Categoria: Giurisprudenza penale di merito
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Corte di Appello di Venezia, Sez. 3, 01 febbraio 2017, n. 3417 - Assolti gli ex dirigenti dello stabilimento EVC di Porto Marghera dal reato di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche aggravato dalla verificazione del disastro


 

I giudici della Corte d’Appello di Venezia, da un lato, hanno escluso la sussistenza della circostanza aggravante prevista al secondo comma dell’art. 437 c.p., ritenendo che l’evento non fosse sussumibile nella nozione di disastro delineata dalla Corte Costituzionale e dalla successiva giurisprudenza di legittimità, per difetto sia dell’elemento quantitativo (un evento di proporzioni straordinarie atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi), sia di quello qualitativo (idoneità del fatto a porre in pericolo la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone); dall’altro lato, hanno assolto gli imputati anche dall’accusa di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche per mancanza del dolo richiesto dal primo comma dell’art. 437 c.p.


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte d'Appello di Venezia
sezione TERZA Penale

 

Omissis

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

B.L.

 

nato a Omissi domicilio eletto C/o Avv. Omissis

 

LIBERO, assente

 

Difensore di fiducia Avv. Omissis

 

Difensore di fiducia Avv. Omissis

 


P.C.
nato a Omissis
domicilio eletto C/o Avv. Omissis
LIBERO, presente

 


Difensore di fiducia Avv Omissis

 

Difensore di fiducia Avv. Omissis

 


S.G.B.
nato a Omissis
domicilio eletto c/o Avv. Omissis
LIBERO, assente

 


Difensore di fiducia Avv Omissis

 


B.E.B.F.
nato a Omissis
domicilio eletto C/o Avv. Omissis

 


LIBERO, assente

 


Difensore di fiducia Avv Omissis

 


RESPONSABILE CIVILE: Appellante
EVC ITALIA SPA in persona del legale rappresentate prò tempore
domicilio eletto c/o Avv. Omissis

 


PARTI CIVILI:
MINISTERO DELL'AMBIENTE in persona del ministro prò tempore
domicilio eletto c/o Avvocatura dello Stato di Venezia difensore Avv. Omissis
non appellante
 

 

REGIONE DEL VENETO in persona del Presidente prò tempore
domicilio eletto c/o Avv. Omissis
non appellante

 


COMUNE DI VENEZIA
domicilio eletto c/o Avv. Omissis
non appellante

 


PROVINCIA DI VENEZIA
domicilio eletto c/o Provincia di Venezia
difensore Avv. Omissis
appellante

 


MEDICINA DEMOCRATICA MOVIM. LOTTA PER LA SALUTE
domicilio eletto c/o Avv. Omissis
non appellante

 


W.W.F. ASSOCIAZ. ITALIANA WORLD WILD FUND FOR NATURE
domicilio eletto c/o Avv. Omissis
non appellante

 


APPELLANTI

IMPUTATI, RESP.CIV. E PC Provincia di VE
 

 

Avverso la sentenza del Tribunale Monocratico di Venezia in data 24/10/2003 che così decideva:
visti gli artt. 533, 535 e segg, cpp concesse a B.E.B.F., S.G.B., P.C. e B.L. le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante di cui al cpv. dell'art. 437 cp, così qualificato il fatto contestato sub A), li condanna alla pena di mesi otto di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali.
Pena sospesa e non menzione della condanna per tutti.
Condanna i medesimi e il responsabile civile EVC (Italia) s.p.a., in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle seguenti parti civili: Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio, euro 250.000 oltre ad euro 27.000 + accessori per spese di costituzione; Regione Veneto, euro 40.000 oltre ad Euro 24.000 complessive per spese, Comune di Venezia, euro
40.000 oltre ad euro 31.000 complessive per spese; Provincia di Venezia, euro 47.500 oltre ad euro 14.000 + accessori per spese; Medicina Democratica, euro 40.000 oltre ad euro 33.000 + accessori per spese; WWF Italia, Euro 40.000 oltre ad euro 9.500 + accessori per spese, il tutto oltre al pagamento degli interessi dall'epoca del fatto al saldo e al risarcimento del danno da svalutazione monetaria.
Visto l'art. 530 cpp assolve P.C., B.L. dal capo B) della rubrica per mancanza di prove sulla sussistenza del fatto e dal capo C) per non aver commesso il fatto.
 

 

IMPUTATI
 

 

Capo A)
V.G. - B.E.B.F. - S.G.B. - P.C. - B.L..
Dei reati p. e p. dagli artt. 449-434. 437 c.p. perché nelle rispettive qualità sottoindicate ponevano in essere fatti e comportamenti diretti a cagionare un disastro c omettevano di collocare apparecchiature e segnali idonei a prevenire disastri e infortuni sul lavoro in riferimento alle cause generali e contingenti di cui oltre, anche a seguito dei comportamenti omissivi che verranno segnalati:
1. V.G. nella qualità di presidente del Consiglio di amministrazione della società EVC Italia s.p.a. dal gennaio 1995;
3. S.G.B. nella qualità di responsabile operativo con procura di FYC Italia anche per lo stabilimento di Porto Marghera dall'Ottobre 1996:
4. P.C. nella qualità di direttore dello stabilimento EVC di Porto Marghera dall'Ottobre 1998,
5. B.L. nella qualità di Coordinatore Sicurezza Ambientale e Salute di EVC Italia dal 1991. Assistente sicurezza Ambiente e Salute dello Stabilimento di Porto Marghera dal 18/07/94 e dal Dicembre 1998 coordinatore delle attività di sicurezza di igiene e di ambiente nei due stabilimenti EVC di Ravenna e di Porlo Marghera.
In particolare determinavano in data 8/06/99 un grave incidente presso il reparto CV 22-23 dello Stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera di Porto Marghera (Società E.V.C) incidente che ha avuto inizio verso le ore 17,00 e che è culminato in ripetuti ciclici sfondamenti della guardia idraulica P 705 tra le ore 20.15 e le ore 21.50 (almeno 17) i quali sfondamenti causavano il rilascio in atmosfera attraverso il camino B 701 di circa tremila chilogrammi di C.V.M. e di una quantità di alcuni chilogrammi di percloroetilene per ogni sfondamento della guardia idraulica (entrambe sostanze tossiche e cancerogene) cosi cagionavano pericoli per l’incolumità pubblica.
L'incidente è stato determinato da un concorso di vari fattori quali:
 

 

CAUSE GENERALI :
a) standards obsoleti di progettazione e di mantenimento dell’impianto, compreso il mancato adeguamento alle nuove aumentate esigenze produttive e di sicurezza:
b) una non efficace azione di formazione, informazione e addestramento degli operatori nei riguardi delle esigenze di processo, con particolare riferimento ai problemi di conduzione;
c) un adeguato livello qualitativo della manutenzione, orientata principalmente all'intervento su guasto, in contrasto con le dichiarazioni di politica aziendale contenute nelle procedure;
 

 

CAUSE CONTINGENTI:
d) eccessiva sensibilità della sezione di distillazione ai transitori di avviamento delle sezioni a monte:
e) inadeguata progettazione della sezione di scarico della valvola di sicurezza RV 525:
f) inadeguata capacità della pompa da vuoto G321 a trattare sfiati eccedenti le normali esigenze-funzionali;
g) inadeguata strumentazione e automazione, con conseguente scarsa possibilità di monitoraggio dello stato dell'impianto;
h) errata operatività e inadeguata azione di supervisione nel corso dell'intervento incidentale.
Peraltro, nonostante i gravi problemi citati inerenti all'impianto CV 22 e alla sua manutenzione, l’evento avrebbe avuto conseguenze minime all’esterno dei reparto se la valvola di sicurezza RV 525 non fosse stata inutilmente sovradimensionata o se la pompa da vuoto G321 avesse avuto una maggior portata in questo caso il CVM immesso nel collettore degli sfiati sarebbe rimasto confinato al sistema di impianto e smaltito dal termocombustore.
Analogamente, un adeguato e tempestivo intervento degli operatori in capo e dei supervisori (impreparati, invece, all'evento in questione anche perché lo stesso non era nemmeno stato inserito tra gli scenari incidentali del rapporto di sicurezza) avrebbe comunque permesso di contenere la durata del rilascio a pochi minuti, rispetto agli oltre 90 minuti riscontrati, con una conseguente significativa riduzione della quantità di CVM rilasciata in atmosfera.
L’origine specifica dell'aumento di pressione alla colonna C 504 (la quale separa il CVM dall'acido cloridrico), che ha determinato l'apertura delle valvole di sicurezza, è difficilmente definibile con certezza, a causa della distruzione (come da capo d'accusa che segue) della documentazione relativa alle registrazioni delle attività dei forni, nonché dei parametri operativi delle colonne a monte della colonna C 504 il giorno 8 giugno 1999, registrazioni peraltro chieste dal collegio dei consulenti tecnici nominali ex art. 3600 c.p.p. le cui relazioni del 20/09/99 del 22/11/1999 si richiamano qui esplicitamente.
Peraltro, l'origine dell'aumento di pressione può essere stato dovuto ad una presenza eccessiva di acido cloridrico in ingresso alla colonna C 504 (segno di un malfunzionamento degli impianti a monte della colonna C 504) e ad un completo riempimento con liquido della colonna C 504 dovuto a diversa situazione concomitanti (quali una portata in ingresso alla colonna troppo elevata rispetto alle specifiche di progetto della colonna, che rende il controllo della colorata stessa intrinsecamente più difficile), unito a un malfunzionamento del sistema di controllo di livello della colonna (L1CA 512 + V4> e a una incapacità degli operatori presenti a interpretare correttamente i dati disponibili.
 

 

CAPO B:
P.C. - B.L. - M.D.
indagati per il reato previsto e punito dagli arti. 110-61 nr.2 e 5 -574 c.p. perche, nelle loro rispettive qualità suindicate nonostante il collegio dei consulenti tecnici nominati ex art. 360 c.p.p. avesse loro chiesto il giorno del loro primo sopralluogo in azienda ( il 24 giugno 99) "la registrazione di tutti gli strumenti durante l'incidente" dell' 8 giugno 1999 e ancora più in particolare avesse chiesto anche per iscritto in data 12 luglio 1999 "la registrazione dei parametri operativi delle colonne a monte della colonna C 504 nel giorno dell'incidente" - al fine di trarre in inganno i consulenti tecnici ex art 560 c.p.p. c successivamente il giudice, provvedevano a distruggere o comunque a far distruggere la citata richiesta documentazione, al fine di impedire il completo accertamento dei fatti e in particolare di impedire 1'accertamento del reato di cui al capo che precede, approfittando di circostanze di tempo e di luogo che ostacolavano la pubblica difesa.
In epoca imprecisata tra il 05/06/99 e il 5/08/99
P.C. nella qualità di Direttore dello stabilimento EVC di Porto Marghera
dall'ottobre 1998:


B.L., nella qualità di coordinatore Sicurezza Ambiente e Salute di EVC Italia dal 1991, Assistente Sicurezza Ambiente e Salute dello Stabilimento di porto Marghera dal 18/07/1994 e dal Dicembre 1998 coordinatore delle attività di sicurezza di Igiene e di ambiente nei due stabilimenti E.V.C. di Ravenna e di Porto Marghera;
M.D. . nella sua qualità di capo reparto CV 22-23 di Porto Marghera Dall'ottobre 1998.
 

 

CAPO C
P.C.- B.L. - M.D. - M.G.
Indagati per il reato previsto e punito dall'art. 650 c.p. perché nelle loro rispettive qualità già indicate e per il M.G. nella sua qualità di tecnico di turno presso il reparto CV 22 citato, essendo venuti nell' immediatezza a conoscenza di quanto successo la sera dell'8 giugno 1999 al reparto CV 22-23 e in particolare della immissione in atmosfera tramite camino di più tonellate di CVM non osservavano e non facevano osservare l'ordine legalmente e ripetutamente dato dal Prefetto di Venezia (da ultimo in data 9 Febbraio 1998 e in data 9 Marzo 1999) di informare con immediatezza, tempestività, precisione e completezza, sia per telefono che via telefax la Prefettura di Venezia, i sindaci e le USLL territorialmente interessati dall'incidente in questione, nonché il Comando dei Vigili del Fuoco, se non molto tardi e ad evento ormai concluso.


CONCLUSIONI DELLE PARTI

 


Il Procuratore Generale chiede, previa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 437 comma II c.p. e ritenuta sussistente l’ipotesi di cui all’art. 437 comma I c.p., dichiararsi i reati di cui ai capi A) e C) estinti per intervenuta prescrizione; chiede che sia dichiarata l'inammissibilità dell’appello della Provincia (ora Città Metropolitana) ed accogliersi la domanda risarcitoria del Ministero dell’Ambiente, quanto meno per equivalente, ammissibile poiché ai fatti, antecedenti all’entrata in vigore del codice dell’ambiente, va applicato il previgente art. 18 legge 349/1986; in ordine alle altre richieste risarcitorie delle parti civili si rimette.
L’avvocatura dello Stato per il Ministero dell’Ambiente deposita conclusioni scritte e chiede la liquidazione della nota spese che deposita; chiede non siano esaminati i motivi nuovi introdotti dalla difesa degli imputati con memoria depositata alcuni giorni prima della presente udienza; chiede la conferma delle statuizioni civili di cui al primo grado e la conferma della sentenza di primo grado anche qualora dovesse ritenersi applicabile l’art. 311 del codice dell’ambiente; chiede inoltre sia rigettato il motivo d’appello degli imputati che chiede il rigetto delle domande risarcitorie del Ministero dell’Ambiente in ragione dell’intervenuta transazione intervenuta fra il Ministero ed il responsabile civile; a ciò si aggiunga che la clausola del contratto di transazione ha previsto l’eventuale revoca dell’attuale costituzione di parte civile al verificarsi della condizione sospensiva dell’avvenuto pagamento del risarcimento che non si è verificata. Il difensore di Regione Veneto e Comune di Venezia deposita conclusioni scritte e note spese di cui chiede la liquidazione; chiede la conferma delle statuizioni civili di cui alla sentenza di primo grado anche per assenza di motivi specifici d’appello in ordine alle suddette statuizioni nell’appello dell’imputato B.L. che pure ne chiede il rigetto; in ordine agli altri appelli manca anche la richiesta specifica ed espressa di revoca delle statuizioni civili.
Il difensore della Provincia di Venezia ora Città Metropolitana, chiede l’accoglimento dei motivi depositati ed il rigetto degli appelli degli imputati e del responsabile civile e deposita conclusioni scritte e nota spese di cui chiede la liquidazione.
Il difensore di WWF deposita conclusioni scritte e nota spese di cui chiede la liquidazione chiedendo la conferma delle statuizioni civili di cui alla sentenza di primo grado con rigetto dei motivi d’appello coi quali viene eccepita l’inammissibilità della costituzione di pare civile del WWF ed il suo diritto al risarcimento del danno.
Il difensore di Medicina Democratica deposita conclusioni scritte e nota spese di cui chiede la liquidazione, chiede il rigetto dell’appello della responsabile civile e conferma delle statuizioni civili in favore della parte civile assistita; deposita anche copia della memoria conclusionale e sentenza citata.
Il difensore del responsabile civile si riporta alle memoria già depositata il 9/9/2016 ed alle note d’udienza che deposita in data odierna; chiede venga riformata la sentenza di primo grado; chiede l’assoluzione degli imputati e del responsabile civile perché il fatto non sussiste e in subordine per non avere commesso il fatto; chiede il rigetto dell’appello della Provincia di Venezia parte civile nel presente procedimento. In subordine chiede il rigetto delle domande risarcitorie formulate dalle parti.
Il difensore degli imputati chiede, in riforma della sentenza di primo grado, l’assoluzione per tutti gli imputati e, in estremo subordine, il rigetto delle richieste risarcitorie delle parti civili; deposita note d’udienza.
 

