Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 dicembre 2017, n. 29435 - Amianto: mancanza di un sistema di aspirazione, di areazione e omessa formazione e sorveglianza sull'utilizzo dei DPI


 

 

Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE Relatore: SPENA FRANCESCA Data pubblicazione: 07/12/2017

 

Fatto

 

Omissis operata dal Tribunale; osservava che nessuna censura era stata mossa quanto alla misura del danno subito dai congiunti del lavoratore iure proprio.
Era stata posta dalla società appellante una questione di mero rito —e non dì competenza— quanto alla domanda proposta dagli originari ricorrenti iure proprio, il vincolo della connessione consentiva il cumulo delle cause; in ogni caso la competenza del giudice del lavoro ineriva a tutte le domande che avevano origine nel rapporto di lavoro anche se non aventi titolo nel contratto di lavoro; da ultimo, comunque, non si sarebbe potuto procedere al mutamento del rito in appello, ai sensi dell'articolo 4 D.Lgs. 150/2011.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società L. spa, articolato in cinque motivi.
Hanno resistito con controricorso M.L.D., C.M.G., G.G., illustrato con memoria.
Con memoria del 20,6.2017 si è costituito il Commissario Straordinario della L. spa in amministrazione straordinaria,
 

 

Diritto

 

 

 


Preliminarmente deve essere dichiarata la invalidità della costituzione del Commissario Straordinario della L. spa, per assenza di autentica notarile della procura alle liti.
La facoltà del difensore di certificare l'autografia della sottoscrizione della procura apposta in calce o a margine della memoria di nomina di nuovo difensore è stata prevista nel testo del l'artico 83 cod. proc. civ. a seguito delle modifiche introdotte dall'articolo 45 comma 9 lettera a) legge 18.6.2009 nr. 69, applicabili ai soli giudizi instaurati (in primo grado) successivamente al 4 luglio 2009 { articolo 58, commal L. 69/2009 cit.).
La irritualltà della costituzione del Commissario Straordinario non produce comunque effetti sulla prosecuzione del procedimento giacche la disciplina del giudizio di legittimità è dominata dall'impulso d'ufficio e risulta incompatibile con l'applicabilità delie cause di interruzione previste in via generale dalla legge processuale (ex multis: Cassazione civile, sez. I, 01/10/2014, n. 20722).
1. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto - ai sensi dell'articolo 360 nr. 3 e nr, 5 cod.proc.civ. : violazione dell'articolo 115 cod.proc.civ., dell'art. 2087 cod.civ. e dell'art. 1225 cod. civ.; omessa ed insufficiente motivazione sul fatto controverso e decisivo degli esiti delle indagini ambientali eseguite all'epoca dei fatti di causa.
Ha censurato la statuizione di accertamento della presenza di polveri di amianto nell'ambiente di lavoro e la confusione operata in sentenza tra la generica polverosità e la presenza di polveri di asbesto.
Ha lamentato che le indagini da essa prodotte, effettuate negli anni 1975/1977, 1992 e 1995 erano state ignorate dalla Corte di merito. Tali indagini non erano state oggetto di contestazioni specifiche da parte dei ricorrenti o dei loro consulenti sicché il collegio giudicante ne avrebbe dovuto tener conto anche a norma dell'art. 115 cod.proc.civ. 
La ricerca svolta tra il 1975 ed il 1977 era stata voluta dal Consiglio di fabbrica; era stata eseguita dalla clinica del lavoro della Università di Milano, su accordo congiunto della direzione di stabilimento e del Consiglio di Fabbrica; si era articolata —con la partecipazione attiva degli operai e sotto il controllo delle loro rappresentanze— attraverso prelievi ed analisi nonché sottoponendo gli addetti a questionari ed a visita medica anamnestìca; sì era conclusa nel senso della assenza del rischio di polveri , fumi, gas e vapori per gli addetti al colaggio.
Soltanto in corso di causa, a distanza di oltre trent'anni dal fatti, i colleghi di lavoro avevano riferito della presenza di polveri diffuse al colaggio, in contrasto con quanto dichiarato nel questionari dell'epoca; I testi erano inattendibili anche per l'interesse derivante dall'avvenuto riconoscimento in proprio favore dei benefici previdenziali correlati alla esposizione all'amianto.
