Cassazione Penale, Sez. 4, 29 maggio 2018, n. 24074 - Caduta mortale da una pedana di legno montata sulle forche dell'ascensore. Obblighi e responsabilità in caso di distacco


Presidente: DOVERE SALVATORE Relatore: BRUNO MARIAROSARIA Data Udienza: 27/02/2018

 

Fatto

 

1. Con sentenza emessa in data 10/2/2017, la Corte d'appello di Catania, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ragusa, dichiarava G.G. responsabile del reato di omicidio colposo con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di anni uno mesi sei di reclusione. Concedeva il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al pagamento di una provvisionale, determinata in misura di suro 15 mila per ciascuna parte civile costituita, e condannava il predetto imputato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, da liquidarsi in separata sede. La Corte d'appello confermava la condanna resa dal Tribunale di Ragusa nei confronti degli altri imputati C.G. e M.M., condannati alla pena di anni uno mesi sei di reclusione, per il medesimo reato, pena sospesa, con condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede ed al pagamento di una provvisionale di complessivi euro 30 mila in favore delle parti civili costituite.
Agli imputati, era contestato di avere cagionato la morte dell'operaio L.C. che precipitava cadendo da una pedana montata sulle forche esistenti all'interno del vano di scorrimento di un ascensore, per colpa generica, consistita in negligenza, imperizia e imprudenza, nonché, per violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare, si individuavano nei confronti degli imputati i seguenti profili di colpa specifica: quanto al C.G., titolare dell'impresa edile "C.G. Costruzioni srl" committente dei lavori, per avere violato l'art. 200 d.P.R. 547/55, allestendo una pedana di legno, come piano di calpestio, montata sulle forche dell'ascensore, distante 47 cm dalle pareti della relativa cabina e, pertanto, per avere realizzato e messo a disposizione dei lavoratori un'attrezzatura non idonea e pericolosa per la sicurezza, in violazione dell'art. 35 comma 1 e 2 d.lgs. 626/94; quanto al G.G., per avere, in violazione dell'art. 4, comma 2, lett. a) d.lgs. 626/94 in relazione all'art. 2, comma 1, lett. f-ter D.L.vo 528/99, omesso di redigere il piano operativo di sicurezza con riferimento al cantiere di cui sopra, nonché per avere violato l'art. 22, d.lgs. 626/94, omettendo di fornire al lavoratore L.C. una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza e salute in ordine alle proprie mansioni ed al proprio posto di lavoro, in relazione alle caratteristiche del cantiere.
2. Gli imputati C.G. e G.G. proponevano ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, avverso la pronuncia di condanna, deducendo quanto segue.
Per C.G., primo motivo: mancanza e illogicità della motivazione, come risultante dal testo della sentenza impugnata, della sentenza di primo grado, nonché dagli altri atti del processo allegati al ricorso, in relazione al rapporto di causalità; inosservanza dei principi stabiliti agli artt. 192, comma 1 e 2, cod. proc. pen. e 530, primo e secondo comma, cod. proc. pen. Premetteva la difesa, che il giudice di primo grado e la Corte d'appello erano pervenuti all’accertamento della penale responsabilità del C.G. sulla base delle prove testimoniali acquisite dagli ispettori del lavoro S.G. e P.L.; dal perito che aveva eseguito in fase di indagini gli accertamenti tecnici non ripetibili; dai lavoratori alle dipendenze del C.G.. In sede di appello il ricorrente aveva rappresentato alla Corte territoriale che la ricostruzione operata dal giudice di prime cure non era aderente alle risultanze processuali. In particolare, assumeva il difensore, dalle prove assunte nel corso della istruttoria era emerso che: il datore di lavoro non aveva mai espresso alcuna tolleranza per la condotta imprudente del lavoratore; il cantiere risultava provvisto di adeguate protezioni, essendo stato riconosciuto dallo stesso Giudice di primo grado l’esistenza di un fondamentale presidio idoneo ad impedire l'accesso al vano dell'ascensore (fissaggio dei parapetti, che precludevano l’accesso alla tromba dell’ascensore); la pedana adoperata dal lavoratore era inutilizzabile ai fini lavorativi, risultando comunque meno agevole rispetto ad altro strumento in dotazione (montacarichi esterno, che recava i materiali occorrenti in prossimità del piano di lavoro). Pertanto, i giudici avrebbero dovuto ritenere la esistenza di un comportamento abnorme del lavoratore, in grado di determinare l’evidente interruzione del nesso causale con i presunti comportamenti antidoverosi del datore di lavoro.
