Cassazione Penale, Sez. 4, 22 settembre 2017, n. 43833 - Caduta dal solaio durante il lavoro di posa di lastre non autoportanti. Responsabilità del datore di lavoro


 

 

 

 

 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: DI SALVO EMANUELE Data Udienza: 06/06/2017

 

 

 

Fatto

 


1. G.M.M. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen perché, in qualità di datore di lavoro di S.L., per colpa consistita in negligenza imprudenza e imperizia, consistita nel consentire l'esecuzione di lavori sopra la copertura di un edificio in costruzione senza prima accertare che le lastre avessero resistenza sufficiente per sostenere il peso dell'operatore e dei materiali; nel redigere un piano operativo di sicurezza senza individuare le misure preventive e protettive da adottare, in particolare senza predisporre un'idonea armatura del solaio, attraverso il puntellamento dell'impalcato, cagionava al S.L., che cadeva dal solaio, da un'altezza di metri 3,4, a seguito della rottura di una lastra, lesioni personali da cui derivava una malattia della durata di oltre 40 giorni.
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché l'impresa aveva predisposto un'apposita procedura di sicurezza, firmata, per ricevuta, anche dall'infortunato, con analitica spiegazione delle attività, dei rischi e delle cautele da osservare. Tale procedura, se osservata, avrebbe sicuramente evitato l'infortunio, prevedendo l'obbligo di realizzazione di una robusta struttura di supporto alle lastre. Ma il rispetto di tale regola cautelare doveva essere preteso in loco dal preposto, che era stato regolarmente nominato e che, pur essendo un esperto qualificato, si comportò in maniera negligente, non comunicando al lavoratore le specifiche di montaggio. È d'altronde irrealistico ritenere che il datore di lavoro, che ha numerosi cantieri da seguire contemporaneamente, possa vigilare continuativamente sull'adozione delle misure antinfortunistiche da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori.
2.1. Il giudice di primo grado ha riscontrato, a carico dell'imputato, il solo profilo di colpa rappresentato dalla scelta di un preposto rivelatosi gravemente negligente. La sentenza è stata impugnata dal solo difensore, ragion per cui sugli altri profili di colpa si era formato il giudicato. Dunque la questione relativa alle asserite carenze del POS, avendo il giudice di primo grado riconosciuto che la procedura operativa c'era, era idonea ed era stata resa nota al lavoratore, non poteva più essere posta a fondamento di una declaratoria di responsabilità.
2.2. La Corte d'appello ha errato nel non ritenere abnorme la condotta del lavoratore, che, dopo avere posato regolarmente le prime quattro lastre prefabbricate, ha collocato la quinta e vi è quindi imprudentemente salito sopra, nonostante potesse operare tramite telecomando, senza alcuna necessità di salire sulle lastre .
2.3. Ingiustificatamente non è stata concessa la prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche e non è stata applicata la sola pena pecuniaria, nonostante l'incensuratezza, la giovane età, il corretto comportamento processuale e l'avvenuto integrale risarcimento, di 150.000 euro. L'entità del danno non è poi ostativa alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria e l'effetto deterrente non è affatto uno dei criteri menzionati dall'art. 58 l. n. 689 del 1981.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva "tenuta", sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6 , n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez . 5, n. 32688 del 5-7¬2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).
1.1. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato, da un lato, l'assenza di indicazioni precise nel POS circa lo specifico rischio correlato alla non calpestabilità della soletta in allestimento; dall'altro, l'omessa informazione del lavoratore sul fatto che le lastre, alla cui posa era stato adibito, non erano autoportanti e che pertanto egli non avrebbe dovuto, per nessuna ragione, salirvi sopra, così come indicato chiaramente nella tavola di progetto fornita dalla Co.Ce., su richiesta della srl "Dremar", tavola che era rimasta inutilmente depositata negli uffici della società, senza essere portata in cantiere e consegnata al lavoratore, si da poter fornire informazioni complete circa il lavoro da compiere e i rischi ad esso correlati. D'altronde - precisa il giudice a quo - l'affidamento sulla professionalità del preposto, desumibile dal titolo di studio e dall'esperienza maturata presso la "Dremar" dal 2001, non può valere ad esonerare il G.M.M. dalle responsabilità correlate alla posizione di garanzia rivestita, in considerazione della carenza di indicazioni nel POS circa le misure preventive da adottare per evitare il rischio specifico concretizzatosi con la salita del lavoratore sulla soletta in allestimento, che avrebbe dovuto essere armata per divenire calpestabile, nonché del mancato adempimento dell'obbligo di informazione del lavoratore su tale pericolo.
L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