La Corte di merito si era limitata ad affermare che le relazioni prodotte non riportavano alcun dato significativo in ordine alla presenza di amianto, confondendo il piano dell'accertamento delle polveri con quello relativo alla presenza dell'amianto.
Il datore di lavoro non poteva essere ritenuto responsabile per non avere individuato e prevenuto un rischio che nemmeno la Clinica del Lavoro, portatrice delle più avanzate conoscenze dell'epoca, aveva segnalato; la responsabilità addebitatagli finiva con l'assumere carattere oggettivo.
La censura, nella parte in cui investe l'accertamento in sentenza del dato storico della presenza di polveri nell'ambiente di lavoro, è inammissibile.
L'accertamento del fatto—all'esito della valutazione della prova— è impugnabile in questa sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio dì motivazione; il vizio di violazione delle norme di diritto, che pone una questione di interpretazione ed applicazione di norme di legge, va invece verificato sulla base dei fatti accertati in sentenza senza essere mediato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. 
Nella fattispecie concreta il vizio della motivazione è deducibile, in relazione al testo storico dell'articolo 360 nr.5 cod.proc.civ. applicabile ratione temporis, sub specie di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto storico controverso e decisivo.
Il motivo non sottopone a questa Corte un fatto non esaminato in sentenza giacché gli elementi istruttori di cui si lamenta la mancata valutazione (indagini ambientali eseguite all'epoca dei fatti di causa) sono stati esaminati e superati dalla Corte di merito con argomenti logici ed adeguati, primo tra tutti il rilievo che le indagini riguardavano una fase di lavorazione (il colaggio) diversa da quella (la colata) cui era addetto il G.G..
La società ricorrente, piuttosto, contesta la valutazione delle prove (documentali e testimoniali) compiuta dal giudice dell'appello contrapponendovi il proprio personale convincimento circa il peso e la rilevanza dei mezzi istruttori e cosi chiedendo un riesame di merito non consentito in questa sede.
I rilievi mossi in punto di affermazione della colpa, per la mancata conoscenza all'epoca dei fatti del rischio derivante dall'impiego dell'amianto, sono più diffusamente articolati nel terzo motivo di ricorso, alla cui trattazione si rinvia.
2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha denunziato violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 e 2087 cod.civ, nonché motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo.
Ha esposto che era a carico della parte attrice fornire la prova della presenza di amianto nell'ambiente di lavoro; la Corte di merito aveva desunto tale prova dal parere reso dalla CONTARP, fondato sugli studi di settore relativi al ciclo produttivo delle acciaierie, affermando essere a carico di essa società fornire la prova di avere seguito un ciclo produttivo diverso da quello ordinario.
Tale ragionamento finiva con l'invertire l'onere probatorio.
L'organo tecnico si era espresso in termini di verosimiglianza della esposizione e non di certezza; i suddetti criteri presuntivi avevano valenza a fini previdenziali ma non nell'accertamento della responsabilità civile del datore di lavoro.
Il motivo è infondato.
La Corte di merito non ha applicato nella decisione la regola di giudizio fondata sull'onere della prova, che regola la soccombenza soltanto in mancanza di prova dei fatti rilevanti al decidere. Ha ritenuto, invece, positivamente raggiunta la prova della presenza di polveri di amianto nell'ambiente di lavoro sulla base di elementi di prova diretti (testi) ed indiretti (l'ordinario impiego dell'amianto nel ciclo produttivo delle acciaierie nel periodo di causa). Ha correttamente affermato che non erano stati acquisiti in causa elementi istruttori in contrasto con quelli utilizzati nella prova logica.
Nel resto la censura si risolve in una inammissibile contestazione di merito circa l'apprezzamento della prova.
Da ultimo non è condivisibile in punto di diritto l'assunto che i criteri di valutazione della prova in materia previdenziale differiscano da quelli che presiedono all'accertamento della responsabilità civile.
