale vizio viene ordinariamente qualificato come un tipico esempio di contraddittorietà processuale (in termini Sez. 6A 18.11.2010 n. 8342, P.G. in proc. Greco, Rv. 249583). Può a ragione parlarsi di "travisamento della prova" qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell'imputato). Oppure dovrà essere valutato se c'erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma - occorrerà ancora ribadirlo - non spetta comunque a questa Corte Suprema "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito. Per esserci stato "travisamento della prova" occorre che sia stata inserita nel processo un'informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia. Affermare una cosa diversa equivarrebbe a chiedere al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.
22. Orbene, dalla lettura del testo della sentenza impugnata non emerge nessuno dei vizi denunciati anche perché il ragionamento della Corte (che oltretutto trae spunto dalle indicazioni fornite dalla Corte di legittimità in sede di annullamento con rinvio) si presenta coerente sul piano della logica e completo, essendo stato esaminato il nucleo centrale della vicenda alla luce di inequivoci elementi di prova inadeguatamente e superficialmente valutati dal Tribunale senza che venissero però espressi giudizi di inattendibilità sul conto dei vari testimoni (e in particolare del M.A. e del M.P.).
22.1 Peraltro il giudice di appello, nel ripercorrere le fasi dell'accaduto e l'analisi delle varie prove acquisite, ha, anzitutto, operato un esame globale in cui sono stati valutati comparativamente tutti gli elementi raccolti, dando poi rilievo a quelle dichiarazioni che descrivevano gli accadimenti in modo chiaro ed inequivoco, Basta por mente, ad esempio a quanto osservato dalla Corte sulla testimonianza del M.A. circa l'utilizzo, di solito, delle scale ancorate e sulla necessità di doversi "arrangiare" quando quelle scale non erano reperibili (il che dimostra la superficiale valutazione dei rischi da parte degli imputati e del G.T.R. in particolare) (vds. pag. 8 della sentenza impugnata), o ancora, quanto riferito dal M.A. circa il comportamento del G.T.R. in occasione del rifiuto opposto dai lavoratori a salire su scale non sicure, concretizzantesi nella sostituzione di una squadra (quella dei rinuncianti) con un'altra (anche questa, dimostrazione palese della poca affidabilità del G.T.R. in materia di sicurezza, pur essendo egli titolare di una precisa posizione di garanzia in quanto preposto al cantiere (pag. 8 della sentenza).
22.2 D'altro canto sostenere come hanno inteso fare tutti i difensori degli imputati, che potenzialmente tutti costoro avevano quale primo obiettivo quello di assicurare la salute dei lavoratori, si risolve in una petizione di principio che non scalfisce il ragionamento della Corte la quale si è invece basata su circostanze di fatto ricavate dalla viva voce di chi aveva assistito all'incidente e di chi nelle varie giornate lavorative era sempre costretto a misurarsi con difficoltà di reperimento dei materiali e strumenti di lavoro, evidenziando quelle criticità che costituiscono la fonte di responsabilità di ciascuno degli imputati.
22.3 Le difese di costoro in realtà hanno cercato di prospettare una sorta di quadro idilliaco di sicurezza garantita dai datori di lavoro e, quasi capovolgendo i ruoli, rispetto ai lavoratori, hanno cercato di riversare su questi ultimi e per quel che rileva, di più sul V.F. la colpa di quanto accaduto, laddove il complesso probatorio esaminato dalla Corte territoriale presenta un quadro ben diverso di difficoltà di reperimento del materiale legate o alla assenza di strumenti adatti o alla necessità di andare incontro a spese (come nel caso dell'approntamento delle manuticelle). Un simile ragionamento non basta di certo a far ritenere viziato sul piano logico ovvero sul piano dei contenuti il ragionamento della Corte di merito.
23. Altro tema che va affrontato in modo specifico soprattutto alla luce dei contenuti della memoria difensiva depositata il 4 luglio 2016, è quello relativo all'esame dei vari ruoli ricoperti dagli imputati all'interno dello stabilimento Fincantieri di Palermo e delle singole posizioni di garanzia di cui i detti imputati erano titolari: ci si vuol riferire, in particolare, al tema delle deleghe specificamente affrontato dalle difese dei ricorrenti F.O. ed O.R. (ma ampi cenni si colgono anche nelle difese del G.T.R.).