 

MOTIVAZIONE
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

 


Con sentenza in data 24/10/2003 il Tribunale di Venezia in composizione monocratica riteneva B.E.B.F., S.G.B., P.C. e B.L. responsabili del delitto di cui all’art. 437 comma 2 c.p. (così qualificando i fatti originariamente imputati come violazione degli artt. 449 - 434 c.p. e dell’art. 437 c.p.), commesso in Porto Marghera presso lo stabilimento petrolchimico della società EVC, in data 8/6/1999.
Segnatamente B.E.B.F. era chiamato a rispondere quale amministrare delegato di EVC Italia per il PVC-CVM dal settembre 1997, S.G.B. quale responsabile operativo con procura per lo stabilimento di Porto Marghera dall’ottobre 1996, P.C. quale direttore dello stabilimento EVC di Porto Marghera dall’ottobre 1998 e B.L. quale coordinatore della sicurezza ambientale e salute dal 1991, assistente sicurezza, ambiente e salute dello stabilimento di Porto Marghera dal 18/7/1994 e coordinatore delle attività di sicurezza, igiene ed ambiente negli stabilimenti EVC di Ravenna e Porto Marghera dal dicembre 1998.
Il procedimento originava dall’incidente verificatosi F8/6/1999 presso il reparto CV 22-23 dello stabilimento petrolchimico della società EVC in Porto Marghera, consistito, come da imputazione, in ripetuti sfondamenti - almeno 17 - della guardia idraulica P705 ed il conseguente rilascio in atmosfera, dal camino B701, di circa tremila chilogrammi di CVM ed alcuni chilogrammi di percloroetilene per ciascun sfondamento, sostanze tossiche e cancerogene, che cagionavano pericoli per l’incolumità pubblica.
Secondo l’imputazione l’incidente era da ascriversi a cause generali e contingenti. Tra le prime erano ricompresi: a) standards obsoleti di progettazione e di mantenimento dell'impianto, compreso il mancato adeguamento alle nuove esigenze produttive e di sicurezza; b) inadeguata formazione, informazione ed addestramento degli operatori, segnatamente con riferimento ai problemi inerenti la sicurezza; c) inadeguato livello qualitativo della manutenzione, orientata all'intervento sul singolo guasto, in contrasto con le dichiarazioni di politica aziendale esposte nelle relative procedure. In imputazione si richiamava, tra l’altro, il sovradimensionamento di una valvola di scarico (RV 525), l’insufficiente portata d’una pompa da vuoto (G321) e l’inadeguatezza degli interventi d’emergenza posti in essere dagli operatori.
Il complesso percorso motivazionale del giudice di primo grado riguardava:

 

- l’ammissibilità della costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste

 

il giudice ribadiva l’ordinanza emessa all’udienza del 30/10/2002, alla quale si fa rinvio nel dettaglio, con la quale aveva respinto le questioni d’inammissibilità sollevate dalle difese degli imputati, traendo argomenti, per quanto interessa il presente giudizio d’appello, da un lato dalla disciplina di cui all'art. 18 legge 349/1986 istitutiva del Ministero dell’Ambiente (che, nel prevedere una facoltà d’intervento delle associazioni ambientaliste, non escludeva la possibilità d’una loro costituzione a parte civile), dall’altro dall’art. 2043 c.c. (sul presupposto che, in esse, la tutela dell’ambiente, con specifico riferimento anche al territorio di Porto Marghera, assurgeva a scopo statutario e, pertanto, la sua lesione integrava lesione d’un diritto della personalità dell’associazione).
 

 

- la descrizione dell’impianto coinvolto nell’incidente

 

Rinviando nel dettaglio alle pagine da 6 a 9 della sentenza di primo grado, basti ricordare che l’incidente s’era verificato nel reparto CV 22/23 dell’impianto, destinato alla produzione di CVM (cloruro di vinile polimero) e, in particolare, in corrispondenza della colonna C504, l’ultima di un treno di colonne destinate alla purificazione del CVM dall’acido cloridrico, tutte dotate di valvole per l’ingresso - in testa - e per l’uscita - al fondo - dei composti trattati, nonché di meccanismi di sicurezza resi necessari dalla pressione elevata che si sviluppava al loro interno.
 

 

- la ricostruzione delle modalità d’accadimento dell’incidente

 


1) descrizione dell'evento
Anche per la ricostruzione dell’incidente si rinvia nel dettaglio all’esauriente motivazione della sentenza di primo grado (pagine da 10 a 24). In questa sede basta ricordare che:
al momento dell’accensione dei forni di pirolisi si registra un altissimo livello nel fondo colonna C504, rilevato dall’indicatore di livello in sala quadri LICA 512, ritenuto normale dagli operatori; dopo circa un’ora e trenta gli operatori decidono di intervenire mediante la messa in manuale del regolatore di livello, per abbassare il livello fondo colonna;
le registrazioni mostrano in seguito il dato anomalo di un’alta portata in ingresso alla colonna e una bassa portata in uscita dal fondo colonna;
seguono un deciso aumento della pressione in colonna, che raggiunge 7,6 ate, cui segue una brusca diminuzione; l’aumento provoca: l’apertura della valvola di sicurezza RV517 sulla testa della colonna tarata a 5,6 ate e l’apertura della valvola di sicurezza RV525A sulla testa del filtro D505A, tarata a 19 ate; l’apertura delle valvole determina il riversamento, nel collettore degli scarichi gassosi, d’una portata di CVM superiore a quella smaltibile dalla pompa a vuoto G321 verso l’impianto di termodistruzione e, conseguentemente, lo sfondamento della guardia idraulica P705 ed il rilascio di CVM in atmosfera attraverso il camino E10;
gli operatori decidono di procedere all'esclusione del filtro D505A che, se ben compiuta, sarebbe stata adeguata e corretta; l’operazione tuttavia, forse per un fraintendimento dell’operatore, veniva condotta in modo non corretto atteso che, anziché procedere alla completa esclusione del filtro, l’operaio procedeva al suo by pass, chiudendo la sola valvola d’ingresso e non anche quella d’uscita, con la conseguenza che il filtro restava collegato alla colonna ed ancora in pressione;
nonostante i ripetuti sfondamenti della guardia idraulica ed i ciclici riversamenti in atmosfera, protrattisi per circa novanta minuti, solo al cambio turno l’assistente Savi verifica l’effettiva esclusione del filtro, chiude la valvola di uscita e svuota la colonna; aderendo alle conclusioni dei CCTT del PM, il giudice riteneva che la valvola di sicurezza RV525 fosse rimasta aperta dopo il primo sfondamento, col conseguente flusso di fluido, in corrispondenza dei massimi di pressione registrati, fino all’effettiva chiusura del filtro;
2) cause dell’evento
la causa dell’evento viene descritta alle pagine 24 a 39 della motivazione della sentenza di primo grado. Sostanzialmente questa è indicata nel completo riempimento della colonna C504, dovuto a diverse situazioni concomitanti :
- portata in ingresso troppo elevata;
- malfunzionamento del sistema di controllo di livello della colonna LICA512, quanto meno a partire dalle ore 19,30 - l’indicatore aveva manifestato disfunzioni già il 5/6/1999 e, ciononostante, non era stato sottoposto ad alcun intervento di controllo, riparazione o manutenzione;
- malfunzionamento della valvola V4 preposta alla regolazione del prelievo di CVM dal fondo colonna - segnatamente, la manutenzione effettuata sulla valvola V4 dopo l’incidente, evidenziava la presenza di corpi estranei (carbone attivo) che ne occludevano parzialmente la portata passante e ne determinavano l’intasamento;
- incapacità degli operatori di interpretare correttamente i dati disponibili, che deponevano nel senso che il filtro D505A era tuttora collegato nonostante l’ordine di procedere alla sua esclusione; quanto alla causa del protrarsi dell’evento, questa era da ascriversi anzitutto alla staratura della valvola di sicurezza RV525A (che era stata prelevata da un filtro gemello il 5/6/1999 e collocata su quello analogo della colonna C504, senza alcuna denuncia all’autorità competente né collaudo, entrambi ritenuti dal giudice doverosi in base alla normativa vigente - pag. 36 e 37 della motivazione -), valvola che, una volta apertasi al primo episodio di sfondamento, non s’era più richiusa continuando a scaricare CVM nel collettore sfiati.
Gli effetti dell’evento erano stati aggravati anche dal sovradimensionamento della valvola RV525A - il piano per l’ottimizzazione degli scarichi d’emergenza, predisposto dalla società dopo l’incidente prevedeva la sostituzione delle valvole di sicurezza sovradimensionate.

 

- Le condotte omissive ascrivibili agli imputati

 

Il giudice individuava le seguenti condotte omissive:
1) Mancata progettazione e realizzazione, secondo le migliori tecnologie all’epoca disponibili, d’un sufficiente sistema di convogliamento degli sfiati al termocombustore - infatti, se la portata scaricata attraverso la valvola di sicurezza fosse stata completamente aspirata dal ventilatore e inviata al termocombustore, quest’ultimo avrebbe abbattuto il CVM - (si vedano le pagine da 39 a 49 della motivazione);
a. norme di buona tecnica avrebbero imposto di progettare e realizzare una capacità di smaltimento maggiore dell’intero sistema di termocombustione, che potesse far fronte a situazioni di emergenza quali quella verificatasi, da tenersi distinte da quelle veramente eccezionali che, sole, avrebbero consentito lo scarico in atmosfera attraverso lo sfondamento della guardia idraulica;
b. parimenti, norme di buona tecnica avrebbero imposto l’installazione di un serbatoio di emergenza, un polmone che consentisse agli operatori di disporre di maggior tempo per la gestione delle situazioni di emergenza;
c. dopo l’evento la società, nella relazione “minimizzazione degli scarichi di emergenza del CV/22/23 e del CV24” contempla, tra le soluzione alternative, la realizzazione di un serbatoio d’emergenza o di un termocombustore di potenza superiore a circa 20 volte rispetto a quello in essere, soluzione scartata perché ritenuta non percorribile per la mancanza di spazi adeguati;
d. fattori meramente economici non potevano condizionare la scelta delle migliori tecniche disponibili (MTD) nel campo delle misure di sicurezza;
e. il Ministero dell’Ambiente con ordinanza 22/6/1999 emessa in conseguenza dell’incidente di cui si tratta (annullata, solo per un vizio di competenza, dal TAR del Veneto) aveva imposto a EVC tutti gli interventi e le modifiche necessari, ai sensi della direttiva 96/91/CE, ad eliminare o minimizzare gli scarichi di emergenza di CVM;
f. la commissione integrata istituita dal CTR sulle modalità dell’incidente, aveva rilevato che quanto occorso era conseguenza diretta, tra l’altro, anche del dimensionamento dell’impianto di termodistruzione;
g. la commissione istituita con verbale 134, dopo l’evento, per l’esame del piano di interventi straordinari proposto da EVC, aveva ribadito la necessità dell’installazione dei serbatoi blow-down che aumentassero la capacità di contenimento;
h. i consulenti di Medicina Democratica avevano relazionato sulla disponibilità, da decenni, di una sperimentata tecnologia per la realizzazione di siffatti serbatoi;
i. lo scarico in atmosfera attraverso il presidio della guardia idraulica doveva essere progettato in modo tale da potersi verificare solo in situazioni del tutto eccezionali, tale non essendo quella verificatasi - nell’anno precedente s’erano infatti verificati altri due eventi con fuoriuscite di sostanze tossiche, tra cui CVM, in data 28/6/1998 e 12/10/1998, e lo sfondamento delle guardie idrauliche s’era verificato almeno altre tre volte -;
2) mancata verifica della funzionalità dell’impianto dopo il suo potenziamento (pagine da 49 a 56 della motivazione);
a. la sezione di distillazione era stata progettata e realizzata nel 1970, ed era stata calibrata su una capacità produttiva inferiore rispetto a quella attuale, che era stata portata nel 1989 (o nel 1995, la datazione era incerta) da 180.000 t/a a 250.000 t/a;
b. in sede d’approvazione dell’aumento di capacità produttiva, il CTR aveva imposto la revisione delle condizioni di efficienza tecnica, manutenzione ed adeguatezza, revisione che non risultava esservi stata;
c. le oscillazioni di livello verificatesi il giorno dell’incidente non potevano definirsi normali, non essendo riconducibili esclusivamente alle condizioni di avviamento dell’impianto atteso che s’erano protratte per diverse ore;
d. rimpianto prevedeva l’usuale ricorso ad operazioni manuali per il controllo della colonna, ed in particolare per il by-pass della valvola di regolazione prelievo fondo colonna, anziché dispositivi automatici - installati dopo l’evento - idonei ad evitare errori umani, ritardi nell’intervento manuale ed interpretazioni sbagliate dei dati da parte degli operatori - tutte evenienze verificatesi nel caso di specie -;
3) mancata manutenzione dell’impianto (pagine da 56 a 60 della motivazione)
a. nonostante le politiche manutentive di EVC, volte a privilegiare la manutenzione preventiva su quella accidentale a guasto, fossero state ritenute corrette dai CCTT del P.M., tuttavia gli stessi avevano rilevato alcune carenze procedurali di carattere generale, mancando una definizione puntuale degli interventi preventivi ciclici, per sezione di impianto, ed essendo emersi difetti (corrosioni, fessurazioni, manometri ed amperometri non funzionanti, linee di comunicazione tra squadrista ed operatore in campo solo citofoniche) ai quali non s’era posto rimedio;
b. la criticità dello stato di manutenzione era stata rilevata, dopo l’incidente, anche dal CTR della Regione Veneto (verbale 139 del 18/6/1999) e dalla commissione istituita dal Ministero dell’Ambiente;
c. un CT di parte civile aveva stimato che le spese sostenute da EVC per la manutenzione a guasto avevano superato, nel quadriemiio 1996/1999, il 50% della spesa totale annua dedicata alla manutenzione;
d. ad un difetto di manutenzione era ascrivibile causalmente il malfunzionamento, verificatosi anche nei giorni precedenti l’incidente, di alcune apparecchiature coinvolte nell’incidente (LICA512 e filtri D505), al quale non s’era posto rimedio;
e. in un documento di provenienza aziendale, la stessa EVC aveva ammesso l’obsolescenza di alcune importanti apparecchiature;
4) mancata formazione del personale (pagine da 60 a 67)
a. non v’erano riscontri documentali del rispetto delle procedure di formazione in occasione delfinserimento di nuovo personale;
b. non v’erano istruzioni circa i comportamenti da tenere in caso di deviazioni dalle condizioni di normale funzionamento, quali quello accaduto, della sezione di impianto coinvolta nell’incidente;
c. la condotta tenuta dagli operatori al momento del fatto (cattiva interpretazione dei segnali di livello in colonna; manovra errata di by-pass del filtro in luogo della sua completa esclusione, l’incapacità di analisi delle cause dei ripetuti sfondamenti della guardia idraulica) era indicativa di insufficiente formazione;
d. la commissione delegata dal CTR regionale aveva rilevato l’insufficiente preparazione del personale in occasione dell’incidente;
e. l’ultimo rapporto di sicurezza elaborato da EVC prima dell’incidente (edizione dicembre 1996), non considerava la possibilità del verificarsi d’un infortunio quale quello accaduto, né le procedure da adottare da parte degli operatori, e ciò aveva comportato la mancata formazione ed informazione del personale in merito; la previsione di scenari più gravi e catastrofici non garantiva che gli operatori fossero in grado di regolarsi nelle emergenze di minore portata, quale era quella verificatasi.
Alle pagine da 67 a 79 della motivazione il giudice traeva argomenti a sostegno della propria ricostruzione delle cause dell’incidente da alcuni documenti di origine amministrativa:
- nell’anno 1996, nell’istruttoria condotta su un progetto di modifica degli impianti CV22/23 che prevedeva l’aumento della produzione mediante l’inserimento d’un nuovo reattore, il CTR regionale aveva esaminato il rapporto di sicurezza aziendale in funzione di detta modifica, e lo aveva respinto evidenziando la mancata analisi di possibili guasti;
- lo stesso organo aveva poi espresso parere favorevole sul progetto di modifica, nuovamente presentato, condizionato ad una verifica delle condizioni di efficienza dell’impianto esistente - il progetto di variazione dell’impianto era poi abbandonato dall’azienda la quale, pertanto, non aveva proceduto alla verifica richiesta;
- a seguito dell’ispezione condotta dalla commissione istituita dal Ministero dell’Ambiente, il servizio IAR dello stesso Ministero aveva prescritto all’azienda di presentare un programma di mitigazione degli scenari di rischio, capace di ridurre la frequenza degli incidenti prospettati nel rapporto di sicurezza;
- la commissione CTR delegata ad esprimere il proprio parere tecnico sull’ultimo rapporto di sicurezza (edizione 1996), aveva anche proceduto all’analisi delle cause dell’episodio dell ’ 8/6/1999, giungendo alle medesime conclusioni dei consulenti del P.M. e rilevando come, nel rapporto di sicurezza, lo scenario verificatosi non fosse stato contemplato (si veda in particolare la pag. 73 della motivazione);
- con provvedimento in data 22/6/1999, poi sospeso dal TAR per difetto di competenza, il Ministero dell’Ambiente aveva sospeso l’attività produttiva di EVC sul presupposto d’una mancanza di sicurezza degli impianti, tra cui la mancata adozione di misure idonee ad evitare dispersioni di CVM in atmosfera;
- ancora nel luglio del 2002 il gruppo istruttore della commissione VIA, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità ambientale della richiesta di EC di aumentare la capacità produttiva dell’impianto CV22/23, aveva ritenuto che la logica progettuale dell’impianto non garantisse un sufficiente livello di sicurezza in ragione d’un “inadeguato contenimento delle sostanze pericolose, basato su guardie idrauliche che scaricano in atmosfera”.
Conseguenze dell’evento (da pag. 79 a 82 della motivazione)
I consulenti del P.M. avevano stimato la quantità di CVM rilasciata dalla valvole di sicurezza in circa 5.000 kg, di cui 2.100 aspirati dalla pompa e convogliati al termodistruttore, e circa 2.900 scaricati in atmosfera attraverso il camino B701 ad una quota di 140 metri di altezza, questi ultimi pari a 31,2 kg al minuto per un arco temporale di 94 minuti.
La concentrazione massima di CVM ad altezza d’uomo (1,70 metri), nei 15 minuti peggiori, in condizioni atmosferiche neutre (classe D), era stata calcolata in 5 ppm a 470 metri dalla base del camino; nell’arco dei 94 minuti, ad una distanza fra 420 e 800 metri dalla base del camino, vi sarebbe stato superamento di 2 ppm con un valore massimo di 3,7 ppm.
La concentrazione massima di CVM ad altezza d'uomo (1,70 metri), nei 15 minuti peggiori, in condizioni atmosferiche di maggiore stabilità (classe E), era stata calcolata in 7,5 ppm a 570 metri dalla base del camino; nell’arco dei 94 minuti, ad una distanza fra 520 e 1.300 metri dalla base del camino, vi sarebbe stato superamento di 2 ppm con un valore massimo di 5,7 ppm.
Il giudice riteneva che le critiche mosse dal consulente della difesa al modello di calcolo adottato dai consulenti del P.M. fossero generiche ed astratte.
 

