Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 06 novembre 2017, n. 26271 - Malattia professionale e prestazioni previdenziali. Ricorso inammissibile


Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: CAVALLARO LUIGI Data pubblicazione: 06/11/2017

 

 

 

Fatto

 


che, con sentenza depositata il 7.11.2011, la Corte d'appello di Lecce, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di R.C. volta a conseguire le prestazioni previdenziali dovute in relazione alla malattia professionale contratta a causa dell'attività lavorativa;
che avverso tale pronuncia ha proposto ricorso R.C.,
deducendo tre motivi; ,
che l'INAIL ha resistito con controricorso;
 

 

Diritto

 


che, con il primo motivo, il ricorrente lamenta «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia» nonché «motivazione in contrasto con la più recente dottrina e la direttiva CEE 269/90 inserita nel DL n. 626 del 19.09.94 titolo V art. 49 e allegato VI nonché della più recente letteratura scientifica» (così il ricorso per cassazione, pag. 9), per avere la Corte di merito ritenuto, recependo le conclusioni della CTU disposta in seconde cure, che le malattie da cui egli è affetto non avessero origine professionale; che, con il secondo motivo, il ricorrente denuncia «violazione DPR n. 482 del 09.06.1975 ovvero del DPR n. 336 del 13.04.1994», nonché «violazione normativa CEE 269/90 inserita nel DL 19.9.94 n. 626» e «violazione art. 2 TU 30.06.1965 n. 1124» (così il ricorso per cassazione, pag. 13), per avere il CTU di seconde cure ritenuto insussistente l'ipoacusia lamentata da lui lamentata, laddove «dalla documentazione in atti, e dalla CTU di primo grado nonché dalla CTP allegata alla memoria di costituzione in Corte d'Appello, il ricorrente è affetto da ipoacusia bilaterale neurosensoriale» (ibid., pag. 14), ed altresì per non avere la Corte disposto «il richiamo a chiarimenti del CTU officiato ovvero [...] il rinnovo della consulenza» (ibid., pag. 16), nonché per avere recepito le conclusioni del CTU circa l'origine non professionale della dorsalgia e della cervicobrachialgia, nonostante le contrarie risultanze contenute «nella CTP allegata in prime cure al fascicolo della Corte d'Appello e nella CTU di primo grado oltre che nelle osservazioni medico legali deposita [sic] in Corte d'Appello in data 26.10.2011 e non prese in considerazione perché prodotte oltre il termine assegnato» (ibid., pag. 17); 
che, con ¡l terzo motivo, il ricorrente di duole di «violazione normativa CEE 269/90 inserita nel DL del 19.09.94 n. 626  sotto altro profilo», nonché di «violazione sentenza Corte Costituzionale n. 179/88» (così il ricorso per cassazione, pag. 19), per non avere la Corte di merito ritenuto che egli avesse «fornito la prova dell'esistenza della malattia mediante la copiosa documentazione sanitaria, l'adibizione a mansioni rientranti (ovvero riconducibili) tra quelle di cui agli artt. 1, 206, 207 e 208 del T.U. con riferimento all'agente patogeno, l'esposizione a rischio mediante precisazione delle relative modalità (durata ed intensità) e quindi delle mansioni svolte e delle condizioni di lavoro» (ibid., pagg. 19-20);

che i motivi possono essere trattati congiuntamente, in ragione delle modalità di esposizione delle censure;

che, con riguardo alle dedotte violazioni di legge, questa Corte ha ormai consolidato il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un'erronea interpretazione della medesima ovvero nell'erronea sussunzione del fatto così come accertato entro di essa, e non va confuso con l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura in sede di legittimità era possibile, ratione temporis, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 15499 del 2004, 18782 del 2005, 5076 e 22348 del 2007, 7394 del 2010, 8315 del 2013);
che, nella specie, le doglianze proposte da parte ricorrente incorrono nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulate con riferimento ad una presunta violazione o falsa applicazione delle disposizioni citate nella rubrica dei tre motivi, hanno in realtà di mira il giudizio (di fatto) compiuto dalla Corte di merito circa l'insussistenza dei presupposti per la loro applicazione; che, con riguardo alle doglianze di vizio di motivazione, vale invece ribadire che, al fine di infirmare sotto il profilo della insufficienza argomentativa la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte indichi specificamente non solo le circostanze trascurate dall'elaborato peritale (Cass. n. 21632 del 2013), ma altresì i passaggi salienti e non condivisi della relazione (Cass. n. 16368 del 2014), mentre nulla di tutto ciò è dato rinvenire nei motivi di ricorso, che pro tanto non appaiono rispettosi del canone di specificità e autosufficienza per come fissato dall'art. 366 nn. 4 e 6 c.p.c. (cfr. in tal senso da ult. Cass. n. 20682 del 2016); che da ultimo, con riguardo alla doglianza concernente il mancato esercizio, da parte dei giudici di merito, dei poteri ufficiosi, è giusto il caso di ricordare che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi è censurabile per cassazione solo qualora la parte abbia preventivamente investito il giudice di una specifica richiesta in tal senso (cfr. da ult. Cass. n. 22534 del 2014) e di rilevare che, nel caso di specie, parte ricorrente non ha indicato in alcun modo quando e come avrebbe ritualmente sollecitato in tal senso la Corte di merito, limitandosi a rinviare ad «osservazioni medico legali deposita [sic] in Corte d'Appello in data 26.10.2011 e non prese in considerazione perché prodotte oltre il termine assegnato» (cfr. ancora pag. 17 del ricorso per cassazione);
che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;
 

 

P. Q. M.

 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.200,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale del 5.7.2017.