La Corte d’appello avrebbe omesso di valutare tali circostanze, in contrasto con le prove testimoniali evidenziate dal ricorrente, allegate all'atto di ricorso.
Secondo motivo: inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 41, comma 2, cod. pen. Assumeva il ricorrente che, in relazione al caso in esame, il comportamento tenuto dal dipendente era del tutto imprevedibile. Pertanto, doveva escludersi efficacia causale ad eventuali omissioni del datore di lavoro in relazione all'infortunio mortale occorso al L.C.
Per G.G., primo motivo: inammissibilità dell'appello del P.M. contro la sentenza assolutoria di primo grado. La difesa sosteneva che la sentenza dovesse essere annullata senza rinvio, per essere l'appello promosso dal P.M. privo di specifiche argomentazioni atte a sovvertire gli elementi indicati dal giudice di primo grado.
Nel secondo motivo di ricorso si deduceva la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza. La Corte d'appello si sarebbe sottratta all’obbligo di fornire una motivazione rafforzata, mancando di esplicitare in modo più rigoroso e completo la motivazione posta a fondamento della decisione adottata di condanna. I giudici avrebbero riformato ingiustamente la sentenza di assoluzione resa nei confronti dello G.G., limitandosi ad accogliere le generiche doglianze del P.M. (che riproducevano l'atto di impugnazione delle parti civili) operando, ex actis, un ribaltamento della decisione assolutoria sulla base di una diversa lettura delle prove assunte in primo grado.
All'esito dell'ampia istruttoria dibattimentale di primo grado, il Tribunale monocratico di Ragusa, argomentando compiutamente sia in fatto che in diritto, aveva correttamente escluso, in capo allo G.G., qualsiasi addebito colposo, mettendo in rilievo i seguenti aspetti: G.G. era il datore dì lavoro "formale" del L.C.; Il L.C. era stato "affidato" all'impresa del C.G., a fine di effettuare i lavori di copertura della guaina cementizia delle pensiline ubicate nell'edificio; l'impresa appaltatrice dei lavori era quella del C.G.; il L.C. riceveva le direttive unicamente da tale ultima impresa. Sulla base di tali elementi, il giudice aveva ritenuto che responsabile dell'adozione delle cautele antinfortunistiche nel cantiere allestito dalla ditta "C.G. Costruzioni srl", fosse il solo C.G., effettivo datore di lavoro di L.C., nonché, il responsabile delle prevenzione e sicurezza. Conseguentemente, aveva mandato assolto lo G.G., sostenendo che la responsabilità penale dell'impresa appaltatrice non potesse estendersi a colui che era soltanto formalmente datore di lavoro del L.C., difettando nel caso di specie, "la presa in carico" della responsabilità imprenditoriale. Il G.G., inoltre, non poteva ritenersi responsabile dell'indebito uso di un elevatore nell'ambito di un cantiere a cui era rimasto del tutto estraneo.
Il fatto che l’incidente occorso al L.C. fosse stato denunciato all'INAIL dal ricorrente invece che dal C.G., rientrava nella ordinaria prassi amministrativa attivata per potere ottenere l'indennizzo, in quanto il lavoratore risultava essere ancora alle dipendenze dell'impresa di G.G. all'atto dell'infortunio. Anche le contravvenzioni in materia antinfortunistica contestate nel capo di imputazione dovevano ritenersi insussistenti a carico del ricorrente. Sulla base delle testimonianze acquisite e delle dichiarazioni rese dal coimputato C.G., doveva ritenersi che unico soggetto tenuto alla predisposizione del piano operativo di sicurezza per il cantiere allestito in via Faggi a Comiso, fosse il C.G. e non G.G.. Analoghe considerazioni dovevano valere anche in ordine all'obbligo di formazione del lavoratore in ordine ai rischi presenti nell'ambiente di lavoro.