23.1 Deducono i difensori mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 4 e 7 del D. Lgs. 626/94 per avere la Corte di merito individuato nei detti imputati i soggetti tenuti ad impedire l'evento senza prendere in considerazione il tema della effettiva ripartizione di compiti, poteri e responsabilità all'interno dello stabilimento. In particolare la difesa, in seno a tale motivo, lamenta la mancata valutazione da parte della Corte territoriale della delega di funzioni in materia di sicurezza rilasciata dall'imputato O.R. all'altro imputato F.O.. Ed ancora, si duole la difesa della mancata valutazione da parte della Corte di merito della particolare struttura dello stabilimento palermitano particolarmente complessa e oggetto di apposito organigramma prevedente deleghe di funzioni, posto che all'interno di tale complesso operavano oltre cinquecento lavoratori. Con un secondo, altrettanto articolato, motivo la difesa deduce analoghi vizi (vizi di motivazione e inosservanza della legge penale) in riferimento alla ritenuta - ma non condivisibile - inidoneità della delega di funzioni ad esonerare l'O.R. da qualsivoglia responsabilità.
23.2 Nessuna delle dette censure può trovare accoglimento: la Corte di merito, uniformandosi ai principi di diritto da tempo elaborati da questa Corte Suprema in tema di obblighi gravanti sui titolari della posizione di garanzia (è incontroverso che entrambi gli imputati - ma anche il G.T.R. - rivestissero specifici ruoli all'interno dello stabilimento industriale che comportavano per gli stessi una posizione di garanzia ben determinata), oltre a ribadire l'obbligo, verosimilmente assolto, di istruire i lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative da essi svolte, ha anche significativamente affermato che tra i compiti affidati per legge ai titolari di posizione di garanzia rientrava (e rientra) quello di attuare in concreto la predisposizione di misure ed accorgimenti atti ad evitare gli infortuni e quello correlato di vigilare di continuo ed in modo effettivo sulla concreta osservanza da parte dei lavoratori di tali misure (in termini Sez. 4A 21.10.2014 n. 4361, Ottino, Rv. 263200; v. anche in termini generali S.U. 24.4.2014 n. 38343, P.G. ; R.C. Espenhan e altri, Rv. 261109)). Tanto vale oltre che per il datore di lavoro, soprattutto per chi, in posizione di vertice, sia addetto alla sicurezza dei lavoratori e per chi sia chiamato a coordinare le attività di cantiere.
23.3 Ciò premesso, la Corte territoriale ha certamente distinto e non affatto considerato globalmente senza alcuna differenza i ruoli dei singoli imputati, individuando le singole posizioni di garanzia in relazione agli effettivi ruoli cui i tre imputati erano preposti. In particolare - quanto alla posizione dell'O.R. - la Corte territoriale ha indicato costui come diretto responsabile della morte del dipendente V.F. non solo per una colpa, per cosi dire, generica collegata al dovere di informazione degli operai sui rischi che il lavoro comportava per la loro sicurezza e sulla istruzione impartita a costoro sui tale specifica materia, ma per una serie di altre colpe rappresentate dalla mancata predisposizione delle misure in termini di messa a disposizione di tali misure e di previsione economica nell'ambito della sua specifica posizione di datore di lavoro e di gestore delle risorse economiche dell'impresa anche in termini di ricerca e fornitura delle attrezzature e strumenti necessari per far si che determinati lavori "rischiosi" si potessero svolgere in regime di sicurezza. Non solo, ma tra i doveri dell'O.R. - quale datore di lavoro responsabile della sicurezza dei dipendenti tutti - rientrava altro dovere che la Corte territoriale ha giudicato - con motivazione in punto di fatto esente da censure sia sul piano logico che sul piano di stretto diritto - non assolto, consistente nell'obbligo gravante sul datore di lavoro di vigilare sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed ancora nell'obbligo di interpellare i lavoratori circa la effettiva dotazione nell'impresa di tali strumenti.
