Cassazione Penale, Sez. 5, 20 luglio 2018, n. 34469 - Infortunio con una macchina fustellatrice e reato di sfruttamento dell'immigrazione clandestina


Presidente: FUMO MAURIZIO Relatore: MOROSINI ELISABETTA MARIA Data Udienza: 30/05/2018

 

Fatto

 


1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Firenze ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna, all'esito di giudizio abbreviato, dei coniugi J.C. e W.Y.X. per il reato di sfruttamento dell'immigrazione clandestina di W.H., utilizzandolo come operaio nella propria impresa di confezioni (capo A), limitando tuttavia il tempus commissi delicti dal 2008 (anziché dal marzo 2006); ha confermato, inoltre, la condanna di J.C. per gli ulteriori reati, allo stesso ascritti, di sequestro di persona (capo B) e lesioni colpose gravi in danno di W.H. che, a seguito di un infortunio sul lavoro, aveva riportato una "ustione di II grado alla mano destra", guarita in 117 giorni (capo C). In conseguenza della delimitazione temporale del periodo di permanenza del reato sub A), la Corte di appello ha ridotto ad anni uno e mesi dieci di reclusione la pena inflitta a J.C. e a mesi nove quella inflitta a W.Y.X..
2. Avverso la sentenza ricorrono gli imputati personalmente.
3. J.C. articola cinque motivi, con i quali censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione.
3.1 Con il primo deduce l'insussistenza dei presupposti del reato di cui all'art. 605 cod. pen. (capo B).
Secondo il ricorrente il semplice fatto che la porta del magazzino ove lavorava W.H. fosse chiusa a chiave non sarebbe sufficiente a configurare il delitto di sequestro di persona, in difetto di una apprezzabile privazione della libertà personale, ricavabile dalla circostanza che il lavoratore avrebbe potuto "licenziarsi" e abbandonare il proprio posto di lavoro in qualunque momento.
La pratica di chiudere i lavoratori all'interno della fabbrica era invalsa già da epoca anteriore alla assunzione della gestione aziendale da parte del ricorrente.
Secondo le dichiarazioni della persona offesa le chiavi erano conservate da tale H.X.P..
3.2 Con il secondo motivo il ricorrente assume che, tutt'al più, sarebbero ravvisabili gli estremi del reato di violenza privata, poiché la minaccia di trattenere l'ultimo salario in caso di dimissioni, realizzerebbe solo una lesione della sfera di libertà psichica del soggetto passivo e non di quella fisica.
3.3 Con il terzo motivo contesta la sussistenza del reato di lesioni colpose (capo C).
L'infortunio sul lavoro sarebbe stato provocato da una grave negligenza del lavoratore che avrebbe inserito la mano destra nella macchina fustellatrice,
rimanendovi incastrato e riportando un'ustione di secondo grado a causa della elevata temperatura.
Non è mai stata individuata quale fosse la macchina cui era addetto l'operaio al momento dell'infortunio, la perizia era stata eseguita su un macchinario simile, senza riscontrare difetti o malfunzionamenti.
Non vi sarebbe prova, quindi, di problemi di accensione e spegnimento della macchina.
Né sarebbe dimostrato che il lavoratore non fosse stato adeguatamente istruito dal datore di lavoro.
3.4 Con il quarto e il quinto motivo il ricorrente lamenta una riduzione di pena eccessivamente contenuta, a fronte della significativa delimitazione del tempus commissi delicti, nonché il diniego della sospensione condizionale della pena.
4. W.Y.X. propone quattro motivi con i quali deduce violazione di legge e vizio di motivazione.
4.1 Con il primo lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
La ricorrente era imputata del reato di cui al capo A) in concorso con il marito, J.C., in qualità di titolare dell'impresa individuale Atena, attiva per pochi giorni nel mese di novembre 2006.
Per il periodo successivo J.C. era chiamato a rispondere in concorso con W.J., giudicato separatamente.
Sulla scorta di quanto ritenuto in sentenza, l'occupazione di W.H. presso le imprese di J.C. aveva avuto inizio nel 2008.
Ergo la ricorrente avrebbe dovuto essere assolta perché nessun fatto le era contestato per il periodo successivo al novembre 2006.
Avrebbe pertanto errato la Corte di appello nel confermare la condanna della ricorrente sul presupposto dell'aiuto fornito al marito, visto che si trattava di fatto nuovo e diverso rispetto a quello in contestazione.
I giudici di merito avrebbero ricostruito la responsabilità della ricorrente, cucendole addosso il ruolo di amministratrice di fatto, mai neppure ipotizzato nella ricostruzione della pubblica accusa, visto che non le erano contestati gli episodi integranti i reati sub capi B) e C).
Peraltro, in base alla deposizione della persona offesa, l'unica condotta di rilievo sarebbe consistita nel fatto che la ricorrente "preparava i pasti" (pagina 7 del ricorso).
4.2 Con il secondo, il terzo e il quarto motivo, la ricorrente si duole della omessa declaratoria di prescrizione del reato, cessato, per lei, in base alla contestazione, nel 2006; del contrasto tra sentenza ed esiti probatori; della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
 

 