 

La condotta materiale ascritta al capo A) dell’imputazione
 

 

Riteneva il giudice fondata l’ipotesi accusatoria di violazione dell’art. 437 c.p..
Il delitto rientrava fra i reati di pericolo e richiedeva una condotta astrattamente idonea a creare una situazione di pericolo (c.d. reato a pericolo presunto) cagionato dalla omissione dolosa di cautele volte a prevenire disastri o infortuni, in particolare dall’omessa collocazione di impianti, apparecchi o segnali a ciò destinati.
Secondo l’elaborazione giurisprudenziale, il bene tutelato era la pubblica incolumità, che non doveva essere intesa come riferita ad un numero rilevante ma, piuttosto, ad un numero potenzialmente indeterminato di persone.
Il giudice verificava quindi quali, tra le carenze strutturali o di conduzione dell'impianto, potessero essere ricondotte alla problematica dei sistemi di sicurezza (pagine da 82 a 96 della motivazione), con la specificazione che il concetto di “destinazione” alla prevenzione di disastri o infortuni non escludeva la riconducibilità alla medesima categoria di quei dispositivi che, se pure non previsti da specifiche disposizioni antinfortunistiche fossero tuttavia, oltre che rilevanti ed utili ad altri fini, anche idonei a garantire la sicurezza:
- valvola RV525: benché installata a protezione di apparecchiature, essa rientrava nel novero dei dispositivi di sicurezza; era stata prelevata da un filtro sporco ed installata senza le necessarie verifiche di funzionalità ed il prescritto collaudo; si era starata al primo episodio di sfondamento; era sovradimensionata;
- sistema di controllo di livello in colonna (indicatore di livello LICA512 e valvola regolatrice del prelievo fondo colonna V4): anch’esso, benché installato a protezione di apparecchiature, rientrava nel novero dei dispositivi di sicurezza (soggetto a normativa di sicurezza ex artt. 234, 374, 244, 247 D.P.R. 547/1955);
10 strumento di misurazione era inaffidabile, non era stato sottoposto a manutenzione ordinaria e riparato; la valvola V4 era parzialmente intasata da depositi di carbone e non era stata sottoposta a verifiche e manutenzioni, al pari del filtro, che nei giorni precedenti aveva manifestato problemi di funzionamento;
- il sistema di raccolta, convogliamento-contenimento e trattamento degli sfiati o scarichi di emergenza, derivanti dall’azionamento dei dispositivi di protezione degli apparecchi a pressione (nel caso di specie il sistema costituito dal collettore degli scarichi gassosi, collegato al camino E10 e presidiato dalla guardia idraulica, nonché dall’impianto di termodistruzione), necessario per evitare la deflagrazione del sistema in caso di eccessiva pressione, rientrava anch’esso fra i dispositivi di sicurezza (soggetto a normativa di sicurezza ex artt. 62 D.P.R. 626/1994 - prescrizione di riduzione del livello di esposizione al più basso possibile, da intendersi come la migliore tecnica disponibile -, 64 D.P.R. 626/1994 - prescrizione di captazione di tutti gli agenti cancerogeni mediante aspirazione localizzata - e 20 D.P.R. 303/1956 - prescrizione di captazione di sostanze diffuse nell’ambiente di lavoro);
- i dispositivi automatici per l’intercettazione rapida dell’alimentazione della colonna, l’isolamento del filtro e lo svuotamento rapido della colonna stessa, mancanti all’epoca dei fatti, rientravano anch’essi fra i dispositivi di sicurezza, non essendo consentito affidare tutta la sicurezza di un impianto pericoloso ad operazioni manuali;
L’obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure in concreto necessarie, anche quelle suggerite dalla buona tecnica, rilevante ex art. 437 c.c., poteva derivare non solo da specifiche disposizioni antinfortunistiche ma, altresì, dalla disposizione dell’art. 2087 c,c..
La necessità del ricorso alla migliore tecnologia disponibile, d’aggiornamento delle misure di prevenzione all’evoluzione della tecnica e d’adeguamento della sicurezza al progresso tecnologico, era posta dal D.Lgs 626/1994.
La giurisprudenza di legittimità aveva poi stabilito che l’obbligo d'adozione delle migliori tecniche disponibili, incontrava il solo limite della loro disponibilità.
Nel caso di specie era dimostrato che in alcuni stabilimenti Montedison era stato adottato un sistema di raccolta, convogliamento-contenimento e trattamento degli sfiati o scarichi di emergenza, derivanti dall’azionamento dei dispositivi di protezione degli apparecchi a pressione, in contenitori tipo blow down.
Quanto ai dispositivi automatici per l’intercettazione rapida dell’alimentazione della colonna, l’isolamento del filtro e lo svuotamento rapido della colonna stessa, questi erano stati installati da EVC in tempi ridottissimi dopo l’evento, mentre una parte di loro era stata prevista da EVC ancor prima dell’incidente, a dimostrazione che i vertici aziendali erano consapevoli della doverosità del loro apprestamento.
Infine, il principio di correlazione fra fatto ritenuto in sentenza ed imputazione non era violato dalla valorizzazione dell’omissione relativa alla mancata installazione d’un adeguato sistema di raccolta, convogliamento e contenimento degli scarichi (termocombustore sottodimensionato, mancanza di dispositivi tipo blow down), trattandosi di questioni implicitamente ricomprese nel capo d’imputazione e, comunque, oggetto d’ampie discussioni in sede dibattimentale e sulle quali gli imputati avevano avuto modo di difendersi compiutamente.
Venendo ai singoli imputati, il giudice riteneva che le omissioni rilevanti fossero loro imputabili in ragione della posizione da essi rivestita all’interno dell’azienda (pagine da 96 a 100):
- P.C. direttore dello stabilimento di Porto Marghera dall’ottobre 1998 con la delega di definire e realizzare gli obiettivi della politica di sicurezza, salute e ambiente, avvalendosi dello SHE manager per implementare tale politica, e delegato alla gestione delle attività tecniche e produttive, con riferimento alle problematiche della sicurezza, degli stabilimenti di Porto Marghera e Ravenna, con facoltà di spesa con il limite di 250 milioni per singolo intervento;
- B.E.B.F. amministratore delegato EVC Italia per il PVC dal 1997, responsabile di tutti gli stabilimenti italiani, con riferimento anche alle problematiche della sicurezza, con poteri di disporre gli investimenti necessari;
- S.G.B. responsabile operativo di EVC Italia anche per lo stabilimento di Porto Marghera dal 1996;
- B.L. coordinatore dell’attività di sicurezza, igiene ed ambiente per tutti gli stabilimenti EVC Italia dal 1991 e, dal 1998, con funzioni di coordinamento per la sicurezza degli stabilimenti di Ravenna e Porto Marghera col compito d’implementarne la sicurezza, alle dirette dipendenze di P.C. - in particolare, la sua qualifica di manager/dirigente, con poteri di indirizzo, di propulsione e decisionali, addetto allo SHE-Site (sicurezza, salute e ambiente), con l’obbligo di riferire al Site-Manager P.C., si evinceva dalla lettera d’incarico, che doveva prevalere sull’organigramma prodotto dalla difesa, ove il B.L. era indicato solo quale addetto al settore SHE senza funzioni manageriali -;
il dolo del reato (pagine da 100 a 103)
Il dolo era integrato dalla coscienza e volontà di omettere le cautele prescritte, di violare l’obbligo giuridico di collocare i dispositivi destinati a prevenire disastri o infortuni, accompagnata dalla rappresentazione dello scopo cui miravano gli accorgimenti omessi e del pericolo derivante dalla loro mancata adozione, senza che occorresse anche l’intenzione di recare danno alle persone.
Verificandosi il disastro o l’infortunio poi, ricorreva l’ipotesi aggravata di cui al II comma dell’art. 437 c.p. - e non quella, colposa, di cui all’art. 451 c.p. -.
Il pericolo per la pubblica incolumità, che non doveva essere necessariamente perseguito non trattandosi d’un elemento costitutivo del reato, era presunto dalla legge nella stessa condotta omissiva sanzionata.
Nel caso di specie:
non poteva ritenersi provato il dolo degli imputati con riferimento alle condotte omissive relative ai malfunzionamenti della valvola RV525 e del sistema di controllo dei livelli in colonna, non essendovi prova che i disfunzionamenti dei giorni precedenti l’incidente fossero stati segnalati al vertice dello stabilimento;
con riferimento a tutte le altre omissioni rilevate, concernenti il sistema di convogliamento e distruzione degli sfiati tossici e i dispositivi automatici di controllo, relative quindi ad elementi strutturali e parti fondamentali dell’impianto, doveva ritenersi sussistente piena consapevolezza in capo agli imputati, anche alla luce dei rapporti tenuti da F.VC con le autorità amministrative competenti, delle sollecitazioni ricevute al miglioramento dell’impianto e dell’ammissione di obsolescenza risalenti a prima dell’incidente.
La nozione di disastro e la qualificazione dell’evento come disastro
(pagine da 103 a 109)
Esponeva il giudicante i due principali orientamenti interpretativi e giurisprudenziali in materia di disastro, l’uno che lo limitava agli avvenimenti di notevole entità e proporzioni, particolarmente gravi e devastanti, connotati da potenzialità diffusiva e che esponessero a pericolo un numero indeterminati di persone (ad es. l’inquinamento da diossina verificatosi a Seveso, il disastro del Vajont e quello della vai di Stava), l’altro che lo estendeva a situazioni di pericolo effettivo per la pubblica incolumità anche nelle ipotesi in cui non ne conseguissero concreti eventi di danno.
L’art. 437 c.p. configurava un delitto di pericolo, che si perfezionava con la semplice esposizione a pericolo del bene giuridico protetto.
Gli eventi disastrosi di cui al II comma dell'art. 437 c.p. non coincidevano necessariamente con la concreta lesione dell’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, ma potevano consistere in effetti materiali che riguardassero la collettività, benché non necessariamente lesivi della pubblica incolumità.
Riteneva quindi il giudice che l’evento disastroso di danno non dovesse necessariamente assumere proporzioni imponenti, ma potesse anche consistere in un evento dannoso che esponesse a pericolo, collettivamente, con effetti gravi o complessi o estesi, un numero indeterminato di persone, benché non produttivo in concreto di danni di rilevanti entità.
Nel caso di specie l’immissione in atmosfera di tre tonnellate di CVM, benché non ne fossero derivati eventi lesivi all’integrità delle persone, aveva prodotto una contaminazione del comparto aria, con conseguente inquinamento d’un bene di primaria importanza per la tutela dell’ambiente e della salute.
La contaminazione aveva interessato l’area a sud della sorgente e, tenuto conto delle condizioni atmosferiche del momento, l’insediamento produttivo a sud del canale industriale, senza raggiungere il centro abitato. La relativa persistenza del CVM (che richiedeva due giorni di tempo per dimezzarsi, degradandosi in atmosfera), aveva aggravato la potenzialità diffusiva.
In punto nesso causale, riteneva il giudice che la corretta installazione dei dispositivi di sicurezza menzionati avrebbe evitato lo scatto delle valvole e la fuoriuscita di CVM dal camino.
Non occorreva poi, ai fini della configurabilità dell’aggravante in questione, che l’evento fosse anche voluto.
Il pericolo per la pubblica incolumità (pagine da 109 a 126)
L’art. 437 c.p. contemplava un reato a pericolo presunto, che richiedeva una condotta astrattamente idonea a creare una situazione di pericolo per la pubblica incolumità. La presunzione normativa di pericolo non ammetteva prova contraria.
Nel caso di specie l’astratta potenzialità del fatto a porre in pericolo l’integrità fisica di un numero, se anche non rilevante, comunque indeterminato di persone, non poteva essere esclusa né, quindi, si versava in un caso di reato impossibile.
Ciò in ragione della pericolosità del CVM, sostanza idonea a produrre effetti tossici acuti nell’uomo a seguito di esposizioni ad alte concentrazioni (superiori a 1.000 ppm), ed effetti cronici a lungo termine, in particolare rischio di tumore.
Gli effetti cancerogeni erano stati riconosciuti sia in ambito comunitario sia nella legislazione nazionale, che classificava il CVM tra i cancerogeni (la cui definizione era rinvenibile nell’art. 2 D.L.vo 52/1997) di categoria 1. Lo IARC (International Agency for Research on Cancer) e l’EPA statunitense (US Envronmental Protection Agency) lo collocavano nel gruppo 1 e A, come cancerogeno accertato.
Era riconosciuta l’associazione fra esposizione a CVM e angiosarcoma ed alcuni studi suggerivano una relazione anche con altri tumori. Ragionevolmente, l’esposizione minima necessaria per indurre l’angiosarcoma del fegato poteva fissarsi fra i 150 ed i 200 ppm di esposizione media per la durata di almeno un anno.
Nel caso specifico, considerando il valore massimo di concentrazione di CVM al suolo secondo la ricostruzione peggiore (7,5 ppm per una durata di 15 minuti, 5,7 ppm per tutto l’arco temporale di 90 minuti), una persona che si fosse trovata sul luogo avrebbe inalato tra i 13,5 ed i 27 mg (o 37 mg, secondo il calcolo sul quale il consulente della difesa prof. M. ha convenuto in sede di controesame).
Si trattava quindi di esposizioni sei volte maggiori rispetto a quella assunta da un lavoratore del CVM esposto a 1 ppm nello stesso arco temporale (otto volte maggiore se si assume il dato di 37 mg).
Il consulente della difesa (prof. M.) aveva rappresentato che, considerando l’ipotesi della dose soglia per gli effetti a lungo termine, in particolare angiosarcoma e fibrosi, nessun effetto dannoso era atteso, mentre, considerando l’ipotesi della mancanza d’una dose soglia, il rischio di effetti a lungo termine era trascurabile, corrispondendo all’insorgenza di 2/5 casi di tumore ogni 100 milioni di persone.
Il giudice esponeva quindi (pagine 115 e 117) i dati scientifici che deponevano per la possibilità dell’assenza d’una dose soglia per il CVM (uno studio dell’EPA statunitense sul CVM citato dal ct del Comune di Venezia; alcuni studi epidemiologici diagnosticati a lavoratori esposti a CVM solo per pochi anni; casi di angiosarcomi in lavoratori esposti a basse dosi ed in lavoratori assunti dopo il 1972; uno studio di Richard Doli dell’anno 1987; uno studio Ward e Bolletta del 2000). In una nota dell’Istituto Superiore di Sanità del 29/1/1999 poi, si assumeva come apprezzabile il rischio cancerogeno per una singola esposizione accidentale di CVM (pag. 117). Lo stesso prof. M. aveva concluso l’esame dichiarando che il CVM poteva essere considerato per convenzione “un cancerogeno senza soglia”, “per il quale il rischio è zero solo a una dose zero”, appartenente a quella classe di sostanze che, proprio in ragione della piccolezza della soglia, nell’ambito della normativa CEE vengono trattate convenzionalmente e prudenzialmente come se la soglia non ci fosse (pag. 118).
Valutando quindi il rischio tumore come non legato ad una determinata soglia, un soggetto che si fosse trovato nel luogo dell’evento avrebbe inalato, nei 90 minuti di durata dello stesso, una dose cumulativa di 37 mg, quantità corrispondente a quella che un soggetto normalmente assume, secondo l’unità di rischio dell’OMS, in 5 anni (pag. 119).
Tenuto conto della normativa italiana vigente all’epoca dell’incidente per l’esposizione professionale, i valori di concentrazione massima di CVM stimati per un periodo di 15 minuti (7,5 ppm) erano di poco inferiori al limite massimo consentito, mentre rispetto alla normativa attuale il valore di soglia risultava superato di 2,5 volte.
Con riferimento poi alla normativa posta a tutela della popolazione in generale e dell’ambiente da emissioni nocive, la normativa antinquinamento italiana (DPR 203/1988 e DM 12/7/1990) stabiliva limiti di concentrazione di CVM di circa 1,95 ppm superati di quattro volte nell’arco temporale di maggiore concentrazione realizzatosi nell’evento. Il limite era applicabile anche al caso di specie, atteso che remissione non s’era verificata per un “guasto” ma, piuttosto, per un’inadeguatezza strutturale dell’impianto. Né poteva escludersi l’astratta possibilità di esposizione all’emissione di individui, non lavoratori, ma facenti parte della popolazione generale, che dipendeva dalle condizioni meteorologiche non preventivabili.
Infine, la scheda sul CVM proveniente dalla Prefettura di Venezia - Ufficio Protezione Civile, nel riportare la dicitura “tossicità moderata. Valore limite di concentrazione per esposizioni di 8h/giomo 400 ppm”, era stata predisposta per gli eventi di rischio di tossicità acuta e, comunque, era palesemente superata.
Il risarcimento del danno
L’alterazione dell’integrità dell’ambiente dovuta alla rilevate fuoriuscita della sostanza per un tempo significativo, la natura tossica e cancerogena del CVM, nocivo per la salute umana, nonostante la transitorietà della compromissione e l’apparente assenza di conseguenze, erano suscettibili di risarcimento, sia ex art. 2043 c.c., sia ex art. 18 legge 349/1986.
La quantificazione del danno ambientale doveva avvenire in via equitativa, ex art. 18 legge 349/1986.
Tra i criteri equitativi normati (gravità della colpa individuale, costo necessario per il ripristino e profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo di beni ambientali), nel caso di specie doveva trovare applicazione quello del profitto del trasgressore (inteso come risparmio di spese dovute), valutato sulla base degli interventi effettuati da EVC dopo l’incidente per adeguare l’impianto, oneri che dovevano essere sostenuti prima anziché dopo l’evento.
Nell’anno 1999 le spese di manutenzione erano ammontate a 1.745.208,57 euro, oltre rivalutazione, e l’azienda aveva sostenuto l’ulteriore spesa di 164.844 euro per corsi di formazione. Considerate le voci di spesa che risultavano relative a interventi manutentivi sicuramente connessi all’incidente, nonché il costo della mancata formazione del personale, il danno ambientale era equitativamente stimato in 200.000 euro (da riconoscersi al solo Stato).
Quanto alla lesione del diritto soggettivo pubblico dello Stato all’integrità del territorio, questo poteva essere liquidato in 50.000 euro per lo Stato.
La lesione del diritto all’immagine e la frustrazione dei compiti di amministrazione, controllo, gestione e programmazione del bene ambiente, subita dai restanti enti territoriali costituiti, andava risarcita con una somma pari a 40.000 euro per ciascuno, oltre a 7.500 euro riconosciuti alla Provincia per spese e costi sostenuti a causa delle condotte degli imputati.
A WWF e Medicina Democratica andavano riconosciuti 40.000 euro ciascuno, a titolo di danno patrimoniale per le spese sopportate per
l’acquisizione di dati, informazioni e di ogni iniziativa intrapresa per contrastare le conseguenze negative delle condotte in imputazione, nonché a titolo di danno non patrimoniale conseguente alla lesione all’immagine ed al diritto alla personalità dell’associazione, sotto il profilo della frustrazione delle finalità istituzionali di protezione ambientale.
 