23.4 Tale prova è stata desunta, infatti, dalle concordi dichiarazioni del M.A. e del M.P. i quali hanno parlato di necessità per i lavoratori di "arrangiarsi" nel caso in cui necessitassero scale "ancorate" (munite cioè di rampini alla sommità di esse che consentissero di fissare le scale a determinati punti ed evitare che le stesse potessero avere movimenti anomali o rotazioni o oscillazioni di sorta: è vero che nella sentenza tale profilo viene affrontato a pag. 8 in riferimento alle posizioni del G.T.R. (capocantiere) e dell'F.O. (delegato alla sicurezza). Ma è proprio il ruolo di datore di lavoro dell'O.R. che entra in gioco, nel senso che questi - quale datore di lavoro - poteva delegare altro dirigente per gestire la sicurezza del cantiere, restando però fermo che doveva essere il datore di lavoro a gestire economicamente l'aspetto della sicurezza in generale. E sulla gestione economica - a meno di una delega espressa anche su tale specifica materia (delega inesistente per come hanno riferito i testi così come precisato dalla Corte di merito) - era solo l'O.R. che doveva provvedere, salvo a coinvolgere altri (l'F.O.) sulla gestione concreta della sicurezza previa messa a disposizione degli strumenti sotto l'aspetto della gestione economica dell'impresa.
23.5 In concreto la Corte ha rilevato che la messa a disposizione del lavoratore - e per quanto qui rileva - del V.F. - di una scala insicura e priva di determinate caratteristiche tecniche - integra una culpa in eligendo (oltre che in vigilando) dell'O.R., a prescindere dalle eventuali deleghe conferite all'F.O., quale delegato in materia di sicurezza. Ciò esclude quindi, come esattamente osservato dalla Corte di merito, che il conferimento della delega dall'O.R. all'F.O. in materia di sicurezza esonerasse il primo da qualsiasi responsabilità.
23.6 L'interpretazione data dalla Corte di merito in ordine ai doveri gravanti sul datore di lavoro (O.R.) non solo è corretta, ma si colloca in aderenza ad un uniforme orientamento giurisprudenziale di questa Corte Suprema che è bene riassumere, sia pure per estrema sintesi.
24. E così, con riferimento alle responsabilità nascenti per il datore di lavoro dalla mancata predisposizione sul piano economico, di attrezzature ed in generale di mezzo per mettere in sicurezza l'ambiente di lavoro, in ripetute occasioni questa Corte ha affermato il principio che "In tema di infortuni sul lavoro, in ipotesi di delega di funzioni spettanti al datore di lavoro, è necessario verificare in concreto che il delegato abbia effettivi poteri di decisione e di spesa in ordine alla messa in sicurezza dell'ambiente di lavoro: e ciò anche indipendentemente dal contenuto formale della nomina (Sez. 4A 24.9.2007 n. 47136, Macorig, Rv. 238350; conforme Sez. 4A 30.6.2004 n. 36774, Capaldo e altri, Rv. 229694) Quanto al potere scriminante per il datore di lavoro derivante dalla delega di funzioni, più volte questa Corte ha affermato il principio, condiviso dal Collegio, secondo il quale la delega di funzioni non comporta di per sé l'esclusione dell'obbligo di vigilanza del datore di lavoro sul corretto svolgimento da parte del soggetto da lui delegato delle funzioni a lui affidate. E se è vero che tale vigilanza non può avere per oggetto la "concreta minuta conformazione delle singole lavorazioni", è certo che riguarda un ambito più generale - tipico dei doveri gravanti sul datore di lavoro in quanto tale - consistente "nella correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato". Con la conseguenza di una netta distinzione sul piano di principio tra l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro e quello, parallelo e derivato, del delegato destinatario di compiti affidatigli in modo specifico dal datore di lavoro che certamente esonera quest'ultimo dal compito di vigilare di continuo sulle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni ma gli impone di vigilare sulla correttezza delle complessiva gestione del rischio da parte del delegato (in termini Sez. 4A 1.2.2012 n. 10702, Mangone, Rv. 252675; più di recente ed in senso analogo Sez. 4A 21.4.2016 n. 22837, Visconti, Rv. 267319).
25. Le difese degli imputati hanno molto insistito sul tema della struttura complessa dell'azienda (tenuto conto del numero di dipendenti impegnati superiore a 500 unità) e quindi su una necessaria ripartizione delle responsabilità e sull'impossibilità che una eventuale inosservanza della normativa in tema di sicurezza gravasse in via presuntiva ed automatica sul datore di lavoro. Soprattutto nella memoria difensiva depositata il 4 luglio 2016 è stato sottolineato questo punto e l'insufficiente ed in un certo senso, approssimativa motivazione della Corte territoriale che - senza tenere conto di tale particolare dimensione ed articolazione della struttura aziendale - ha in un certo senso uniformato le responsabilità accomunandole senza le necessarie distinzioni in relazione ai ruoli dei singoli.