2. Nemmeno il secondo motivo di ricorso può trovare accoglimento. L'art. 597, comma 1, cod. proc. pen attribuisce infatti al giudice d'appello, limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, gli stessi poteri del giudice di primo grado. Ne deriva che l'area della cognizione del giudice d'appello, fermo rimanendo il limite posto dal divieto di reformatio in peius, non è perimetrata da quanto prospettato dall'appellante o da quanto ritenuto dal giudice di primo grado, potendo egli affrontare tutte le questioni enucleabili nell'ambito dei punti devoluti alla sua cognizione, anche se estranee al percorso argomentativo esperito tanto dall'appellante quanto dal primo giudice (Cass., Sez. 4, n. 15461 del 28-10-2003, Rv. 227783). Da ciò consegue che la preclusione derivante dall'effetto devolutivo dell'appello inerisce soltanto ai punti che non sono stati oggetto dei motivi di gravame ma non all' iter logico-giuridico esposto nella motivazione della sentenza di primo grado, relativamente ai punti devoluti alla cognizione del giudice dell'impugnazione (Sez. U., n. 1 del 27-9-1995,Timpanaro). Quest'ultimo, in ordine ad essi, può estendere la propri analisi ad ogni profilo che ritenga rilevante ed, eventualmente, anche pervenire alle stesse conclusioni cui è giunto il giudice a quo sulla base di una diversa valutazione dei dati di fatto risultanti dagli atti o di argomenti diversi da quelli posti dal primo giudice a fondamento della propria decisione (Cass., Sez. 1, n. 10795 del 25-6-1999, Gusinu; Sez. 1, n. 2768 del del 14-1-1998, Telesca). In applicazione di tali principi, si è, ad esempio, ritenuta, per quanto attiene al settore della responsabilità colposa, che viene in rilievo in questa sede, la ritualità della qualificazione in appello di una condotta come commissiva, una volta che sia stato contestato un comportamento colposo e nonostante sia stata ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento omissivo, sempre che l'imputato abbia avuto modo, in concreto, di apprestare, in maniera completa, le proprie difese in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito (Cass., Sez. 4, n. 7026 del 15-10-2002, Rv. 223747; n. 41674 del 6-7-2004, Rv. 229893).
2.1. Nel caso di specie, è incontroverso che al giudice d'appello sia stata devoluta, con i motivi di gravame, la problematica relativa alla ravvisabilità di una colpa in capo all'imputato, in dipendenza dell'evento verificatosi. Dunque, nell'ambito di tale nucleo tematico, ben poteva la Corte d'appello valorizzare, nel contesto di un itinerario argomentativo diverso da quello seguito dal primo giudice, distinti profili di colpa, che, comunque, avevano formato oggetto di analisi e di discussione nel dibattimento di primo grado ed in relazione ai quali l'imputato aveva pertanto fruito della più ampia possibilità di interloquire e di estrinsecare il proprio diritto di difesa. Tanto più che l'addebito inerente alla mancata individuazione di idonee misure preventive e protettive nel POS era chiaramente esplicitato nell'imputazione, onde l'imputato era stato posto, fin dal momento dell'emissione dell'atto di esercizio dell'azione penale, in grado di difendersi da tale specifico profilo di colpa. Nessuna irritualità è dunque da ravvisarsi ove il giudice d'appello ponga a fondamento della declaratoria di responsabilità un profilo di colpa diverso da quello ravvisato dal giudice di primo grado ma rientrante comunque nella contestazione formulata a carico dell'imputato.
3. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso. Il comportamento del lavoratore può essere ritenuto abnorme allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente, lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, del lavoratore stesso, nell'esecuzione del lavoro (Cass., Sez. 4, n. 7267 del 10-11-2009, Rv. 246695). È dunque abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro assegnatogli (Cass., Sez. 4, n. 23292 del 28-4-2011, Rv. 250710) o che abbia espletato un incombente che, anche se inutile ed imprudente, non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo ( Cass., Sez. 4, n. 7985 del 10-10-2013, Rv. 259313) .
3.1. Nel caso in esame, il giudice a quo ha chiarito che il S.L. stava compiendo un'operazione di posa di lastre non autoportanti e, non essendo stato reso edotto del rischio che avrebbe corso nel salire sulla copertura in fase di allestimento, in assenza di banchinaggio e di puntellature, vi salì, allo scopo di sganciare più agevolmente le catene di sollevamento della quinta e ultima lastra: dunque un'operazione rientrante appieno nelle sue mansioni. Di qui la conclusione secondo la quale non può ravvisarsi abnormità del comportamento del lavoratore.
Tale conclusione è del tutto conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161). Da ciò consegue che non può essere ravvisata, nel caso di specie, interruzione del nesso causale. L'operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa altrui, nella specie a quella del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). L'interruzione del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202) . Ma abbiamo visto come, nel caso in disamina, l'operazione che stava effettuando il lavoratore rientrasse appieno nelle sue attribuzioni e come egli sia salito sulla copertura, in fase di allestimento, solo perchè non era stato reso edotto del rischio specifico: si esula pertanto dall'ambito applicativo dell'art. 41, comma 2 , cod. pen.
4. Le determinazioni del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione esente da vizi logico-giuridici. Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata è senz'altro da ritenersi adeguata, avendo la Corte territoriale fatto riferimento alla gravità dell'emissione e all'entità delle lesioni patite dal lavoratore, che hanno comportato una malattia della durata di circa un anno. E, al riguardo, occorre osservare come l'entità del danno sia uno dei parametri espressamente indicati dalla legge ai fini della decisione in ordine alla sostituzione della pena detentiva, in quanto l'art. 58 legge n. 689 del 1981 richiama l'art. 133 cod. pen., che, a sua volta,prevede, al comma 1, n. 2, la gravità del danno cagionato alla persona offesa dal reato, onde legittimamente la Corte territoriale ha fatto riferimento a tale elemento.
5. Il ricorso va dunque rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 

 

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 6-6-2017.