3. Con il terzo motivo la società ricorrente ha denunziato omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo per il giudizio nonché violazione dell'art. 2087 cod.civ.
La censura afferisce alla statuizione resa circa la idoneità dei dispositivi di protezione disponibili all'epoca dei fatti ad evitare il rischio patogeno ed, in particolare, al passaggio in cui la Corte dì merito affermava che gli argomenti svolti dal consulente della società L., che escludevano la evitabilità del mesotelioma, riproducevano uno scritto (del professor CH.) superato dalla letteratura scientifica più recente.
La società ha dedotto che le critiche alle conclusioni del proprio consulente non erano fondate su studi sufficientemente rigorosi. Lo stesso consulente di controparte nella relazione allegata alla CTU aveva ammesso che i mezzi di protezione delle vie aeree all'epoca disponibili erano solo parzialmente efficaci e ciò almeno fino alla metà degli anni ottanta allorché erano state introdotte maschere dotate di filtri ad alta efficienza. 
Il motivo è infondato.
Preliminarmente vanno distinti i piani dell'accertamento del rapporto di causalità e dell'accertamento della colpa.
Quanto al rapporto di causalità, nelle condotte omissive, quali quelle rilevanti in causa, viene in gioco un rapporto di «equivalenza causale» (cfr. articolo 40, ultimo comma, cod.pen.): il parametro di riferimento è la condotta doverosa omessa e la verifica attiene alla idoneità dell'adempimento cui il soggetto sarebbe stato tenuto, secondo un giudizio ipotetico, ad evitare l'evento. Tale idoneità va accertata secondo il criterio della miglior scienza disponibile ovvero, in mancanza della copertura di leggi scientifiche, della preponderanza dell'evidenza o «del più probabile che non» (c.d. probabilità logica o baconiana) e cioè riconducendo il grado di fondatezza della derivazione causale all'ambito degli elementi di conferma disponibili in relazione al caso concreto e nel contempo di esclusione di altri possibili fattori causali alternativi (Cass. civ. Sez, Unite 11/01/2008, n. 576).
Nella fattispecie di causa il giudice del merito ha accertato la mancata adozione delle seguenti misure di protezione, obbligatorie all'epoca dei fatti: mancanza di un sistema continuo di aspirazione nei locali in cui era utilizzato amianto; mancanza di un sistema di areazione diretta ed utilizzo di un sistema di aspirazione attraverso correnti ascensionali, che aumentava la polverosità; mancanza di formazione e di adeguata sorveglianza sull'utilizzo dei dispositivi individuali di protezione.
Ha poi verificato il rapporto di causalità sia sotto il profilo scientifico che sotto il profilo logico, secondo parametri corretti in punto di diritto, concludendo nel senso che la adozione delle suddette misure di protezione avrebbe quanto meno procrastinato l'insorgere della malattia (pagina 10 della sentenza, in fine).
Tale concreto accertamento in fatto, che il giudice del merito ha compiutamente e logicamente motivato, resta insindacabile in questa sede.
Venendo invece al giudizio di colpa, questa Corte ha già chiarito (Cassazione civile, sez. lav,, 27/06/2014, n. 14614), con orientamento cui si intende dare continuità, che in tema di prevenzione del rischio lavorativo esiste una diversa modulazione di contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante) in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dall'art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza.
Nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell'Inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno- nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o da altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.
Nella fattispecie di causa la responsabilità è stata ritenuta sotto il profilo della mancata adozione di misure di prevenzione imposte dalia normativa dell'epoca come idonee alla prevenzione e diminuzione delle polveri; la Corte di merito ha dunque correttamente ritenuto che il datore di lavoro fosse rimasto inadempiente al suo onere di fornire la prova liberatoria.