Nel terzo motivo, la difesa lamentava vizio di motivazione in relazione all'art. 533 cod. proc. pen. e violazione dell'art. 6, par. 3, lett. d, CEDU, evidenziando che il giudice era pervenuto all'affermazione di responsabilità del ricorrente, senza provvedere alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, pur avendo fondato la pronuncia di condanna su una diversa interpretazione delle prove dichiarative assunte dal giudice di primo grado.
 

 

Diritto
 

 

1. I motivi di doglianza proposti dai ricorrenti appaiono tutti infondati, pertanto i ricorsi devono essere rigettati.
2. Quanto alla posizione di C.G., le doglianze difensive sono incentrate tutte sull'asserita abnormità della condotta del lavoratore e sulla mancata valutazione, da parte dei giudici, di prove dichiarative in grado di avvalorare la ipotesi sostenuta nel ricorso, della imprevedibilità del comportamento del deceduto. In realtà, l'analisi della motivazione resa dalla Corte territoriale, consente di affermare che il giudice di appello, unitamente a quello di primo grado, abbia offerto una motivazione corretta ed immune da censure logiche e giuridiche, seguendo un percorso argomentativo che, oltre ad essere rispettoso dei principi espressi in materia in sede di legittimità, risulta essere non contraddittorio e coerente con le risultanze probatorie.
L'attenta osservazione della dinamica del fatto, il cui svolgimento non è contestato dalla difesa dei ricorrenti, ha indotto i giudici di merito a ritenere provato, come recita il capo di imputazione, che nel vano di scorrimento dell'ascensore esistente nell'edificio in costruzione, era stata montata una pedana sulle forche destinate a sorreggere la cabina non ancora installata. Il lavoratore deceduto precipitò all'interno del vano ascensore, a causa dello spazio vuoto esistente tra la stretta pedana e la soglia di ingresso di tale vano, che aveva un'ampiezza di 47 cm. La Corte territoriale ha osservato che tale spazio era notevolmente superiore a quello consentito dall'art. 200 d.P.R. 547/55, che prevede una distanza di soli quattro centimetri tra i bordi delle pedane ed i muri perimetrali. Proprio tale varco determinò la caduta del lavoratore nel vano dell'ascensore, da un'altezza di circa dieci metri, causandone la morte. Le caratteristiche di tale strumentazione hanno indotto i giudici di merito a ritenere dimostrata anche l'ulteriore contestazione riguardante la violazione dell'art. 35, d.lgs. 626/94 che impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate alle lavorazioni da compiere e idonee ai fini della sicurezza.
La precisa descrizione della dinamica dell'infortunio, arricchita dal riferimento ad una serie di elementi probatori emersi nel corso della istruttoria, idonei a sostenere validamente tale ricostruzione, rende manifesta la correttezza del cd. "giudizio esplicativo", che costituisce il necessario presupposto del giudizio controfattuale (così Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Rv.256941), imprescindibile punto di partenza nell'analisi dell'aspetto del rapporto di causalità.
I giudici hanno poi messo in rilievo che il C.G., in qualità di datore di lavoro della vittima, aveva il preciso obbligo non solo di garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro e di predisporre le misure antinfortunistiche necessarie, ma anche di vigilare sul loro rispetto, essendo egli garante della incolumità del lavoratore.
A fronte di tali fondate argomentazioni, la difesa del ricorrente assume che il lavoratore abbia posto in essere un comportamento abnorme ed imprevedibile, suscettibile di interrompere il nesso di causalità tra la violazione delle norme antinfortunistiche ravvisate dai giudici di merito e l'evento mortale.
Prendendo le mosse dalle censure riguardanti il comportamento asseritamente abnorme ed esorbitante del dipendente, intorno al quale ruota la difesa del C.G., occorre rilevare come la Corte territoriale abbia correttamente escluso che la condotta del lavoratore potesse essere da sola idonea ad interrompere il nesso causale con l'evento verificatosi.
Il giudice della sentenza impugnata ha ritenuto che fosse stato rispettato il necessario rapporto di causalità tra la condotta antidoverosa del garante della sicurezza e l'evento lesivo, rapporto che deve ritenersi interrotto, in materia di infortuni sul lavoro, solo nel caso in cui sia dimostrata l'abnormità del comportamento del lavoratore. Ha poi correttamente affermato che la condotta del lavoratore non potesse ritenersi connotata da abnormità, in quanto non esulava dai limiti delle attribuzioni proprie del segmento di lavoro che egli era chiamato a svolgere.