25.1 Su tale punto la S.C. ha però avuto modo di precisare che se tali premesse sono vere e condivisibili, deve tenersi conto sempre del particolare contesto organizzativo e delle condizioni in cui l'organo di vertice ha operato (in termini Sez. 4A 24.2.2015 n. 13858, Rota e altro, Rv. 263286): il che si traduce in una prova - gravante sull'accusa e nel caso di specie fornita - circa una distribuzione (o distinzione) di compiti senza tuttavia abdicare ad alcuni generali poteri di vigilanza incombenti esclusivamente sull'organo di vertice. Ne consegue che, essendo mancato proprio questo profilo della vigilanza in termini di sovraintendenza generale in capo all'O.R. (come affermato dalla Corte di Palermo), correttamente ne è stata individuata e quindi affermata la responsabilità. In questo senso va anche segnalato quell'orientamento di legittimità che esige che l'imprenditore adotti nell'impresa tutti i più moderni strumenti offerti dalla tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori: il che significa - riferendosi al caso in esame - che per l'esecuzione di lavori comportanti rischi di cadute dall'alto sarebbe stato precipuo compito del datore di lavoro fornire le attrezzature adatte, bandendo quelle attrezzature obsolete o comunque non affidabili o inadatte (ancorché in buone condizioni), anche perché informato dal delegato alla sicurezza (F.O.) delle perplessità manifestate dai lavoratori ogni qualvolta non riuscivano ad avere a disposizione attrezzature adatte. Proprio la fornitura delle attrezzature adatte (non solo scale, ma anche altri strumenti quali cestelli e manuticelle) rientrava in quei compiti di gestione economica del rischio (e della sicurezza) incombente sul datore di lavoro e non delegabile se non anche con riferimento a quei poteri di spesa che i testi hanno invece riferito che mancavano in capo all'F.O.. Ciò spiega la difficoltà (puntualmente colta dalla Corte di appello) per gli operai di avere la disponibilità di tali attrezzature; la necessità di doversi rivolgere a terzi di volta in volta, il rallentamento dei ritmi di lavoro, etc. Carenze tutte rientranti in quell'alto potere di sorveglianza e prima ancora, di organizzazione dell'impresa che fa capo al datore di lavoro e che, se carente, implica una sua colpa laddove un evento negativo si verifichi in rapporto di causalità con quelle carenze. Il che è avvenuto nel caso in esame come adeguatamente osservato dalla Corte palermitana.
26. Corretta, ancora, la decisione della Corte di merito sulle responsabilità attribuibili al delegato per la sicurezza F.O.. Il giudice di appello, nell'affermare la responsabilità, ha individuato un tratto comune con la responsabilità dell'O.R. (vds. pag. 14): in realtà dallo stesso argomentare della Corte nelle pagine precedenti emerge che la responsabilità dell'F.O. era diversa in quanto collegata alla mancata messa a disposizione del lavoratore di mezzi sicuri (la scala con i rampini o altra scala dalle caratteristiche equivalenti) nella sua specifica veste di delegato alla sicurezza.
27. Corretta la decisione della Corte, se riferita ai contenuti delle testimonianze che parlano di una generale assenza di ulteriori mezzi sicuri idonei allo scopo, verificatasi in più occasioni, tanto da determinare il teste M.A. a riferire che in misura percentualmente corrispondente al 30% i lavoratori, vista la carenza di mezzi sicuri, salivano senza le idonee dotazioni di sicurezza sui blocchi per ivi effettuare le lavorazioni affidategli.
27.1 In effetti la responsabilità dell'F.O. si colloca in quella particolare fascia di competenze tipiche del delegato da distinguere da quelle proprie del delegante. Era certamente l'F.O., proprio perché responsabile delegato della sicurezza, non solo a dover vigilare costantemente e minutamente sulla disponibilità delle attrezzature idonee per gli operai ma a risolvere eventuali problemi comunicatigli dai dipendenti; ed era sempre l'F.O., quale delegato dall'O.R., a dover informare il datore di lavoro delle insicurezze connesse alla carenza sistematica di attrezzature o anche a carenze momentanee, nell'ottica quindi di quella ripartizione delle responsabilità e dei compiti ripetutamente evidenziata da questa Corte Suprema (v. Sez. 4^ 1.2.2012 n. 10702 cit.).