4. Con il quarto motivo la società ricorrente ha denunziato il vizio di omessa motivazione sui criteri di determinazione del danno liquidato iure hereditario. La società ha esposto di avere dedotto come motivo di appello il fatto che il danno non patrimoniale era stato quantificato dal Tribunale in £ 800 al giorno (ed in € 1,000 per gli ultimi giorni di vita) senza dare conto dei parametri della valutazione equitativa così compiuta.
Tale motivo di impugnazione era stato respinto dal giudice dell'appello sul rilievo della sua genericità e della conformità della liquidazione ai parametri utilizzati dal medesimo organo giudicante.
La società ha dedotto che neppure il giudice del secondo grado aveva provveduto a specificare ì parametri di giudizio adottati, largamente più rigorosi di quelli seguiti, ad esempio, dalla Corte di Appello di Venezia, che aveva liquidato in un caso del tutto analogo un danno di €150 al giorno.
Il motivo è infondato.
L'esercizio del potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità allorché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assurti a base del procedimento valutativo ( cfr. Cassazione civile, sez. lav., 19/02/2013, n. 4047).
Il giudice del merito è tenuto, in sostanza, a dare conto del tipo di danno non patrimoniale risarcito e dei parametri oggettivi utilizzati nella sua liquidazione, percorso motivazionale osservato dalla sentenza impugnata.
La Corte di merito ha infatti affermato di avere liquidato il danno non patrimoniale temporaneo e parametrato il suo importo sia alla gravità della malattia (danno biologico) che alla intensità della sofferenza, per la consapevolezza dell'esito infausto (danno morale); ha fatto riferimento quale supporto della liquidazione equitativa alla giurisprudenza formatasi nel distretto .
5. Con il quinto motivo di ricorso la società L. spa ha denunziato il vizio di omessa, insufficiente ed errata motivazione sulla eccezione di non proponibilità davanti al giudice del Lavoro della domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi iure proprio.
La ricorrente ha dedotto la inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa del D.Lgs. 150/2011, richiamato dal giudice dell'appello per sostenere la Impossibilità di mutamento del rito.
Ha lamentato la illogicità della motivazione tanto nella parte in cui si fondava sulla connessione delie cause che laddove affermava la competenza del giudice del Lavoro ex art, 409 cod.proc.civ.
Ha precisato che la questione soltanto all'apparenza era di mero rito: i congiunti avevano dichiarato dì agire solo in base all'articolo 2087 cod.civ. e non avevano nemmeno allegato gli estremi dei danno ingiusto; l'accertamento della responsabilità aquilana avveniva, poi, secondo regole diverse in tema dì onere della prova.
Il motivo è inammissibile.
Si premette che la questione affrontata in sentenza attiene esclusivamente al rito ovvero alla trattazione della domanda proposta in proprio dai congiunti del defunto (per lesione dei rapporto parentale) secondo il rito del lavoro invece che con il rito ordinario.
Per consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cassazione civile, sez. Ili, 05/04/2016, n. 6543; Cass, 27 gennaio 2012, n. 1201; Cass. 29 settembre 2005, n. 19136) gli errori sul rito costituiscono causa di nullità della sentenza— deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'articolo 360 nr. 4 cod.proc.civ.” nel solo caso in cui abbiano determinato un pregiudizio al contraddittorio od alle facoltà difensive delle parti o, in generale, allorché abbiano cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte.
E' onere del ricorrente allegare il pregiudizio subito, quale condizione di deducibilità del motivo di ricorso; tale onere non è stato nella fattispecie di causa adempiuto giacché i rilievi svolti sul punto non denunziano una compressione della facoltà difensive ma piuttosto pretesi vizi di attività del giudice (ultrapetizione) e di violazione di norme di diritto ( sulla responsabilità aquilìana), del tutto indipendenti dalla scelta del rito .
Il ricorso deve essere conclusivamente respinto. 
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
 

 

PQM

 


La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in C 200 per esborsi ed € 9.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, in data 11 luglio 2017