L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme ai principi più volte affermati dalla Corte di legittimità in proposito, ampiamente richiamati nella sentenza impugnata. E' orientamento costante, in materia di infortuni sul lavoro, quello in base al quale la condotta colposa del lavoratore infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’evento, quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute (così ex multis, Sez. 4, n. 21587 del 23/03/2007, Rv. 236721).
Pertanto, può definirsi abnorme soltanto la condotta del lavoratore che si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e sia assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni che gli siano state affidate (così, Sez. 4, n. 38850 del 23/06/2005, Rv. 232420).
Più di recente, allo scopo di fornire una interpretazione maggiormente adeguata della nozione di abnormità, la Corte di legittimità ha affermato, sulla scia della pronuncia delle Sezioni Unite Espenhahn e altri (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261106), la necessità di prendere le distanze dal criterio della imprevedibilità del comportamento del lavoratore, ponendo l'accento sull'aspetto riguardante l'attivazione di un rischio esorbitante dalla sfera governata dal soggetto agente. Si è quindi sostenuto che è definibile abnorme la condotta colposa del lavoratore non tanto quando essa sia imprevedibile, ma quando sia tale "da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (così Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, Rv. 269603).
Deve peraltro aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Ciò in quanto, le disposizioni in materia antinfortunistica, secondo orientamento conforme della giurisprudenza di questa Corte, sono dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad eventuali incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (così, ex multis Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015 Rv. 263497; Sez. 4, n. 38877 del 29/09/2005, Rv. 232421 ).
Orbene, risulta evidente dai principi richiamati, la correttezza del ragionamento seguito dai giudici di merito, i quali hanno sostenuto come non sia possibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da abnormità il comportamento tenuto dal lavoratore deceduto, non essendosi esso realizzato in un ambito avulso dal procedimento lavorativo a cui era addetto e non potendosi sostenere che si trattasse di una condotta eccentrica rispetto alla sfera di rischio governata dal datore di lavoro.
Dalle prove raccolte nel corso della istruttoria, opportunamente evidenziate dai giudici di merito, è emerso che il L.C. aveva il compito di effettuare lavori di copertura, con guaine cementizie, delle pensiline dell'edificio. Per potere svolgere tale lavorazione egli si servì della pedana come montacarichi. La dimostrazione che la pedana fosse adoperata come montacarichi era ragionevolmente desunta dalla presenza, segnalata in sentenza, di tracce di calcinacci su di essa. L'utilizzo di tale strumentazione era quindi compatibile con le esigenze lavorative del dipendente e funzionale alle attività che egli era chiamato a svolgere. Pertanto, l'analisi effettuata dai giudici di merito, circa la mancanza del carattere eccentrico ed esorbitante del comportamento del lavoratore risulta immune da censure logiche e decisamente conforme ai principi affermati in sede di legittimità.
2.1 La difesa sostiene altresì che la Corte territoriale abbia trascurato di valutare una serie di elementi ricavabili dalle testimonianze acquisite nel corso del dibattimento, dalle quali si evincerebbe che l'utilizzo della pedana montata all'interno del vano ascensore era stata frutto di una iniziativa assunta in via del tutto autonoma dal ricorrente e che essa non era funzionale alle esigenze lavorative del cantiere. Invero, si afferma nel ricorso che l'uso della pedana rendeva maggiormente gravoso e disagevole lo svolgimento delle mansioni del lavoratore deceduto e che più di un testimone aveva affermato che all'atto dell'infortunio, non vi erano lavorazioni in corso di svolgimento in quel luogo.
L'osservazione oltre a richiamare l'attenzione della Corte di legittimità su aspetti di fatto, la cui valutazione non è consentita in questa sede, non è idonea a rivelare falle nella struttura argomentativa e logica della motivazione offerta dai giudici di merito. Ammesso pure che non si svolgessero lavorazioni nel luogo in cui è avvenuto l'infortunio, permane, in capo al datore di lavoro l'obbligo di una valutazione completa dei rischi presenti sul posto di lavoro e della formazione in ordine ai rischi connessi alle mansioni dei lavoratori, in relazione ai luoghi in cui esse devono essere svolte (così Sez, 4, n. 45808 del 27/06/2017 Rv. 271079).