 

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L’APPELLO DELLA PARTE CIVILE PROVINCIA DI VENEZIA

 


Proponeva appello la Provincia di Venezia, chiedendo la condanna degli imputati e, in solido, del responsabile civile, al risarcimento del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986, per i seguenti motivi:

 

- violazione dell'art. 8 legge 349/1986
 

 

il giudice aveva escluso che la Provincia avesse diritto al risarcimento del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986, attribuito in via esclusiva allo Stato.
L’appellante sosteneva viceversa che una lettura della norma in esame, costituzionalmente orientata alla luce dell’intervenuta modifica del titolo V della Costituzione, consentiva di affermare la legittimazione degli enti territoriali locali alla costituzione di parte civile ed al risarcimento del danno ambientale sofferto, sia pure in presenza di costituzione di parte civile da parte dello Stato, non essendo prevista alcuna legittimazione alternativa o esclusiva.
La tutela ambientale era attribuita sia allo Stato sia agli altri enti territoriali, di modo che doveva essere riconosciuta una legittimazione concorrente ed una concorrente titolarità del diritto al risarcimento del danno.
Il diritto al risarcimento del danno trovava poi la propria fonte normativa non solo nell’art. 18 legge 349/1986, ma anche nella Carta Costituzionale.
La Provincia, alla quale erano attribuite dalle leggi numerose competenze in materia ambientale, aveva subito in conseguenza dell’evento di cui si trattava non solo notevoli danni patrimoniali e non patrimoniali, ma anche danno ambientale, che indicava in euro 125.000 e del quale chiedeva il risarcimento.
 

 

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L’APPELLO DEL RESPONSABILE CIVILE

 