27.2 Peraltro tale responsabilità viene individuata dalla Corte territoriale anche in relazione alla carenza in capo all'F.O. di poteri di spesa e di gestione economica di cui hanno, ancora una volta, diffusamente parlato i testi M.A. e M.P.: sicché é evidente che nella misura in cui questi non aveva quel potere economico, avrebbe dovuto informarne il datore di lavoro essendo esigibile quell'obbligo continuo di raccordo tra datore di lavoro e delegato che impone di intervenire congiuntamente laddove vengano segnalate criticità nella sicurezza.
27.3 Ed infine, con riferimento alla responsabilità del G.T.R. (nella sua specifica veste di capocantiere e preposto), la decisione della Corte di merito è ancora una volta del tutto esente da rilievi sia sul piano logico sia sul piano più strettamente giuridico.
27.4 La Corte di merito, investita della questione, ha sostanzialmente individuato specifiche responsabilità in capo al G.T.R. per la negligenza ed incuria mostrata nella gestione della sua specifica attività di capocantiere. Con motivazione puntuale e in fatto - esente da aporie logiche anche perché desunta dalle dichiarazioni dei testi M.A. e M.P. - la Corte non solo ha individuato una precisa responsabilità del G.T.R. nella sua incuria mostrata in merito alle modalità con le quali i lavoratori dovevano ascendere sui blocchi ed al mancato controllo sulla sicurezza delle scale di cui essi si servivano (e mette conto di ricordare che il G.T.R. - per riferito dai testi M.A. e M.P. - dopo avere appreso dagli operai della squadra cui apparteneva, per come detto dai componenti la squadra stessa, il V.F. delle disponibilità di quella scala soltanto, avrebbe detto agli stessi operai, prima ancora che il V.F. arrivasse, di fargli sapere come fare per salire, allontanandosi da quei luoghi e dirigendosi verso altro gruppo di lavoro), ma ha individuato un ulteriore profilo di colpa in un sostanziale disinteresse verso un problema prospettatogli dagli operai di quella squadra (e non era il primo che si verificava nel cantiere) omettendo di risolverlo nonostante toccasse a lui assumere decise iniziative. Ed è sempre la Corte distrettuale a rinvenire un ulteriore addebito nella condotta colposa del G.T.R. concretizzatosi nel non vietare ai lavoratori di utilizzare una scala insicura pur essendo stato reso edotto dai lavoratori di un problema ben preciso. Si tratta di una colpa diretta che incombe proprio al capocantiere, ricordandosi quanto in proposito affermato da questa Corte Suprema circa l'addebitabilità dell'evento a titolo di colpa al preposto, titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità dei lavoratori, essendo egli chiamato a rispondere degli infortuni occorsi in violazione degli obblighi che gli derivano dalla titolarità della posizione di garanzia, purché il preposto medesimo sia titolare dei poteri necessari per impedire l'evento lesivo verificatosi in concreto (Sez. 4A 19.6.2014 n. 12251, De Vecchi ed altro, Rv. 263004). Invero, come sottolineato dalla Corte di merito, è il capocantiere istituzionalmente preposto al controllo della esecuzione dei lavori e delle modalità di espletamento e ovviamente anche dell'osservanza delle misure di sicurezza, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema che, operando una sostanziale equiparazione tra capocantiere e preposto, ha affermato il principio che il capocantiere assume una specifica posizione di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza sul lavoro, rientrando tra i suoi doveri quello di di segnalare situazioni di pericolo per l'incolumità dei lavoratori e di impedire prassi lavorative "contra legem" (Sez. 4A 24.11.2015 n. 4340, Zelanda e altri, Rv. 265977; Sez. 4A 10.1.2013 n. 9491, Ridenti, Rv. 254403 in cui si evidenzia la responsabilità del capocantiere per non avere impedito ai lavoratori di utilizzare mezzi non sicuri ovvero di attuare modalità di lavoro non in condizioni di sicurezza; conforme Sez. 4A 4.3.2009 n. 12673, Pizzonia e altri, Rv. 243216).