Oltre a ciò deve rammentarsi come il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità fisica dei lavoratori, ha il preciso dovere di accertarsi che siano rispettati i presidi antinfortunistici, vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo che gli stessi lavoratori osservino tutte le regole di cautela sui luoghi di lavoro (così ex multis Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014, Rv. 261946). Ne deriva, come evidenziato dai giudici di merito, che alcun esonero di responsabilità può prospettarsi in capo al C.G., anche ove si volesse ipotizzare un comportamento imprudente o negligente del L.C., essendo il datore di lavoro tenuto ad esigere il rispetto delle regole a tutela della incolumità dei lavoratori.
3. Quanto alla posizione del G.G., il ribaltamento del verdetto assolutorio di primo grado nei confronti dell'imputato, impone una valutazione degli elementi che sono stati posti a base della intervenuta decisione della Corte territoriale, al fine di verificare il rispetto dell'obbligo della motivazione cd. "rafforzata" ed il rispetto del diritto dell'imputato di essere giudicato all'esito di un processo equo, in ossequio ai principi della Corte E.D.U., che costituiscono ius receptum nel nostro ordinamento.
3.1 Occorre quindi verificare se la Corte d'appello abbia adempiuto all'obbligo della cosiddetta "motivazione rafforzata", richiesta nella ipotesi in cui il verdetto assolutorio di primo grado sia ribaltato sulla scorta del medesimo compendio probatorio esistente in atti e se, ai fini della diversa decisione assunta, doveva ritenersi indispensabile il nuovo esame dei testi escussi in primo grado, perché era insorta o, comunque, poteva profilarsi una distonia interpretativa delle prove dichiarative utilizzate per la decisione.
Tali tematiche coinvolgono principi che questa Corte ha da tempo elaborato in materia, stratificati in una pluralità di pronunce a cui è necessario fare riferimento.
Sotto il primo profilo, da lungo tempo si è affermato che il giudice di appello, il quale ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle raggiunte dal giudice di primo grado, non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della sentenza di primo grado, delie notazioni critiche di dissenso essendo necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, che consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (così Sez. U., n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229).
Tali principi sono stati successivamente approfonditi ed ampliati, essendosi affermato che, in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell'appello, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della sua incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (così Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679). Si è precisato, sulla base dei principi espressi dalla pronuncia delle Sezioni Unite Mannino, che il giudice debba evidenziare carenze e aporie della decisione non condivisa, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Rv. 261327) e che debba dare alla decisione una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (così Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 del 08/10/2013, Rv. 257332; Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Rv. 254617).
Il tema coinvolge quello della corretta interpretazione del canone di giudizio del "ragionevole dubbio", quale limite alla riforma di una sentenza assolutoria, avendo le Sezioni Unite di questa Corte affermato nella sentenza Dasgupta che: <<per effetto del rilievo dato alla introduzione del canone «al di là di ogni ragionevole dubbio», inserito nel comma 1 dell'art. 533 cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato dalla giurisprudenza quale inderogabile regola di giudizio: v. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), si è più volte avuto modo di puntualizzare che nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno "ogni ragionevole dubbio" (ex plurimis, Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, dep. 2014, Ciaramella, Rv. 262261; Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone, Rv. 253718); posto che, come incisivamente osservato da Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza» (così in motivazione, Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486).
Sotto altro profilo, nel caso in cui la reformatio in peius sia frutto di una diversa valutazione di prove dichiarative, per effetto della sentenza della Corte E.D.U. del 05/07/2011 nel caso Dan c/ Moldavia, si è chiarito che il giudice ha l'obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale e di escutere nuovamente i dichiaranti, qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 29827 del 13/03/2015, Rv. 265139; Sez. 6, n. 44084 del 23/09/2014, Rv. 260623; Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015, Rv. 262985).
La pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso Dasgupta, chiamata a risolvere il profilo della rilevabilità d'ufficio - in sede dì giudizio di cassazione - della violazione dell’art. 6 CEDU, per avere, il giudice d'appello, riformato la sentenza assolutoria di primo grado, esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni di testimoni e senza procedere a nuova escussione degli stessi, ha puntualizzato importanti principi in materia. In particolare, si è ivi affermato che: il mancato rispetto, da parte del giudice dell'appello, del dovere di procedere alla rinnovazione delle fonti dichiarative, in vista di una reformatio in peius, va inquadrato non nell'ambito di una violazione di legge ma in quello di un vizio di motivazione; l’esigenza di rinnovazione della prova dichiarativa si può prospettare anche nell'ambito di un giudizio abbreviato o in caso di impugnazione ai soli effetti civili; la necessità, per il giudice di appello, di procedere anche d'ufficio alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione, sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante; il dovere di rinnovare gli apporti dichiarativi si configura con riguardo a quelli ritenuti decisivi ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
La pronuncia in commento si fa carico di specificare quali siano le prove decisive, affermando il seguente principio: «Costituiscono prove decisive ai fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova- ai fini dell'esito della condanna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267491).
Deve peraltro aggiungersi, che la necessità di provvedere alla rinnovazione della istruttoria, mediante riassunzione della prova dichiarativa, deve escludersi nel caso in cui: 1. L'apporto dichiarativo, che non può formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice; 2. Nell'ambito della prova dichiarativa, non si discuta del suo contenuto probatorio, ma della qualificazione giuridica.
Invero, sul punto, nella motivazione della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite nel caso Dasgupta, si è precisato: «Non potrebbe invece ritenersi "decisivo" un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione della responsabilità (per questo ordine di idee, v. Sez. 6, n. 47722 dei 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879; Sez. 2, n. 41736 dei 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682; Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867; Sez. 6, n. 18456 del 01/0712014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944). Neppure può ravvisarsi la necessità delia rinnovazione della istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., e inquadrabili dall'appellante in una ipotesi di testimonianza pura (v. in tal senso Sez. 3, n. 44006, del 24/09/2015, B., Rv. 265124)»
3.2 Con riferimento al caso in esame occorre rilevare, alla luce dei principi richiamati, come la motivazione della sentenza censurata non sia incorsa nei profili di illegittimità dedotti dalla difesa nel secondo e terzo motivo di ricorso.
Infatti, la sentenza impugnata non è pervenuta alla decisione di condanna sulla scorta di una rivalutazione delle prove orali decisive esaminate dal Tribunale e della loro attendibilità. Il giudice d'appello ha conferito alle prove acquisite il medesimo significato assegnato dal Tribunale, limitandosi a rettificare l'errore di diritto nel quale era incorso il primo giudice, con riferimento all'inquadramento della posizione di garanzia rivestita da G.G. nella vicenda ed agli obblighi che egli era tenuto ad assumersi nei confronti del lavoratore deceduto, di cui era datore di lavoro, in seguito alla sua dislocazione presso il cantiere del C.G..
Il Tribunale, con un ragionamento laconico, aveva ritenuto che non fosse ricollegabile alcuna posizione di garanzia, a salvaguardia della sicurezza sui luoghi di lavoro in capo al G.G., relativamente al rapporto venutosi ad instaurare nell'ambito del cantiere allestito dalla "C.G. Costruzioni". Aveva in tal modo trascurato di considerare che G.G. era datore di lavoro dell'operaio deceduto e che quest'ultimo era stato impiegato nel cantiere del C.G. per conto e nell'Interesse di G.G., come dimostrato dalla circostanza che la denuncia presso l'INAIL era a firma del G.G..
La Corte territoriale, ripercorrendo la vicenda negli stessi termini rappresentati dal giudice di primo grado, ha rilevato l'errore di diritto in cui era incorso il Tribunale.
Il dovere di motivazione rafforzata, in questo caso, risulta compiutamente adempiuto attraverso il richiamo ai principi di diritto che regolano la fattispecie concreta ed a quelli più volte ribaditi dalla Corte di legittimità nella ipotesi del distacco del lavoratore e di lavori affidati in appalto, vertendosi in una situazione assimilabile ad esse.