Proponeva appello il difensore (Avv. Omissis) del responsabile civile EVC (European Vinyls Corporation Italia s.p.a.), chiedendo la revoca dell’ordinanza ammissiva delle parti civili e l’assoluzione degli imputati, con le conseguenza in ordine alle determinazioni del danno, per i seguenti motivi:
1) nullità dell’ordinanza emessa dal Tribunale il 30/10/2002
L’art. 18 della legge 349/1986 attribuiva alle associazioni ambientaliste un mero potere d’intervento adesivo, non di costituzione di parte civile, nel processo penale, ex art. 91 e segg. c.p.p..
Medicina Democratica e WWF avevano fondato la loro costituzione di parte civile sull’art. 2043 c.c., che presupponeva la titolarità d’un diritto soggettivo ed un danno diretto ed immediato derivante dal reato.
Ora, lo scopo primario di protezione dell’ambiente delle associazioni non creava di per sé un diritto al conseguimento del loro scopo statutario. Ciò precludeva la possibilità d’una loro costituzione di parte civile.
2) Affermazione della responsabilità degli imputati per il reato di cui al capo A e, quindi, della responsabilità civile di EVC
a) Le modalità dell'accadimento dell'incidente
Si rinvia alla descrizione contenuta nelle pagine da 9 a 12 dell’atto d’appello.
b) Le cause generali dell'evento
- la manutenzione dell’impianto
I consulenti del P.M. non avevano compiuto un’indagine specifica volta a verificare lo stato manutentivo dell’impianto secondo i criteri di valutazione UNI (norme MI6 sulla qualità e fidatezza del sistema di manutenzione);
Alla valutazione negativa dello stato della manutenzione effettuata dal CTR non aveva, in realtà, fatto seguito l’imposizione d’alcuna prescrizione; la richiesta di verifica delle condizioni d'efficienza, avanzata dal CTR nel verbale 134 del 22/4/1999, era finalizzata esclusivamente all’eventuale realizzazione dell’ampliamento dell’impianto, che EVC non aveva però mai realizzato;
i consulenti della difesa, che il giudice aveva ignorato senza motivazione, avevano deposto per la correttezza delle procedure di manutenzione.
- La formazione
Era stata dimostrata per via testimoniale l’esistenza d’una procedura di formazione, informazione ed addestramento degli operatori, che prevedeva anche un periodo d’affiancamento ad operatori più esperti, che la commissione d’indagine nominata dal Ministero dell’Ambiente aveva considerato sostanzialmente valida;
la prova che gli operatori avessero commesso un errore nella gestione dell’emergenza verificatasi non dimostrava una mancanza di formazione;
c) La condotta materiale
- 1 ) l’omessa manutenzione della valvola di sicurezza RV525
La valvola RV525, posta a protezione del filtro D505A, aveva efficacemente svolto le sue funzioni di sicurezza, scattando al raggiungimento del livello di pressione per il quale era stata tarata (19 ate), così impedendo l’esplosione dell’intera colonna;
con riferimento a detta valvola, le omissioni individuate dal giudice attenevano al protrarsi dell’evento, non al suo verificarsi, ed esulavano quindi dall’elemento oggettivo dell’art. 437 c.p.; 
quanto al momento della staratura della valvola, il consulente della difesa (difformemente dai consulenti del P.M., sulle conclusioni dei quali il giudice aveva aderito senza motivazione) aveva esposto che esso era coinciso non col primo episodio di sfondamento, ma solo col sesto, circostanza che avrebbe reso ancor più rilevante Terrore dell’operatore Angi nell’esclusione del filtro D505A;
il sovradimensionamento della valvola era modesto e non anomalo (C.T. F.);
il fatto che la valvola fosse stata prelevata due giorni prima da un filtro sporco e messa a protezione del filtro D505A, non provava che fosse intasata e mal funzionante;
l’installazione della valvola non richiedeva una nuova omologazione; provenendo da un filtro identico non poneva alcun problema di sicurezza;
- 2) l'omessa manutenzione del sistema di controllo del livello di colonna
Il sistema costituito dall’indicatore di livello LICA512 e dalla valvola di regolazione V4 funzionava correttamente, come provato per via testimoniale (testi G. e P.), tanto che gli operatori, ricevuto il primo allarme in sala quadri d’innalzamento di pressione, proveniente dal segnalatore LICA512, aprivano la valvola di regolazione V4, come da procedura; anche al secondo innalzamento allarme vi era stato;
le anomalie nel funzionamento di LICA512 erano sorte solo a partire dalla 19,30 del giorno dell’incidente, né erano ricollegabili alle anomalie annotate sul quaderno di reparto di qualche giorno prima;
la presenza di un’anomalia non implicava la necessità di interventi manutentivi, né un semplice malfunzionamento poteva essere imputabile ad una carenza manutentiva;
quanto alla presenza di grani di carbone nella valvola, non v’era prova né che avesse determinato una riduzione della capacità d’efflusso della valvola medesima, né che preesistesse all'evento; essa dunque non provava una carenza manutentiva che, al contrario, era stata attuata anche nei giorni precedenti;
- 3) l'omesso approntamento del sistema di convogliamento degli sfiati
Il termocombustore era correttamente dimensionato (sul punto il giudice era giunto - senza adeguata motivazione tecnica, a conclusioni opposte, alle quali non erano pervenuti neppure i consulenti del P.M. i quali, viceversa, s’erano concentrati sulla ritenuta insufficienza della portata d’aspirazione degli sfiati al termocombustore);
il sistema di convogliamento degli sfiati al termocombustore, effettuato tramite la pompa G321, era stato progettato correttamente (CT F.), per una portata che utilizzava adeguatamente la capacità di smaltimento del termocombustore medesimo;
Le migliori tecnologie disponibili (BAT - test available techniques) erano, secondo la normativa vigente (Direttiva 96/6ICE in materia di prevenzione all’inquinamento, recepita col D.Lgs. 372/1999), quelle più efficaci in condizioni economicamente e tecnicamente valide nell’ambito del comparto industriale; esse prevedevano che i gas di sfiato venissero inviati al termocombustore nei limiti della capacità di smaltimento del termocombustorc stesso e presupponevano situazioni in cui il flusso dei gas fosse maggiore di quello che il termocombustore potesse trattare; l’impianto EVC era dunque in linea con le BAT, non essendo richiesto il dimensionamento dell’impianto sull’evento eccezionale;
L’ipotesi della realizzazione d’un serbatoio polmone da 50.000 me per raccogliere gli sfiati non trattabili nel termocombustore, formulata dal giudice, costituiva una delle alternative nello studio EVC “minimizzazione degli scarichi di emergenza”, effettuato dopo l’incidente; essa non considerava che lo studio in questione contemplava ipotesi astratte, senza che ne fosse stata verificata la fattibilità; nel caso di specie EVC non disponeva dello spazio necessario alla realizzazione di tale serbatoio (con ciò escludendosi che si trattasse di BAT), e la soluzione effettivamente adottata, approvata dal CTR, era stata un'altra, sempre prevista nello studio, volta all’ottimizzazione dell’impianto;
gli impianti dotati di sistema di raccolta in serbatoi degli sfiati, menzionati dal giudice, avevano caratteristiche dimensionali e di capacità di trattamento incomparabili rispetto all’enorme serbatoio che si sarebbe preteso da EVC; nulla escludeva che lo sfiato mediante valvola potesse essere utilizzato anche in casi d’emergenza, anziché solo in casi di eccezionalità;
4) l'omesso approntamento di automatismi sull'alimentazione, il controllo e il blocco della colonna
Nella dinamica dell’incidente non avrebbe inciso la presenza d’un sistema d’intervento automatico, quale quello propugnato dal giudice, atteso che anche l’operazione di esclusione manuale del filtro avrebbe richiesto pochi minuti;
anche il più elevato automatismo non avrebbe impedito il verificarsi d’un errore umano, trattandosi di apparecchiature pur sempre comandate da un operatore;
d) il pericolo per la pubblica incolumità
Il giudice aveva errato nel considerare il pericolo per la pubblica incolumità quale risultato della condotta omissiva, anziché presupposto per la sussistenza dell’omissione medesima; solo in presenza d’una situazione ambientale effettivamente pericolosa sorgeva l’obbligo di neutralizzarla attraverso l’adozione delle necessarie cautele; nel caso di specie:
- non v’era stata violazione di legge in riferimento alle concentrazioni di CVM:
l’ipotesi di un’esposizione di picco di 7,5 ppm per 15 minuti e d’una esposizione media di 5,7 ppm per l’intera durata dell’evento di 90 minuti eralo scenario peggiore ipotizzato dai CCTT del P.M., in completa assenza di vento;
le concentrazioni erano comunque inferiori ai limiti stabiliti dalla normativa applicabile e non lesive della salute umana; il giudice aveva errato nel calcolare in 37 mg (anziché 27 mg) l’inspirazione complessiva d’un soggetto che si fosse trovato sul posto nei 90 minuti di durata dell’evento, atteso che quel dato si riferiva all’inspirazione ipotizzata assumendo come valore di riferimento non quello medio di 5,7 ppm ma quello massimo di 7,5 ppm;
non era vero poi che erano stati superati i valori massimi di esposizione professionale imposti dalla normativa vigente (DPR 962/1982), atteso che questi si riferivano a valori medi annui (3 ppm) che non dovevano essere superati, e non erano relativi ad episodi di breve durata che, se non superiori a 7,9 ppm, erano ammessi non oltre 1314 volte l’anno per l’intera zona di lavoro (tabella 2 allegata al DPR 962/1982);
la nuova normativa sull’esposizione professionale, successiva all’evento (D.Lgs 66/00 di modifica del D.Lgs 626/1994), aveva introdotto diversi limiti, questa volta calcolati in 3 ppm (7,77 mg/mc) calcolata su un arco temporale di 8 ore, limite che non era stato superato nel caso di specie (0,95 ppm su otto ore);
- la mancanza di effetti cancerogeni del CVM in caso d'esposizione acuta
Il giudice aveva ritenuto che il CVM potesse avere effetti tossici e cancerogeni anche nel caso d’una singola esposizione;
in questo giudizio aveva valorizzato la nota 29/1/1999 del direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, che riferiva di un apprezzabile rischio cancerogeno per una singola esposizione accidentale; si trattava però di un dato non scientifico, che non riportava alcun riferimento statistico né alcuna ricerca tossicologica;
l’effetto tossico e cancerogeno in caso di esposizioni acute era stato escluso dalle agenzie EPA e OSHA;
medesima conclusione si traeva dalla direttiva comunitaria 2003/105/CE, che prevedeva una pericolosità del CVM solo ad alte dosi, croniche e continuative;
gli studi citati dal giudice sulla mancanza d’una dose soglia erano stati contraddetti da studi recenti (pag. 51 dell’atto d’appello); l’osservazione fatta dal CT della difesa prof. M. in dibattimento, sulla mancanza d’una dose soglia, era stata travisata (pag. 52 e 53 dell’atto d’appello);
dalla non pericolosità, in caso di rilascio accidentale, del CVM e dal mancato superamento dei limiti imposti dalla normativa vigente, doveva ritenersi l’insussistenza di pericolo presunto per la pubblica incolumità, la cui sussistenza era necessaria per la configurabilità della violazione dell’art. 437 c.p.;
e) l'erronea qualificazione dell'evento come disastro
Errava il Tribunale nel ritenere che l’evento verificatosi integrasse disastro, ai sensi del II comma dell’art. 437 c.p., concetto nel quale non potevano ricomprendersi eventi privi di danni rilevanti.
Il disastro, secondo la giurisprudenza costante della Suprema Corte, integrava un evento di danno tale da esporre la collettività al pericolo di effetti gravi, complessi ed estesi.
- la nozione di disastro
Nel caso di specie, una “mera contaminazione del comparto aria”, alla quale non aveva fatto seguito alcun effetto lesivo all’integrità fisica delle persona, non integrava la nozione di “disastro” (mancavano, in sostanza, gli elementi che, nel caso Seveso, erano stati indicati come caratterizzanti il concetto normativo di disastro, segnatamente: elevata tossicità delle sostanze, rilevanza della massa fuoriuscita, vastità dell’area contaminata, entità della popolazione coinvolta, danni fisici, pregiudizio economico diretto ed indiretto, sconvolgimento del tessuto sociale, intenso allarme sociale, effetti a lungo termine della contaminazione)
- inesistenza di danno
La commissione istituita dal CTR, con verbale 134/1999, aveva valutato positivamente uno studio di EVC, nel quale erano stimate fuoriuscite di CVM dal camino E10 da 3.600 kg/h a 96.000 kg/h (nel caso di specie il rilascio era stato di 3.000 kg), ritenendo che anche la fuoriuscita massima non determinava il raggiungimento delle soglie di danno al suolo di IDHL ed LC50 per il CVM. Questo studio, che non era stato valorizzato dal giudice di primo grado, si riferiva al pericolo di fuoriuscite in caso di incidente.
In quell’anno poi, nonostante l’incidente, EVC aveva emesso in atmosfera 6928 kg/anno di CVM, quantitativo inferiore a quello annuale autorizzato, pari a 7731,6 Kg/anno.
La direttiva comunitaria 2003/105/CE (c.d. Seveso bis) poi, di modifica della direttiva 96/82/CE, non attribuiva valore al rilascio accidentale di CVM, considerando il pericolo d’un effetto cancerogeno solo per esposizioni continuative e croniche, ad alte dosi.
La dottrina aveva evidenziato che la pericolosità era legata al verificarsi d’alcune condizioni, quali: il trasferimento della sostanza ad altri comparti; l’emissione continuativa di quantità rilevanti, tali da determinare concentrazioni atmosferiche elevate; la persistenza ed il trasporto a lunga distanza. Nessuna di queste condizioni si era verificata nel caso di specie,
f) Statuizioni civilistiche sul danno all’ambiente
- assenza di compromissione ambientale
Il giudice aveva affermato apoditticamente l’esistenza d’una compromissione dell’ambiente (... ha “sicuramente ha prodotto un 'alterazione all’integrità ambientale”), della quale non v’era alcuna prova. Il danno ambientale non era legato alla mera violazione di norme, né poteva essere individuato nella sola fuoriuscita di CVM senza alcuna prova che si fosse verificata un’effettiva compromissione ambientale, che infatti non s’era avuta.
La giurisprudenza citata dal giudice di primo grado (Cass. N. 439 del 19/1/1994), che legava il diritto al risarcimento alla mera immissione di inquinanti oltre la soglia ritenuta pericolosa dalla legge, era contrastata da altra giurisprudenza che, invece, ammetteva il risarcimento solo quando fosse dimostrato un pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività (Cass. 1145 del 14/1/2002; Cass. 25/5/1992).
Anche l’art. 18 della legge 349/1986 richiedeva un danno effettivo all’ambiente.
In ogni caso, l’emissione di CVM non aveva superato alcun limite posto a presidio dell’ambiente e della salute umana, né quindi poteva trarsi un diritto al risarcimento del danno dalla violazione di un limite legislativo che non sussisteva.
- quantificazione del danno da illecito profitto
La liquidazione del danno era avvenuta in via equitativa, secondo il parametro dell’illecito profitto, stimato in base agli interventi effettuati da EVC dopo l’incidente per l’adeguamento degli impianti, spese stimate in euro 2.050.367,34 di cui 1.745.208,57 per manutenzione e 164.844,00 per informazione ed addestramento.
In realtà, la stima aveva considerato le spese sostenute da EVC nel periodo 1998/1999, segnatamente dal 1/1/1998 al 31/5/1999, e non quelle successive all’incidente.
Le spese considerate, anche successive all’incidente, non afferivano tutte a interventi manutentivi ad esso connessi.
Le spese di formazione infine non potevano essere considerate atteso che il giudice non aveva individuato, fra le cause dell’incidente, un difetto di formazione.
- danno di immagine di enti territoriali ed associazioni ambientalistiche
Per giurisprudenza della Suprema Corte, il danno all’immagine presupponeva l’esistenza d’un danno ambientale (Cass. N. 1145 del 14/1/2002).
 

 

§§§§§
 

 

L’APPELLO DEGLI IMPUTATI
Avverso detta sentenza proponevano appello congiunto i difensori di B.E.B.F. (Avv. Omissis), S.G.B. (Avv. Omissis), P.C. (Avv. Omissis) e B.L. (Avv. Omissis) - chiedendo l’annullamento dell’ordinanza ammissiva delle parti civili e l’assoluzione degli imputati con la formula perché il fatto non sussiste o, in subordine, per non avere commesso il fatto - per i seguenti motivi:
1) nullità dell’ordinanza emessa dal Tribunale il 30/10/2002
si rinvia ai motivi analoghi già svolti dal responsabile civile
2) affermazione della responsabilità degli imputati per il reato di cui al capo A
Quanto ai punti sviluppati nei paragrafi denominati:
- le modalità dell'accadimento dell'incidente
- le cause generali dell'evento:
- la manutenzione dell'impianto
- la formazione del personale
- la condotta materiale
- l’omessa manutenzione della valvola di sicurezza RV525
- l’omessa manutenzione del sistema di controllo del livello di colonna
- l’omesso approntamento di automatismi

si rinvia agli analoghi motivi, sostanzialmente non difformi, già svolti dal responsabile civile.
- le singole posizioni personali
Richiamavano gli appellanti il principio di effettività, secondo il quale ciascun soggetto deve e può essere chiamato a rispondere nei limiti della funzione e dei poteri effettivamente svolti, ovvero sulla base delle azioni che ha o non ha compiuto e delle decisioni che ha o non ha preso, avendone l’obbligo e la possibilità (Cass. S.U. 14/2/1992 Giuliani), nonché la facoltà riconosciuta di delegare ad altro soggetto idoneo l’adozione e l’osservanza delle misure di sicurezza, trasferendogli la responsabilità per le eventuali omissioni.
Non poteva poi ritenersi la responsabilità del legale rappresentante e dell’amministratore delegato di un grande gruppo industriale, per un infortunio verificatosi in uno stabilimento periferico che fosse retto da un responsabile dell’unità produttiva che, pur in assenza di delega, fosse dotato di budget del quale potesse disporre autonomamente.
Gli imputati B.E.B.F. (business manager) e S.G.B. (operation manager) operavano entrambi a Bruxelles, avevano competenze in ordine a numerosi stabilimenti EVC e, benché muniti di deleghe, tuttavia la loro posizione sovraordinata non consentiva loro di occuparsi di compiti formalmente e di fatto delegati ai preposti in loco, i quali verificavano lo stato dell’impianto e la sicurezza dei lavoratori.
Dall’organigramma aziendale risultava poi che l’imputato B.L., che non aveva delega di poteri e di spesa, non aveva qualifica di dirigente preposto al settore della sicurezza (SHE manager). La lettera d’incarico valorizzata dal giudice di primo grado, ove si faceva menzione d’una qualifica dirigenziale attribuitagli, non consentiva di superare il dato desumibile dall'organigramma. Il compito di B.L. era solo quella di consulente in materia di sicurezza, salute ed ambiente.
- il dolo
Quanto all’omissione concernente il sistema di convogliamento e distruzione degli sfiati tossici o pericolosi, il sistema era stato progettato e realizzato secondo il parametro delle migliori tecnologie disponibili, per una portata atta a saturare la capacità di smaltimento del termo combustore. Una capacità di smaltimento maggiore non sarebbe neppure stata possibile, mancando una superficie libera sufficiente.
Quanto alla mancanza di un sistema d’intervento automatico, questa non aveva inciso nella dinamica dell’incidente, atteso che l’incidente poteva essere evitato semplicemente seguendo la procedura corretta d’isolamento del filtro D505.
In ogni caso, la realizzazione dell’impianto secondo le migliori tecnologie disponibili escludeva la configurabilità del dolo di cui all’art. 437 c.p..
Non poteva desumersi il dolo del reato dalla presunta inerzia di EVC alle prescrizioni che il CTR aveva impartite con riferimento al progetto di potenziamento dell’impianto, atteso che quel progetto era stato abbandonato e non aveva avuto seguito.
Neppure dal documento denominato “minimizzazione degli scarichi di emergenza”, elaborato dopo l’incidente, potevano trarsi elementi a sostegno della sussistenza del prescritto dolo degli imputati, né che questi avessero, come ritenuto dal giudice, “chiara conoscenza'’’ della pretesa inadeguatezza dell’impianto, né che volontariamente avessero omesso l’adozione delle cautele necessarie.
Dunque non solo mancava volontarietà dell’omissione, ma difettava anche rappresentazione della finalità cui gli accorgimenti presuntivamente omessi erano destinati e del pericolo insito nella loro mancata adozione, che il giudice aveva invece ritenuto in via apodittica e deduttiva.
Il Tribunale poi non aveva considerato le singole posizioni degli imputati né motivato la sussistenza del dolo con riferimento a ciascuno di essi.
- insussistenza del disastro
- asserito pericolo per la pubblica incolumità
si rinvia agli analoghi motivi, sostanzialmente non difformi, già svolti dal responsabile civile.