27.5 In conclusione la Corte di merito, lungi dall'accomunare i tre imputati senza operare o tenere conto delle distinzioni dei ruoli come preteso dalle difese di tutti i ricorrenti, ha individuato, utilizzando il materiale probatorio disponibile (segnatamente le testimonianze di alcuni lavoratori che hanno assistito alla caduta al suolo del V.F. e che avevano vissuto qualche ora prima le difficoltà di espletare il lavoro in sicurezza consapevoli loro - quanto il preposto e il delegato alla sicurezza - dei pericoli che correvano costretti come erano ad usare l'unica scala disponibile per effettuare quel lavoro sul blocco), colpe specifiche in tutti e tre gli imputati, distinguendo le singoli posizioni di garanzia, i singoli ruoli e le singole manchevolezze.
28. Altro problema che la difesa dei ricorrenti ha affrontato (e che può essere trattato unitariamente, trattandosi di una questione sollevata in termini sostanzialmente analoghi dalle difese degli imputati) è quello relativo alla eventuale responsabilità del lavoratore V.F. che agendo di iniziativa, per di più senza essere componente della squadra (come sostenuto dalle difese dei ricorrenti F.O. e G.T.R. in particolare), sarebbe salito sulla scala all'insaputa del G.T.R. (comunque assente In quel momento) senza informare alcuno di quanto si apprestava a fare, pur consapevole dei rischi che correva avvalendosi di una scala insicura: secondo le difese tale modus agendi del V.F. si sarebbe risolto in una condotta anomala ed abnorme tale da recidere il nesso causale tra la contestata responsabilità dei dirigenti, oggi imputati, e l'evento.
28.1 Tale assunto, respinto dalla Corte di merito con motivazione che il Collegio condivide, è esente da censure sul piano logico. E' un dato acquisito quello secondo il quale il V.F., per salire sul blocco, ha avuto a disposizione una scala insicura (sulla quale erano saliti gli altri componenti la squadra un paio di ore prima che il V.F. arrivasse, in ritardo sui tempi previsti), unica disponibile. Non è dato acquisito - secondo le difese dei ricorrenti - che il V.F. facesse parte di tale squadra e che i suoi componenti fosse informati del suo arrivo imminente, in ritardo rispetto ai tempi previsti e quando già il lavoro era stato avviato da tempo.
28.2 Sotto quest'ultimo profilo le censure mosse dalle difese rientrano nello schema tipico delle censure in fatto come tali improponibili in sede di legittimità perché tendenti ad una ricostruzione alternativa degli eventi rispetto a quella operata dal giudice di merito. E tale vizio connota, a ben vedere, la maggior parte delle censure sollevate in particolare dalle difese dei ricorrenti F.O. e G.T.R. anche su questioni quali il tipo di scala adoperabile; l'impossibilità di averne altre a disposizione; la novità del tipo di scala rispetto a quelle normalmente in uso; la possibilità di avvalersi di altri mezzi diversamente da come riferito da alcuni testi (M.P. e M.A.).
28.3 Detto questo, anche a voler considerare tali censure ammissibili, in ogni caso va condiviso quanto affermato dalla Corte circa l'incidenza irrilevante di una eventuale cooperazione del lavoratore nella produzione dell'evento e circa le responsabilità ugualmente a carico del datore di lavoro (e di altri soggetti titolari di specifiche posizioni di garanzia).
28.4 E' consolidato l'indirizzo interpretativo di questa Corte Suprema secondo il quale, in tema di infortuni sul lavoro, l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento- morte (o lesioni) va esclusa soltanto nella residuale ipotesi in cui emerga la prova che il comportamento posto in essere dal lavoratore abbia assunto i caratteri della abnormità che abbia poi dato luogo all'evento. Perché si possa parlare di abnormità deve trattarsi di comportamento esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (In termini Sez. 4A 5.3.2015 n. 16397, Guida, Rv. 263386; conforme Sez. 4A 28.4.2011 n. 23292, Millo e altri, Rv. 250710; Sez. 4A 14.3.2014 n. 22249, Enne e altro, Rv. 259227). Non può, invece, considerarsi abnorme - ed in questo senso va condiviso quanto osservato dalla Corte di appello circa la non eccezionalità ed imprevedibilità della condotta del V.F., seppure qualificabile come imprudente, in quanto connessa ad una attività di lavoro che si stava svolgendo in quel sito e compatibile con le mansioni del V.F. (vds. pag. 13 della sentenza impugnata) - quella condotta posta in essere dal lavoratore, seppur connotata da imprudenza e da superfluità, laddove si tratti di condotta "non eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo" (v. Sez. 4A 10.10.2013 n. 7955, Rovaldi, Rv. 259313).