Pertanto, non può ravvisarsi nella sentenza impugnata alcun vizio di legittimità che derivi dalla violazione delle regole dell'immediatezza e dell'oralità, in quanto la Corte territoriale ha interpretato e valutato in modo conforme al primo giudice le prove dichiarative assunte. Per altro verso, neppure può affermarsi che la Corte territoriale sia incorsa nella violazione del principio del ragionevole dubbio, essendo la condanna conseguenza della correzione di un errore di diritto, che è aspetto logicamente incompatibile con la nozione del ragionevole dubbio.
3.3 Quanto alla individuazione delle responsabilità del ricorrente, nella stringata motivazione, il Tribunale è pervenuto alla assoluzione di G.G., sulla base di limitate considerazioni in fatto che si pongono in evidente contrasto con gli insegnamenti di questa Corte in materia di distacco e che non si confrontano con la specifica posizione di garanzia che la legge riconosce in capo al datore di lavoro. La vicenda posta all'osservazione della Corte territoriale, riguarda una ipotesi nella quale non era stata avviata una formale procedura di distacco. Tuttavia, il lavoratore L.C., che era dipendente della ditta "C.E.R." di G.G., si trovava impiegato nel cantiere riconducibile a C.G..
Nei fatti, i giudici di appello, hanno correttamente ritenuto che la situazione fosse assimilabile a quella di un distacco del lavoratore in quanto il L.C., alle formali dipendenze di G.G., era stato inviato ad effettuare lavorazioni presso il cantiere allestito dal C.G..
Sul punto, è d'uopo ricordare che, secondo costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita (così ex multis Sez. 4, n. 37079 del 24/06/2008, Ansaioni, Rv. 241021).
Ciò discende, in via principale, dal disposto dell’art. 2087 cod.civ., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là di specifiche disposizioni, è comunque garante dell'incolumità fisica di coloro che prestano la loro opera nell'impresa, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente deve essere a lui imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40, comma 2, cod. pen. (così in motivazione Sez. 4, n. 37079 del 24/06/2008, Ansaioni, Rv. 241021, cit.).
Si tratta di orientamenti elaborati dalla Corte di legittimità sin dai primi anni '90, come ha ricordato la sentenza impugnata, che cita una pronuncia di questa Sezione (Sez. 4, n. 100043, del 8/7/1994, Rv. 200149) riguardante il caso di un operaio, dipendente di una ditta, deceduto nell'allestimento di un ponteggio presso il cantiere facente capo ad un'altra impresa.
A tali principi si è correttamente riferita la Corte d'appello nella decisione del caso all'esame, rimarcando che il ricorrente, consapevole della dislocazione del proprio dipendente presso il cantiere allestito dal C.G., avrebbe dovuto attivarsi per verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza ivi esistenti e provvedere alla somministrazione delle dovute informazioni al lavoratore in relazione alle condizioni di rischio ivi prospettabili.
Tale inquadramento della vicenda è validamente sostenibile anche a seguito della modifica normativa introdotta dall'art. 3, comma sesto, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, la quale pur prevedendo a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, non esclude ed anzi impone l'obbligo, a carico del datore di lavoro distaccante, di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato (così Sez. 4, n. 31300 del 19/04/2013, Rv. 256397). Nel caso all'esame della pronuncia appena richiamata, la Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro distaccante, il quale aveva dato corso a tale procedura senza essersi accertato della sussistenza delle condizioni di sicurezza del cantiere ove il dipendente avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa. Ciò in base alla considerazione che il distaccante, prima che abbia corso il distacco, ha la titolarità degli obblighi tipici della posizione datoriale.
Immune da vizi è pertanto la motivazione della sentenza impugnata, rispetto alla quale il ricorso si propone sostanzialmente come aspecìfico, avanzando censure che non si confrontano con le argomentazioni illustrate dalla Corte territoriale.
3.4 Parimenti infondata risulta essere la doglianza riguardante la genericità del contenuto dell'atto di appello del P.M. avendo egli rappresentato, sia pure succintamente ed attraverso il richiamo al ricorso della parte civile, le ragioni del proprio dissenso in ordine alla pronuncia assolutoria.
4. Al rigetto dei ricorso, segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di costituzione in giudizio delle parti civili, liquidate come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore delle parti civili Omissis, che liquida in euro tremila, oltre accessori come per legge.
In Roma, così deciso il 27 febbraio 2018