 

§§§§§
 

 

Veniva proposto separato appello per B.L. (Avv. Omissis) - col quale si chiedeva: l’assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso; in subordine l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato; in ogni caso, la riduzione della pena nei limiti edittali, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante di cui al II comma dell'art. 437 c.p., con massima diminuzione di pena e conversione della pena detentiva nella corrispondente multa ex art. 53 legge 689/1981; l’esclusione delle parti civili, la riforma delle statuizioni civilistiche riconoscendo l’insussistenza di danni patrimoniali e non patrimoniali nonché ambientali o, almeno, la riduzione delle somme liquidate a titolo di risarcimento - per i seguenti motivi:
1) affermazione di responsabilità
A) elemento oggettivo del reato

- la valvola RV525:
era stata correttamente collocata e, pertanto, con riferimento ad essa non si rinveniva alcuna “omissione”;
era scattata regolarmente in funzione preventiva, al raggiungimento della pressione prevista; si era aperta per la prima volta alle ore 20,15, al raggiungimento delle 19 atmosfere previste, e si era poi regolarmente chiusa; la staratura era avvenuta solo al sesto sfondamento della guardia idraulica;
non era sovradimensionata (consulenza F.);
pur essendo stata prelevata da un altro filtro, non doveva essere sottoposta a nuovo collaudo ISPESL, non essendo previsto dalla normativa (circolare 15/85), ed era ancora in periodo di validità;
-l'indicatore LICA 512
almeno fino alle 19 l'indicatore LICA 512 aveva funzionato correttamente, segnalando l’innalzamento della colonna;
gli operai avevano agito correttamente a questa segnalazione, aprendo la valvola manuale V5 per un maggior prelievo dal fondo colonna e reinserendo il sistema automatico quando il segnale di livello era rientrato nella norma;
ancora tra le 19,00 e le 19,30 l’indicatore funzionava regolarmente, tornando a segnalare il 100% di livello, ma gli operai non tornavano ad aprire la valvola LV512;
l’indicatore LICA 512 non funzionava correttamente solo tra le 19,30 e le 20,00;
da ciò doveva trarsi la conclusione che i malfunzionamento dei giorni precedenti, valorizzati dal giudice di primo grado, non rilevavano, atteso che il sistema ha funzionato correttamente almeno fino alle 19,30 - 20,00;
- il sistema di convogliamento degli scarichi: il termocombustore
l’accusa di non avere progettato un termocombustore 20 volte più grande di quello esistente non era stata avanzata da nessuno dei consulenti d’accusa, e neppure dal P.M. nella formulazione dell’imputazione; il P.M. ed i consulenti d’accusa avevano ipotizzato la diversa condotta di non avere progettato il sistema di convogliamento degli sfiati al termocombustore, tramite la pompa G321, nei limiti della capacità di smaltimento del termocombustore; l'affermazione era stata smentita in fatto dal consulente della difesa (relazione F.), senza repliche da parte di alcuno; conformemente alle prescrizioni normative (direttiva 96/61/CE e D.Lgs. 372/1999), il sistema di bruciare tutti gli sfiati ad eccezione di quelli eccedenti la capacità di trattamento del termocombustore corrispondeva alla MTD;
l’accusa d’una inadeguata capacità di smaltimento del termocombustore era stata avanzata per la prima volta in istruttoria, senza peraltro una formale modifica dell’imputazione;
tutti i controlli amministrativi effettuati dagli organi competenti (provincia, regione, Ministero dell’Ambiente, Vigili del Fuoco ecc) prima dell’evento del 1999, non avevano mai riscontrato la necessità d’una siffatta modifica dell’impianto;
dopo l’evento EVC aveva prospettato lo studio di alcune modifiche tecnologiche; tra queste vi era anche quella di un termocombustore 20 volte più grande, prospettata però solo come ipotesi teorica, non fattibile, né le autorità ne avevano richiesta la realizzazione;
- il sistema di convogliamento degli scarichi: il sistema blow down
anche questo sistema, che avrebbe dovuto avere una capacità di 50.000 metri cubi, era stato astrattamente ipotizzato dopo l'incidente nel documento EVC “minimizzazione degli scarichi d’emergenza...”, ed era stato scartato;
i precedenti citati dal giudice, ripresi dalla consulenza di Medicina Democratica, concernevano realtà incomparabili, impianti discontinui di capacità modestissima (a Castellanza, due autoclavi di due litri; a Ferrara sistemi di blow down della capacità di 600 mc);
i dispositivi automatici per intercettare il flusso da C502 a C504, isolare il filtro D505 e svuotare la colonna C504 il flusso da C502 a C504 era stato intercettato regolarmente, con operazione manuale, e non aveva dato problemi di sorta;
se anche vi fossero stati dispositivi automatici, il loro azionamento sarebbe stato rimesso agli operatori i quali, non avendo tenuto conto dell’allarme di alto livello, neppure avrebbero azionato i dispositivi automatici, se fossero stati presenti;
i pochi minuti che si sarebbero guadagnati con un sistema automatico, anziché manuale, d’esclusione del filtro D505, stimabile in due tre minuti, era irrilevante, considerato che i 17 episodi di sfondamento si sono verificati in 90 minuti;
un dispositivo automatico avrebbe in ogni caso dovuto contemplare la possibilità di scelta fra l’operazione di esclusione del filtro D505 ed il suo by-passaggio, scelta che sarebbe stata in ogni caso rimessa agli operatori;
B) elemento soggettivo del reato
Quanto alle pretese omissioni relative alla valvola RV525 e al sistema LICA 512, era stato lo stesso giudice ad escludere il prescritto dolo del reato. Quanto alle pretese insufficienze del sistema di convogliamento degli scarichi (termocombustore ciclopico e sistemi blow down) il dolo richiedeva la rappresentazione, al momento del fatto, dei dispositivi che si sarebbero dovuti collocare.
Le modifiche impiantistiche astrattamente ipotizzate da EVC dopo l’incidente erano il frutto d’uno studio durato 20 mesi, ed era quindi escluso che gli imputati conoscessero i dispositivi che, secondo il giudice, avrebbero dovuto collocare. In ogni caso la durata della loro carica, fino all’evento, era stata inferiore a venti mesi (il tempo resosi necessario per elaborare un piano d'intervento) e, quindi, non sarebbero stati nelle condizioni di impedire l’incidente se anche si fossero accorti subito di difetti impiantistici.
Quanto al dispositivo automatico per intercettare la corrente da C502 a C504, il dolo era escluso dal fatto che non si trattava della migliore tecnologia disponibile.
C) rinnovazione istruttoria
Era necessario sentire nuovamente il consulente della difesa F., in ordine alle MTD in materia di termo combustione e, inoltre, per sapere se il sistema automatico costituisse MTD.
D) errata applicazione dell’art. 437 comma II c.c - evento che non ha interessato lavoratori
l’evento non aveva interessato né lavoratori né soggetti esterni all’ambiente di lavoro.
La tutela apprestata dall’art. 437 I comma c.p. si estendeva solo ai lavoratori, non alla vita o all’incolumità di soggetti estranei al luogo di lavoro (Cass. Sez. I sent. 2541 del 4/5/1998, Dal Corso; Cass. Sez. I sent. 13/12/1996, Graziano).
Il disastro di cui al II comma dell'art. 437 c.p., doveva essere la concretizzazione del rischio che la norma mirava a prevenire, cioè di eventi lesivi a carico di lavoratori, non di persone estranee all’ambiente di lavoro. Qualora solo persone estranee ai luoghi di lavoro fossero state coinvolte, si sarebbe versato al di fuori della sfera applicativa dell’art. 437 c.p..
Nel caso di specie la fuga di CVM non aveva interessato i lavoratori dello stabilimento, tanto che l’istruttoria era stata volta a dimostrare possibili effettivi lesivi solo per gli abitanti della zona circostante.
Si era quindi al di fuori dell’ipotesi di cui al II comma dell’art. 437 c.p..
E) errata applicazione dell’art. 437 comma 11 c.p. - mancanza di disastro
secondo il giudice, nella nozione di disastro andavano estensivamente ricomprese anche “situazioni di pericolo effettivo per la pubblica incolumità, anche nelle ipotesi in cui non ne conseguano concreti eventi di danno”. Le sentenze citate dal tribunale (Cass. Sez. IV sent. 1604 del 27/10/1972; Cass. Sez. IV sent. 2085 del 28/3/1988) attenevano tuttavia ad ipotesi di disastro ferroviario di cui all'art. 450 c.p., norma che incriminava la causazione colposa di un pericolo di disastro e non di un disastro.
Secondo il giudice poi, nei reati contro l'incolumità pubblica, sia di pericolo sia di danno, non si sarebbe richiesta una concreta insorgenza di eventi dannosi dell’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, ragione per la quale non sarebbe stato neppure corretto sostenere che l’evento disastroso si identificasse con quello di proporzioni immani e tragiche. L’evento disastro avrebbe ricompreso, dunque, anche eventi non catastrofici, quale quello verificatosi nel caso di specie con la contaminazione del comparto aria.
Per il giudice, essenziale alla nozione di disastro sarebbe stata solo la creazione di un pericolo effettivo per la pubblica incolumità, pericolo che non doveva però essere oggetto di accertamento positivo, attesa la natura di reato a pericolo presunto dell’art. 437 c.p. (Cass. sent. n. 4118 del 24/5/1986 e altre, riferite, tuttavia, all’ipotesi base di cui al I comma dell’art. 437 c.p. e non anche all’ipotesi aggravata di cui al II comma dello stesso articolo). Secondo il giudice, solo qualora fosse stata dimostrata l’assoluta inidoneità del fatto a porre in pericolo l’integrità fisica di un numero rilevante di persone (nel caso di specie l’assoluta impossibilità di effetti cancerogeni), si sarebbe versato in ipotesi di reato impossibile ex art. 49 comma 2 c.p..
Orbene, l’equazione disastro = situazione di pericolo non era accettabile, atteso che il disastro richiedeva un quid diverso dal pericolo di disastro. L’esame sistematico dei reati contro l’incolumità pubblica, sia dolosi sia colposi, confermava la distinzione fra disastro e pericolo di disastro.
L’art. 437 comma II c.p. richiedeva l’effettivo verificarsi di un disastro in conseguenza della rimozione od omissione dolosa di cautele, non la causazione di un mero pericolo di disastro. Occorreva quindi dimostrare la sussistenza di un evento di per sé disastroso, che non poteva coincidere con un mero pericolo di disastro, pena l’impossibilità di distinguere fra le ipotesi di cui al I ed al II comma dell’art. 437 c.p. e l’assoluta indeterminatezza delle fattispecie penali.
L’art. 437 c.p., a differenza di altre fattispecie di delitti contro l’incolumità pubblica, utilizzava l’espressione “disastro” senza ulteriori qualificazioni (disastro c.d. innominato), ponendo problemi di determinatezza della norma, e punendo in modo indifferenziato l’infortunio (riferibile ad un danno all’integrità fìsica di soggetti determinati), ed il disastro (caratterizzato da una pluralità indeterminata di vittime).
La dottrina aveva indicato che, coerentemente con l’uso linguistico della parola in questione, il disastro dovesse concretarsi in un evento distruttivo, di proporzioni non comuni, a cui si fossero accompagnati danni gravi ed estesi, dal quale fosse derivato concreto pericolo per la vita e/o l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che fosse richiesto l’effettivo verificarsi della morte e/o delle lesioni di una più persone. Il pericolo quindi doveva trarre origine da un evento distruttivo di proporzioni non comuni, necessariamente dannoso almeno per le cose.
Anche la giurisprudenza aveva adottato, nei rari casi in cui aveva ritenuto applicabile questa norma, una analoga nozione di disastro, come nel caso dello scoppio del reattore ICMESA di Seveso (Cass. Sez. IV 23/5/1986 RV 175065), consentendo di escludere avvenimenti di non grandi proporzioni o di grandi proporzioni ma non produttivi di pericolo per un numero indeterminato di persone.
Il disastro doveva dunque anzitutto manifestarsi in un evento distruttivo e dannoso, quanto meno per le cose, caratterizzato da vastità e diffusività di effetti, catastrofico secondo il linguaggio comune.
Il concreto pericolo per l’incolumità fisica di una pluralità indeterminata di persone si concretizzava nella probabilità di eventi di morte o di lesioni, che doveva essere puntualmente accertata caso per caso. Sul punto rilevava che la fattispecie di cui all’art. 437 comma II c.p. non consentiva alcuna presunzione in ordine a detto pericolo, diversamente dal reato di cui I comma dello stesso articolo, che la giurisprudenza dominante riteneva reato di pericolo presunto (interpretazione peraltro criticata dalla dottrina - indicazioni a pag. 40 dell’appello).
Le prove acquisite nel corso del processo di primo grado non erano sufficienti a dimostrare che una sia pur minima emissione di CVM fosse stata sofferta da alcuno, né all'interno né all’esterno dello stabilimento, e neppure che vi fosse stata in concreto una ricaduta di CVM al suolo di entità superiore ai limiti di rilevabilità strumentale.
Senza prova di ricaduta al suolo, non poteva esservi prova di pericolo per l’esposizione umana.
Il giudice aveva fatto ricorso a modelli matematici di dispersione atmosferica, in realtà non applicabili al caso di specie perché fondati su condizioni atmosferiche diverse da quelle reali e, fra tutti quelli disponibili, aveva fatto ricorso a quello più cautelativo, il più lontano dalla realtà concreta di quella sera, considerando il valore più alto di concentrazione che, nel momento di picco, avrebbe raggiunto i 7,5 ppm.
Questo valore era inferiore sia ai 10 ppm di esposizione cronica a CVM, cioè protratta per molti anni, ritenuta soglia di pericolo per la salute dalla Corte d’Appello nel dicembre 2004 nella sentenza relativa al Petrolchimico di Porto Marghera, sia ai 288 ppm di esposizione giornaliera protrattasi per molti anni, ritenuti in studi epidemiologici come soglia al di sotto della quale non si verificano effetti nocivi per l'uomo (letteratura citata a pag. 45). Il giudice aveva poi travisato il pensiero esposto dal consulente della difesa M., traendo dalla sua deposizione la conclusione che per il CVM non vi fosse valore soglia di cancerogenicità. In realtà il consulente aveva detto il contrario, e quindi che soglia vi era per tutte le sostanze ed anche per il CVM (200 ppm di esposizione giornaliera protrattasi almeno per un anno), anche se, per convenzione e precauzionalmente, venivano trattate come se soglia non vi fosse.
Anche il Tribunale di Venezia nel processo del petrolchimico aveva stabilito che il CVM presentava idoneità lesiva neoplastica solo a concentrazioni pari o superiori a 10 ppm.
Questo dimostrava la mancanza, nel caso di specie, di qualsivoglia pericolo per la pubblica incolumità.
Studi epidemiologici (pag. 52) avevano indicato avevano confermato che la dose cumulativa più bassa a cui era stato associato un angiosarcoma era pari a 288 ppm di esposizione giornaliera. Al di sotto di 3 ppm giornalieri non poteva esservi efficienza lesiva.
Il giudice aveva valorizzato una nota dell’istituto Superiore di Sanità del 29/1/1999, in vista del recepimento della direttiva Seveso II. Nella nota si indicava, senza il supporto di bibliografìa scientifica, la verosimiglianza d'un rischio cancerogeno “apprezzabile” per una singola esposizione accidentale di CVM. I consulenti di Medicina Democratica avevano enfatizzato questa nota.
In realtà il Governo, al momento del recepimento della direttiva comunitaria, dopo soli pochi mesi dalla nota dell’ISS, escludeva il CVM dal novero delle sostanze la cui immissione in atmosfera, a seguito di incidente industriale, potesse arrecare rischio cancerogeno o tossico per la collettività (D.Lgs 334/1999). La direttiva Seveso III (2003/105/CE del 16/12/2003) ribadiva la scelta del Governo italiano, ritenendo irrilevante il rischio cancerogeno per emissioni episodiche.
Doveva ritenersi chiarito che il rischio cancerogeno del CVM sussisteva solo per esposizioni ad alte dosi, croniche e continuative.
F) La posizione di B.L.
L’imputato era entrato in EVC col ruolo di SHE/Corporate Italia, vale a dire di coordinamento delle attività di sicurezza (safety - S), igiene (health - H) e ambiente (enviroinment - E) nei 9 stabilimenti italiani.
Il 15/12/1998 era trasferito ai siti di Porto Marghera e di Ravenna con i compiti individuati nell’ordine di servizio a firma S.G.B.: implementazione del sistema aziendale per la gestione della sicurezza, collaborazione col direttore nella gestione dei rapporti con le autorità; sviluppo di un nuovo sistema di gestione ambientale ISO 14001.
In queste funzione avrebbe risposto direttamente al direttore degli stabilimenti di Marghera e Ravenna, P.C..
Il giudice aveva tratto la responsabilità dell’imputato solo dalla qualifica fonnale attribuitagli nell’ordine di servizio (SHF, Manager), senza analizzare i poteri e le funzioni di fatto esercitate. La posizione del B.L. era aggiuntiva rispetto a quelle dei manager titolari delle posizioni di garanzia, ed era volta all’implementazione dei sistemi di gestione, per uniformare i protocolli dei due stabilimenti. Egli andava ad integrare, non a sostituire la figura del SHE Manager, cioè del responsabile di stabilimento per la sicurezza, igiene ed ambiente, che ricopriva anche il ruolo di RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione).
Il B.L. mancava di ogni potere decisionale in termini operativi, operava unicamente in staff, non gli era stata rilasciata alcuna procura operativa né con riguardo all’autonomia gestionale né in merito ad eventuali mezzi finanziari, né esercitava di fatto una funzione operativa.
G) Le statuizioni civilistiche
La legittimazione delle associazioni ambientaliste a costituirsi parte civile non dipendeva solo dall’inserimento, nel proprio statuto o atto costitutivo, di interessi di tutela dell’ambiente, ma occorreva anche la c.d. aderenza al territorio, ossia la presenza storica e continuativa dell’associazione sul territorio. Medicina democratica e WWF non avevano questo radicamento e, quindi, non erano legittimati a costituirsi parte civile.
Quanto al danno ambientale, questo era stato ritenuto sulla base della sola fuoriuscita e degli asseriti effetti tossici e cancerogeni di un rilascio accidentale, senza che vi fosse stata dimostrazione di alcun pregiudizio effettivo.
Non era possibile parlare di danno con riferimento ad un evento che non presentava nessun carattere lesivo.
Il giudice da un lato aveva ritenuto bastevole una condotta potenzialmente idonea a produrre danno, dall’altro aveva fatto ricorso ad espressioni quali “semplice alterazione in una delle componenti ambientali" e “lesione della salubrità dell’ambiente”, che evidenziavano un necessario e concreto pregiudizio al bene ambiente.
Il tribunale non aveva fornito alcuna quantificazione del danno, poiché “le caratteristiche dell'evento non hanno consentito alcun tipo di ripristino né alcuna misurazione, quantitativa o qualitativa, dell’alterazione ambientale". 
Questa impostazione era in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, per la quale la liquidazione del danno ambientale presupponeva la prova d’un concreto pregiudizio alla qualità della vita della collettività di riferimento (Cass. 1145 del 1471/2002 CED 221010).
Nel caso di specie il CVM presentava caratteristiche di persistenza e tempi di dimezzamento in atmosfera da escludere ogni fenomeno di contaminazione degli altri comparti (cfr. pag. 138 sentenza).
Non solo mancava un evento pericoloso dunque, ma era stato ravvisato un danno senza che fosse stata fornita prova dei suoi caratteri costitutivi, ancorando la funzione risarcitoria a semplice pena per violazione di norme legali.
La quantificazione del danno secondo il parametro del profitto poi era errata, avendo il giudice considerato tutte le spese fatte da EVC per interventi manutentivi nei periodo 1998 - 1999, anche se non in relazione alle apparecchiature ed ai dispositivi interessati dall’evento e lontani nel tempo. Le caratteristiche del CVM consentivano d’escludere l’esistenza d’una lesione del diritto soggettivo pubblico all’integrità del territorio, e questo escludeva il diritto al risarcimento dello Stato e degli altri enti territoriali, oltre che degli altri enti costituiti.
Quanto alla lesione all’immagine, questa era risarcibile non autonomamente, ma solo quando fosse riconosciuta l’esistenza d’un danno all’ambiente (Cass. 1145 del 14/1/2002).
Il giudice aveva poi riconosciuto a WWF e Medicina Democratica un diritto al risarcimento delle spese liberamente sostenute dopo il fatto (“per l'acquisizione di dati, informazioni e di ogni iniziativa intrapresa per contrastare le conseguenze negative delle condotte di cui in imputazione”), che non potevano essere assimilate al pregiudizio patrimoniale subito in dipendenza di un fatto illecito.
Anche il danno morale era stato riconosciuto solo per un'affermata correlazione tra il reato e la finalità statutaria dell’ente, senza prova che si fosse verificata un’effettiva perdita, o la lesione, di qualcosa inerente la sfera esistenziale del danneggiato.
 