28.5 Ma vi è di più: perché venga esclusa la responsabilità del datore di lavoro (e di altri soggetti in posizione di garanzia) non solo la condotta del lavoratore deve essere connotata dall'abnormità nel senso testé indicato, ma occorre che il datore di lavoro in sede di valutazione preventiva del rischio su di lui incombente, abbia fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed abbia adempiuto a tutti gli obblighi propri della sua posizione di garanzia, sicché laddove il sistema di sicurezza apprestato dal datore di lavoro presenti evidenti criticità, la corresponsabilità del lavoratore va esclusa in quanto le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa; in altri termini si esige che il datore di lavoro debba governare ad ampio raggio la situazione gestionale della sicurezza evitando l'instaurarsi da parte degli destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette (V. Sez. 4A 21.4.2015 n. 22813, Palazzolo, Rv. 263497; conforme Sez. 4A 10.2.2016 n. 8883, Santini e altro, Rv. 266073).
28.6 Corollario di tale principio è la non invocabilità da parte del datore di lavoro del cd. "principio di affidamento" nel comportamento altrui da parte di chi versi in colpa per la trasgressione delle norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte doverose o essere venuto meno ai propri doveri di vigilanza e controllo, confidando nella condotta virtuosa di chi gli subentra nella posizione di garanzia , perché questa secondo condotta on si configura come fatto eccezionale sopravvenuto da solo sufficiente a produrre l'evento, (così Sez. 4A 27.6.2013 n. 35827, Zanon e altri, Rv. 258124).
28.7 La motivazione fornita dalla Corte di merito riguardo una eventuale concorrente colpa del lavoratore, inidonea tuttavia a recidere il nesso di causalità tra la condotta colposa degli imputati e l'evento-morte, oltre ad essere corretta sul piano fattuale, è coerente con i principi esposti da questa Corte Suprema nella sentenza di annullamento con rinvio, essendosi quindi pienamente adeguata alle indicazioni della Corte di legittimità.
28.8 Ne deriva che le censure sollevate da tutti i difensori sul punto relativo alla possibile colpa esclusiva del lavoratore sono prive di pregio, oltre ad essere, ancora una volta, connotate da evidenti affermazioni in fatto che non possono sollevarsi in questa sede.
29. Da respingere poi le censure di omessa motivazione in riferimento alle specifiche censure sollevate dalle difese in sede di appello, avendo anche in questo caso la Corte di merito dato atto delle varie opzioni difensive, esprimendo un giudizio corretto e puntuale, ancorché non analitico che consente di affermare che la Corte di Palermo ha scrutinato tutti i possibili orizzonti ivi compresi quelli prospettai dalle difese.
30. Quanto, poi, alla declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati contravvenzionali sub a), b), c) e d) (per i quali era intervenuta assoluzione nei precedenti due gradi di giudizio di merito) la Corte di merito ha correttamente applicato gli artt. 531 e 129 cod. proc. pen. ritenendo, a ragione, che non vi fossero elementi tali da escludere ad evidenza l'insussistenza dei fatti o la non ascrivibilità di essi agli imputati.
31. Ed infine, con riguardo alle censure afferenti al trattamento sanzionatorio il giudice di appello, in modo implicito, ha operato un bilanciamento in termini di mera equivalenza rispetto alla aggravante contestata, valutando grave la condotta in relazione al livello di colpa ravvisabile in ciascuna delle condotte esaminate. Si tratta di un giudizio corretto e conforme ai criteri dettati dall'art. 133 cod. pen. che in questa sede è esente da censure sul paino della illogicità manifesta come segnalato dalle difese di ricorrenti F.O. ed O.R..
32. Alla stregua delle considerazioni che precedono i ricorsi vanno rigettati. Segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché la condanna, in solido con il responsabile civile FINCANTIERI CANTIERI NAVALI ITALIANI s.p.a. alla rifusione del spese del grado in favore delle costituite parti civili Omissis che si liquidano in € 5.000,00, oltre spese penali ed accessori di legge.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna i detti ricorrenti in solido con il responsabile civile FINCANTIERI CANTIERI NAVALI ITALIANI s.p.a. alla rifusione del spese del grado in favore delle costituite parti civili Omissis che si liquidano in € 5.000,00 oltre spese penali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma il 14 luglio 2016