Cassazione Civile, Sez. Lav., 24 novembre 2017, n. 28098 - Per configurarsi mobbing sono necessarie condotte persecutorie, sistematiche e ripetute. No a singoli episodi avvenuti a distanza di anni



Presidente Manna – Relatore Boghetich


Fatto

 



che con sentenza del 3.8.2012, la Corte di appello di Torino, in riforma della pronuncia del Tribunale di Saluzzo, ha respinto la domanda di M.B. di risarcimento del danno per comportamento integrante mobbing da parte del datore di lavoro, Saint Gobain Sekurit Italia s.r.l., con decorrenza giugno 2002, rilevando l’insussistenza di una molteplicità di comportamenti persecutori (trattandosi di episodi collocati a notevole distanza uno dall’altro e in numero assai limitato);
che avverso questa pronuncia ricorre il M. per cassazione prospettando un motivo ricorso;

che la società resiste con controricorso, illustrato da memoria.

 

 

Diritto

 



che l’unico motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 2087 cod.civ. nonché vizio di motivazione avendo, la Corte distrettuale, trascurato la strategia unitaria persecutoria con finalità di emarginazione del dipendente manifestatasi, senza ragionevole spiegazione (se non quello della partecipazione alle rappresentanze sindacali), dopo dodici anni (dalla data di assunzione) di sereno svolgimento del rapporto di lavoro e non essendo stato esaurientemente spiegato dal consulente tecnico d’ufficio la "ovvietà" della pre-esistenza del disturbo paranoideo di personalità che affligge il M. ;
che questa Corte ha affermato che, per la configurabilità del mobbing lavorativo debbono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (v. da ultimo Cass. nn. 2142/2017, 158/2016, 1258/2015, 17698/2014, 18836/2013);
che la ricostruzione della vicenda operata dal giudice di merito non è sussumibile nella fattispecie astratta così definita e si fonda su un giudizio valutativo immune da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo osservarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, primo comma, cod.proc.civ., n. 5, non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità;
che non risulta contraddittorio l’iter logico seguito dalla sentenza impugnata ove ha rilevato "le modalità e la inusitata frequenza con cui (il datore di lavoro) ha esercitato il potere disciplinare", trattandosi della valutazione di (quattro) episodi concernenti l’utilizzo del vestiario aziendale circoscritti tra giugno e ottobre 2005, distaccati come ha rilevato la Corte distrettuale - da un lasso di tempo apprezzabile sia da precedenti episodi (due contestazioni disciplinari dell’ottobre 2003) che da quelli successivi (contestazione disciplinare, non seguita da sanzione, del novembre 2006; sanzione disciplinare del settembre 2007, successivamente dichiarata giudizialmente illegittima) e, quindi, sforniti del carattere della sistematicità, della durata dell’azione e non collegati tra loro da un medesimo intento persecutorio (pag. 16 sentenza impugnata);
che i dedotti vizi di motivazione non corrispondono al modello enucleabile negli esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 cod.proc.civ., poiché, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice del merito nel valutare le stesse risultanze istruttorie da quest’ultimo esaminate; nel trarne implicazioni e spunti per la ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello esposto nella sentenza impugnata; nel desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza probatoria di alcun elementi rispetto ad altri, incidendo sull’intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all’ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del 2011);
che, infine, con riguardo ai lamentati errori e alle lacune della consulenza tecnica d’ufficio, sono suscettibili di esame in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza, quando siano riscontrabili carenze o deficienze diagnostiche o affermazioni scientificamente errate e non già quando si prospettino semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e la valutazione della parte (Cass. nn. 3307/2012, 22707/2010, 569/2011), non essendo stata denunziata alcuna palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica od omissione di accertamenti strumentali;
che il ricorso va respinto e che le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ..

 

 

P.Q.M.

 



La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.