 

L’APPELLO DELLA PARTE CIVILE PROVINCIA DI VENEZIA

 

Proponeva appello la Provincia di Venezia, chiedendo la condanna degli imputati e, in solido, del responsabile civile al risarcimento del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986, per i seguenti motivi: violazione dell’art. 8 legge 349/1986
il giudice aveva escluso che la Provincia avesse diritto al risarcimento del danno ambientale ex art. 18 legge 349/1986.
L’appellante sosteneva viceversa che una lettura della norma in esame, costituzionalmente orientata alla luce della modifica del titolo V della Costituzione, consentiva di affermare la legittimazione degli enti territoriali locali alla costituzione di parte civile ed al risarcimento del danno ambientale sofferto, sia pure in presenza di costituzione di parte civile da parte dello Stato, non essendo prevista alcune legittimazione alternativa o esclusiva.
La tutela ambientale era attribuita sia allo Stato sia agli enti territoriali, di modo che doveva essere riconosciuta una legittimazione concorrente ed una concorrente titolarità del diritto al risarcimento del danno.
Il diritto al risarcimento del danno trovava poi la propria fonte normativa non solo nell’art. 18 legge 349/1986, ma anche nella Carta Costituzionale.
La Provincia, alla quale erano attribuite dalle leggi numerose competenze in materia ambientale, aveva subito in conseguenza dell’evento di cui si trattava non solo notevoli danni patrimoniali e non patrimoniali, ma anche danno ambientale, che indicava in euro 125.000,00 e del quale chiedeva il risarcimento.
 

 


LA DECISIONE DELLA CORTE
 

 

Ritiene la Corte che l’appello degli imputati e del responsabile civile sia fondato nei termini di cui alla presente motivazione e, come tale, debba essere accolto.
Il primo giudice ha ritenuto gli imputati responsabili del reato doloso di cui all’art. 437 comma II c.p., escludendo quindi la fattispecie colposa di cui agli artt. 449 e 434 c.p., anch’essa rinvenibile nel capo d’imputazione.
Il reato di cui al I comma dell’art. 437 c.p. sanziona con la reclusione da sei mesi a cinque anni “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia.
Al II comma dello stesso articolo si prevede che “se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni".
La fattispecie si delinea dunque come reato omissivo (“omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro”) o commissivo (“ovvero li rimuove o li danneggia"), a condotta vincolata.
Il reato di cui ai I comma è delitto a pericolo presunto, di modo che è sufficiente alla sua integrazione che l’omessa collocazione, la rimozione o il danneggiamento cada su “impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro".
Il reato di cui al II comma è fattispecie di reato aggravato dall’evento, che viene integrata al concreto verificarsi del disastro o dell’infortunio.
Decisivo, ai fini della presente decisione, è stabilire quale sia la nozione di disastro che nel tempo, segnatamente dopo l’emissione della sentenza di primo grado, si è fatta strada nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
La maggiore elaborazione volta a definire la nozione di disastro si rinviene con riferimento al disastro “innominato” di cui all'art. 434 c.p..
La dottrina aveva individuato i seguenti connotati tipologici del disastro “innominato”, mutuati dai disastri “nominati”:
- quantitativo: il disastro deve avere proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani e deve essere atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi;
- qualitativo: deve essere idoneo ad esporre a pericolo la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone;
- concentrazione temporale dell’evento distruttivo: deve essere caratterizzato da repentinità, immediatezza;
- materialità dell’evento distruttivo: l’evento deve avere connotazione materiale ed essere materialmente percepibile.
La sentenza 327/2008 della Corte Costituzione ha fornito l’interpretazione dell’espressione disastro conforme al principio di precisione e determinatezza della legge penale, chiarendo anzitutto che il disastro è “un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto alle altre ipotesi di disastro nominate”. E’ quindi possibile, secondo la Corte Costituzionale, delineare una nozione unitaria di disastro, i cui tratti qualificanti s’apprezzano sotto un duplice profilo concorrente: “da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre eventi dannosi gravi, complessi ed estesi, dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità ”) - un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza peraltro che sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti”.
La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza interpretativa della Corte Costituzionale, con riferimento al disastro ambientale, ha progressivamente abbandonato i requisiti, individuati dalla dottrina, della concentrazione temporale e della materiale percepibilità dell’evento, mantenendo ferme le sole connotazioni quantitativa (proporzioni straordinarie) e qualitativa (idoneità ad esporre a pericolo un numero indeterminato di persone).
Questa evoluzione era già stata preannunciata da un importante arresto della suprema Corte, riguardante il petrolchimico di Porto Marghera: si tratta di Cass. Pen. 4675/2006 rv. 235663 in cui è scritto: “...ma il disastro può anche non avere queste caratteristiche di immediatezza perché può realizzarsi in un arco di tempo molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile e purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità”.
Di recente tale evoluzione giurisprudenziale della nozione di disastro è stata ribadita dalla Suprema Corte, sez. 1, n. 7941/2015 (caso Eternit), la quale, alla luce del pronunciamento della Corte Costituzionale cristallizzato nella sentenza 327/2008, ha affermato che nel disastro innominato possono senz'altro essere ricondotti «non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza (crollo, naufragio, deragliamento ecc.) che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità»”. Nella stessa sentenza si legge come la sentenza della Corte Costituzionale non vale ad escludere dalla nozione di disastro tutti i fenomeni distruttivi prodotti da immissioni tossiche che, come nel caso in esame, incidono altresì sull'ecosistema e addirittura sulla composizione e quindi sulla qualità dell'aria respirabile, determinando imponenti processi di deterioramento, di lunga o lunghissima durata, dell'habitat umano’", (pag. 65-66 sentenza 7941/15, sez. I).
In sostanza, la Suprema Corte ha affermato che anche le esposizioni prolungate alle immissioni di sostanze tossiche nell’atmosfera possono cagionare un disastro, sebbene privo dei caratteri della materialità e dell’immediatezza-repentinità.
Peraltro, dalle parole utilizzate dalla stessa Corte si evince chiaramente che il disastro, per essere tale, deve presentare le caratteristiche di un “macroevento” caratterizzato da “imponenza” sia in termini quantitativi sia qualitativi (deve cioè essere di proporzioni straordinarie e idoneo ad esporre a pericolo un numero indeterminato di persone).
Il percorso motivazionale sviluppato dal primo giudice pare essere il seguente:
- la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. introduce un reato di pericolo ed è posta a protezione della pubblica incolumità;
- il reato non richiede per la sua sussistenza il verificarsi di un effettivo danno (consistente, secondo il primo giudice, nella “lesione dell'incolumità individuale delle persone indeterminatamente considerate” v. fine pag. 104);
- la sola immissione di una sostanza tossica nell’atmosfera causa una “contaminazione del comparto aria” (pag. 107) e integra la fattispecie aggravata, perché idonea ad esporre a pericolo la salute di un numero indeterminato di persone.
La sentenza di primo grado non sembra corrispondere all’ultima evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte sulla nozione di disastro penalmente rilevante, discostandosi infatti dall'orientamento giurisprudenziale, successivamente delineatosi con maggiore chiarezza, secondo cui il disastro deve essere connotato da proporzioni imponenti o drammatiche.
Il Tribunale cita esempi (pag. 106) in cui la Suprema Corte ha ritenuto integrale alcune fattispecie di disastro - nominato - anche per eventi non gravi, complessi ed estesi e neppure idonei ad esporre a pericolo l'incolumità di un numero elevato di persone.
Ora, è vero che il disastro di cui al 437 comma II c.p. non richiede la lesione dell’incolumità individuale di una pluralità di persone, essendo sufficiente l’esposizione a pericolo.
Tuttavia, nei casi in cui il disastro è causato dall’immissione nell'aria di sostanze tossiche, tale immissione, secondo i criteri interpretativi del disastro innominato fomiti dalla Corte Costituzionale, deve essere comunque tale da innescare un imponente processo di deterioramento dell’aria (dato quantitativo) e l’esposizione a pericolo per la salute che ne consegue (dato qualitativo) deve essere accertata in concreto.
Dunque, se da un lato il superamento dei caratteri di immediata percepibilità e repentinità del disastro ha consentito di ampliare il novero dei disastri includendo anche immissioni nell’aria di sostanze tossiche/oncogene a lunghi effetti, dall’altro, una lettura costituzionalmente orientata della disposizione e aderente al principio di determinatezza, impone di vagliare con attenzione se, nel caso in esame, sussistono sia l’elemento quantitativo (cioè le proporzioni straordinarie atte a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi) sia quello qualitativo (idoneità ad esporre a pericolo l'incolumità di un numero indeterminato di persone).
Gli esempi citati dal Tribunale (pag. 106, in cui sono citati precedenti datati, rispetto ai quali la Cassazione ha ritenuto integrata la fattispecie anche nel caso di rovesciamento di avaria di un gommone con poche persone a bordo), non sono calzanti con riferimento al disastro innominato, perché non si confrontano con la - successiva - giurisprudenza secondo la quale, perché il disastro innominato sia compatibile col principio di determinatezza, è necessario che presenti le caratteristiche che, sempre secondo il giudice delle leggi, connotano tutte le fattispecie di disastro nominato (caratteristiche individuate dalla Corte Costituzionale nel dato quantitativo e qualitativo). Nel caso di specie sembrano difatti mancare entrambi gli elementi:
1) dato quantitativo:
L’evento, del tutto transitorio, non ha avuto né durata né proporzioni straordinarie, non era atto a produrre effetti gravi, complessi ed estesi, è stato estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio, con concentrazioni che non hanno compromesso in misura grave, complessa ed estesa l’ambiente circostante.
In generale, anche la persistenza della dannosità della sostanza nel tempo (c.d. emivita) concorre alla qualificazione dell’inquinamento come evento di proporzioni straordinarie. Il prof. M. (CT difesa), stima (v. stenotipico udienza 6.11.2002 in faldone 5) che l’emivita del CVM sia di circa 20 ore. Il P.M., invero, contesta che secondo alcuni studi scientifici l’emivita sia di 4 giorni (v. pag. 77 stenotipico udienza 5.2.2003). In entrambi i casi si può osservare che non si tratta di un’emivita che si protrae per tempi particolarmente lunghi.
Il Tribunale riporta a pag. 117 della motivazione uno stralcio della lettera dell'ISS allegata alla relazione dei consulenti di parte civile Omissis (faldone 9) laddove si legge, in sostanza, che la cancerogenicità di una sostanza va apprezzata anche in relazione alla sua capacità di creare scenari di esposizione cronica a basse dosi di una popolazione vasta. Tuttavia, da quella lettera non emerge affatto che il riferimento riguardi espressamente il CVM. In altri termini, quella lettera, pur citata dal Tribunale, non dice che l’esalazione di CVM nell’atmosfera è idonea a compromettere l’ambiente per un lungo periodo di tempo.
2) Dato qualitativo (idoneità del CVM ad esporre a pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone).
Sul punto sembra abbastanza chiaro il contenuto della lettera dell’ISS, che pur affermando, come rilevato dal Giudice in motivazione (p. 117), che il rischio per esposizione a CVM è apprezzabile, afferma anche che il quesito sulla capacità cancerogene delle sostanze per esposizioni ad alte dosi di breve durata è di attualità scientifica e non consente allo stato una risposta certa.
Sembra dunque fondata la tesi difensiva secondo cui, in sostanza, manca una legge di copertura scientifica che sia in grado di stabilire una relazione astratta tra esposizione intensa e di breve durata al CVM e insorgenza di malattie, segnatamente oncologiche.
Se manca una legge di copertura in grado di stabilire una relazione scientifica tra i due fenomeni (esposizione di breve durata a CVM e tumore), si può giungere alla conclusione secondo cui manca la prova che, nel caso concreto, la fuoriuscita di CVM abbia esposto ad un qualche rischio l’incolumità di un numero indifferenziato di persone.
L’ISS svolge la funzione di compiere valutazioni volte a prevenire l’esposizione a sostanze che sono potenzialmente tossiche (di cui in futuro si potrebbe scoprire la tossicità anche per esposizioni di breve durata in elevate concentrazioni), ma tale valutazione si basa sul principio di precauzione, cioè su una condizione di rischio non scientificamente suffragata, e non su una legge scientifica certa che sia in grado di stabilire l’effettiva dannosità del CVM per esposizioni brevi ma intense.
L’individuazione di una legge di copertura che consenta di stabilire un nesso tra un certo fattore e un evento è un presupposto imprescindibile per verificare l’esistenza del nesso di causalità nel caso concreto (teoria della causalità scientifica).
Ad ulteriore conferma della assenza di basi scientifiche certe circa il tasso soglia, superato il quale una singola esposizione a CVM crea un effettivo pericolo per la salute, si legga la scheda dell’Inventario Nazionale delle sostanze chimiche per il CVM agli atti, in cui si afferma che: “l’esposizione professionale a CV (per inalazione) si è abbassata dai livelli dell'ordine delle centinaia di ppm, con picchi di diverse migliaia, dei primi anni ’70, a livelli intorno a 1 ppm. Sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli dì esposizione sicura per i cancerogeni genotossici, l’evidenza presentata nel rapporto dell’ECETOC non indica che l’esposizione professionale ai livelli attuali, in conformità con il limite di 3 ppm stabilito dalla CEE, presenti alcun rischio significativo per la salute."
La normativa di riferimento al momento del fatto era il D.P.R. 962/1982, che prevedeva, per il rilascio di CVM in ambiente, determinati limiti:
1) un valore limite tecnico di lunga durata (VLTLD) pari a 3 ppm: che non doveva essere mai superato dalla concentrazione media del CVM nell’atmosfera di una zona di lavoro, integrata rispetto al tempo nell’arco di un anno, tenendo in considerazione soltanto le concentrazioni misurate nei periodi di attività degli impianti e per la durata di tali periodi (i periodi di allarme non sono presi in considerazione).
2) valori limiti tecnici di breve durata (VLTBD) pari a 7 ppin su otto ore, a 7,6 ppm su un’ora, a 7,9 ppm su venti minuti.
Sul punto, il CT PM Macchi Giorgio, udienza del 30.10.2002 in faldone 5, pag. 5758, ha affermato che, a fronte d’una massa di circa 2.900 kg di CVM rilasciata nell’atmosfera nell’arco di un’ora e mezza, sulla base dei due modelli (Phast e Breeze) utilizzati, il livello di PPM, considerando i 15 minuti peggiori, è stato di 7,5 o 5,7, come risulta dalla seguente tabella:

 

 

Classe di stabilità

Valore medio sui 15 minuti

Valore medio sull'intera durata (90 Min)

PHAST

 BREEZE

PHAST

BREEZE

D Minore stabilità atmosferica

Superati 2 ppm tra 420 e 1000 metri, con max di circa 5 ppm a 470 metri

Costantemente inferiore a 0,25 ppm

Superati 2 ppm tra 420 metri e 800 metri, con max di circa 3,7 ppm a 470 metri

Costantemente inferiore a 0,15 ppm

E Maggiore stabilità atmosferica

Superati 2 ppm tra 500 e 1600 metri,  e 5 ppm tra 500 e 800 metri, con max di circa 7,5 ppm a 570 metri

Costantemente inferiore a 0,25 ppm

Superati 2 ppm tra 520 metri e 1300 metri  e 5 ppm tra 520 e 600 metri, con max di circa 5,7 ppm a 570 metri

Costantemente inferiore a 0,05 ppm

 


Anche assumendo i risultati peggiori esposti nella tabella sopra riportata, legati ad una - non certamente dimostrata nel caso di specie - maggiore stabilità atmosferica, ed anche optando per il modello di calcolo meno favorevole agli imputati (PHAST), e non per l’altro (BREEZE) in base al quale i parametri sono ampiamente rispettati, resta il fatto che i valori di concentrazione di PPM in atmosfera successivi al rilascio di CVM hanno determinato livelli di esposizione inferiori ai VLTBD (valori limiti tecnici di breve durata) ammessi dalla normativa all’epoca vigente e, del tutto verosimilmente, di pochissimo superiori a quelli di cui al D.Lgs. 66/2000 successivamente entrato in vigore e menzionato dal primo giudice.
Non solo la fuoriuscita di CVM non ha cagionato malori o effetti tossici acuti, ma non v’è neppure certezza alcuna che abbia determinato un concreto pericolo per la pubblica incolumità e la salute pubblica, pericolo concreto che, viceversa, costituisce l’oggettività dell’evento disastro di cui al II comma dell’art. 437 c.p..
Non ricorre dunque, già sotto il profilo oggettivo, la fattispecie di cui all’art. 437 comma II c.p..
L’insussistenza d’un effettivo disastro nei termini delineati dalla superiore giurisprudenza di riferimento, assorbe la problematica dell’eventuale diversa qualificazione del fatto, dal reato - esclusivamente doloso - di cui al II comma dell’art. 437 c.p., alla diversa fattispecie - colposa - di cui agli arti. 434 e 449 c.p. che presuppone anch’essa il verificarsi d’un evento qualificabile come disastro avente le connotazioni sopra indicate.
La Corte territoriale si pone quindi la questione se possa ritenersi integrata la violazione dell’art. 437 comma I c.p..
L’art. 437 comma I c.p. descrive una fattispecie di reato doloso omissivo proprio (sulla qualificazione v. p. 322 Cass. Pen. 4675/2006), a forma vincolata.
Sul piano dell’elemento soggettivo, l’art. 437 comma I c.p. è un reato doloso, con la conseguenza che il giudice deve accertare, come negli altri reati omissivi propri, i seguenti elementi (così secondo la dottrina):
- conoscenza della situazione tipica cui la norma collega l’obbligo di agire;
- rappresentazione del presupposto di fatto che attiva tale obbligo;
- rappresentazione della possibilità di agire, cioè di compiere l’azione doverosa;
- volontà dell’omissione, cioè di non compiere l’azione doverosa.
Sono 4 le omissioni, astrattamente rilevanti ex art. 437 comma I c.p., rilevate dal primo giudice:
1. valvola RV 525 scattata correttamente in funzione preventiva (pag. 84 motivazione) ma subito starata perché sovradimensionata e installata senza la verifica di efficienza e funzionalità e senza i prescritti collaudi;
2. sistema di controllo del livello in colonna, costituito dall’indicatore di livello LICA512, inaffidabile sia dal punto di vista della capacità di misurazione sia a causa dell’omessa manutenzione doverosa;
3. omesso approntamento d’un sufficiente sistema di convogliamento degli sfiati;
4. omesso approntamento di automatismi nel funzionamento dell’impianto.
Quanto alle prime due omissioni, tuttavia, è lo stesso Tribunale ad escludere la sussistenza del dolo, non emergendo “alcuna prova precisa e concreta che le anomalie e i malfunzionamenti riscontrati, anche nei giorni immediatamente precedenti l’evento sulla valvola di RV525 e sul sistema di controllo dei livelli in colonna fossero state segnalate o comunicate al direttore dello stabilimento, P.C., né tantomeno al business manager ...e all’operation manager...; né, del resto, che gli stessi ne fossero venuti comunque a conoscenza”.
Prosegue condivisibilmente il primo giudice che "... le carenze e le inefficienze dì carattere generale...nella politica manutentivo adottata di fatto dalla società, pur stigmatizzabili, non possono certo equivalere a consapevole omissione della singola, specifica manutenzione sul singolo apparecchio o impianto, né se ne può desumere la prova certa della sussistenza in capo ai suddetti imputati, del dolo richiesto dalla norma.
Con riferimento alla terza ed alla quarta omissione, il Tribunale ritiene la sussistenza del dolo, venendo in considerazione “elementi strutturali e parti fondamentali dell’impianto, la cui configurazione tecnica non poteva certo essere ignorata dal direttore dello stabilimento o dai responsabili tecnico-amministrativi della produzione del CVM-PVC. ... un conto è ritenere verosimile, in mancanza di prove positive e concrete del contrario, che i vertici tecnici di un’azienda di vaste dimensioni ignorassero le puntuali disfunzioni di singole parti di un impianto complesso, altro è sostenere che non conoscessero la conformazione dell’impianto stesso” (pag. 102 motivazione).
Più precisamente, il dolo in ordine alle omissioni 3) e 4), è desunto dal Tribunale dai seguenti indicatori:
a) complessivo comportamento di inerzia, in particolare di inottemperanza alle prescrizioni imposte, tenuto dall’azienda nei riguardi dei vari interventi attuati dalle competenti autorità amministrative già in epoche antecedenti all’evento de quo;
b) alcuni interventi erano stati programmati già prima dell’evento mentre altri furono effettuati dall’azienda subito dopo l’incidente e, almeno in parte, senza preventive, specifiche richieste sul punto da parte dei competenti organi amministrativi;
c) EVC aveva presentato un piano di intervento dettagliato e corredato di studi tecnici subito dopo l’evento del giugno 1999, con ciò vieppiù dimostrando di avere chiara conoscenza delle caratteristiche attuali dell'impianto e della sua inadeguatezza.

Va detto che le considerazioni del primo giudice in ordine alla realizzabilità in concreto d’un mega serbatoio, mutuato da altre e ben diverse esperienze aziendali, capace di contenere tutte le emissioni provenienti dall’impianto anche in caso di incidenti, al pari di quelle in ordine alla fattibilità tecnica d’un sistema di convogliamento degli sfiati che, in una situazione d’emergenza quale quella di cui si tratta, fosse in grado di captare e convogliare tutte le emissioni sovrabbondanti anziché liberarle in atmosfera, non paiono sorrette da sufficiente pregnanza scientifica, anche alla luce delle deduzioni difensive.
Cosi come non è del tutto convincente il ragionamento controfattuale che il versamento in atmosfera non si sarebbe verificato se si fossero approntati sistemi automatici di funzionamento.
Il problema di fondo resta comunque quello di capire se il mancato adeguamento degli impianti, eventualmente anche nel senso suggerito dal giudice, integri una condotta omissiva dolosa rilevante ai fini del 437 comma I c.p.
C’è un dato che sembra di difficile superamento: nel verbale n. 93 del 25.3.1997, la CTR ha espresso un parere in ordine al progetto di potenziamento di produzione di CVM predisposto e inoltrato precedentemente da EVC; in tale verbale (pag. 11) il nulla osta al potenziamento viene subordinato all'osservanza di alcune prescrizioni; tuttavia, indipendentemente dalla questione dell’ampliamento dell’impianto, nel punto 2) la CTR prescriveva che “venga attribuita una giusta rilevanza e priorità agli interventi in grado di migliorare le condizioni di sicurezza e ambientali dell’impianto nella sua attuale configurazione”, descritto come “impianto con livello di rischio intrinseco, ancorché compensato, significativo"; nello stesso documento si legge anche che “in considerazione della particolare tecnologia non sono disponibili linee guida applicabili...". Ora, se si considerano da un lato la mancanza d’una evidenza scientifica di fattibilità e/o decisività delle soluzioni proposte dal Tribunale, dall’altro l’assenza di una qualsivoglia concreta prescrizione impartita prima del verificarsi dell’incidente, sufficientemente dettagliata, eventualmente in qualche modo sovrapponibile alle condotte positive che il primo giudice ha ritenuto omesse, pare a questa Corte che si versi in un ambito al più colposo, ma certamente non doloso, difettando i requisiti della rappresentazione della possibilità di agire, cioè di compiere l’azione doverosa, e della volontà dell’omissione, cioè di non compiere l’azione doverosa.
Si versa dunque al di fuori del campo d’applicazione dell'art. 437 comma I c.p..
Quanto all’art. 449 c.p., come già scritto, la fattispecie dell’omissione di cautele colposa non è concretamente perseguibile, richiedendo che la condotta colposa cagioni un disastro, da escludersi per le ragioni sopra esposte.
Gli imputati vanno assolti dal reato loro ascritto, nonostante l’ormai intervenuta prescrizione del reato, perché il fatto non sussiste.
Vanno revocate le statuizioni civilistiche.
La complessità delle questioni affrontate giustifica un maggior termine per il deposito della motivazione.
 

 

P.Q.M.

 


Visto l’art. 605 c.p.p. in riforma della sentenza emessa il 24/10/2003 dal Tribunale di Venezia nei confronti di B.E.B.F., S.G.B., P.C. e B.L., appellata dagli imputati, dal responsabile civile EVC Italia s.p.a. e dalla Provincia di Venezia, assolve gli imputati dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste.
Revoca le statuizioni civilistiche.
Riserva motivazione in giorni novanta 1.
Venezia 6/10/2016