Diritto

 


Il ricorso di W.Y.X. è fondato sul punto afferente l'estinzione del reato per prescrizione, quello di J.C., invece, è inammissibile.
1. Il ricorso di W.Y.X..
1.1 Il ricorso in esame non presenta profili di inammissibilità sul capo attinente alla responsabilità della ricorrente in ordine all'unico reato ascrittole (capo A).
Va pertanto rilevato che, in difetto di sospensioni, il termine massimo di prescrizione, pari ad anni sette e mesi sei, è spirato in data 1 agosto 2016, nelle more tra il giudizio di appello e quello di cassazione.
Anche per le ragioni che verranno illustrate infra (cfr. paragrafo 1.3), non ricorrono elementi che possano condurre, ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., al proscioglimento nel merito dell'imputata per tutta o parte della condotta, contestata sino al febbraio 2009.
Ne consegue che, agli effetti penali, la sentenza impugnata deve essere annullata, perché il reato è estinto per prescrizione.
1.2 Il quarto motivo, attenendo al trattamento sanzionatorio, risulta assorbito.
1.3 Residuano il primo e il terzo motivo che possono essere esaminati in unitariamente, nella prospettiva degli effetti civili.
I motivi sono infondati.
1.3.1 Secondo ius receptum per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'Imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 16 del 19 giugno 1996, Di Francesco, Rv. 205619; Sez. U, n. 36551 del 15 luglio 2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 31617 del 26 giugno 2015, Lucci, Rv. 264438). 
Ne consegue che l'obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato: la nozione strutturale di "fatto" contenuta negli artt. 516 e ss. cod. proc. pen. va coniugata, infatti, con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del Giudice) risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 2 n. 16817 del 27 marzo 2008, Muro, Rv. 239758; tra le ultime Sez. 5 n. 21226 del 15 settembre 2016, dep. 2017, Di Giovanni Rv. 270044).
Inoltre la contestazione non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito (tra le altre Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Cutrera, Rv. 261741).
Nella specie non si è verificata una trasformazione radicale del fatto, né si apprezza una menomazione del diritto di difesa per le ragioni che verranno esposte al paragrafo che segue, trattato anche per il punto concernente la responsabilità della W.J., in relazione al terzo motivo.
1.3.2 Sin dalla sentenza di primo grado, la ricorrente è stata ritenuta concorrente con il marito nel reato di sfruttamento dell'immigrazione clandestina (capo A), non solo per essere stata la titolare formale dell'Impresa Atena, ma anche per aver fornito un contributo morale e materiale alla condotta illecita del marito e, dunque, non solo per pochi giorni nel mese di novembre 2006 ma per l'intero arco temporale interessato dalla contestazione, sino al febbraio 2009.
Ciò si ricava, sotto il profilo formale, dallo stesso tenore dell'imputazione che, al capo A), fa riferimento al concorso di persone nel reato. Mentre, al contrario di quanto sostenuto in ricorso, non viene menzionata alcuna "posizione di garanzia", di talché il cenno alla qualifica di titolare dell'impresa Atena della ricorrente ha valore meramente indicativo senza assolvere a stringenti pretese definitorie del ruolo assunto nella vicenda.
Inoltre, sotto il profilo sostanziale, già il Tribunale aveva enucleato lo specifico contributo offerto dalla W.Y.X. alla commissione del reato nei termini successivamente ribaditi dalla Corte di appello come segue: «coadiuvando il marito J.C. nella gestione della fabbrica e del contiguo dormitorio/refettorio, dettando i ritmi di lavoro, programmando i pasti e sostituendo il marito in sua assenza» (pagina 11 sentenza di appello). 
In punto di responsabilità, è appena il caso di rimarcare che per la configurabilità del concorso di persone nel reato è sufficiente che il concorrente abbia posto in essere un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato (tra le altre Sez. 6, Sentenza n. 1986 del 06/12/2016 dep. 2017, Salamone, Rv. 268972).
La ricorrente invoca esiti probatori asseritamente difformi rispetto a quelli posti a fondamento della decisione di condanna (pagine 9-12 del ricorso), dimenticando che, però, a(e esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di un diverso, e per il ricorrente più adeguato, apprezzamento delle risultanze processuali (Sez. U, 30/4/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944).
1.3.3 Le statuizioni civili rimangono, pertanto, ferme.
2. Il ricorso di J.C..
2.1 Il primo e il secondo motivo, che si appuntano sul reato di cui all'art. 605 cod. pen. (capo B), sono manifestamente infondati.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il delitto di sequestro di persona, non implicando necessariamente l’assoluta costrizione della libertà di movimento della vittima, si configura anche quando la condotta dell'imputato lasci residuare una possibilità di fuga, attuabile però soltanto con iniziative imprudenti, comportamenti elusivi della vigilanza e, comunque, con mezzi artificiosi la cui adozione sia scoraggiata dal timore di ulteriori pericoli e danni alla persona (Sez. 4, n. 7962 del 06/12/2013, dep. 2014, L., Rv. 259278). È sufficiente l'impossibilità della vittima di recuperare la propria libertà di movimento anche relativa sotto il profilo spaziale o temporale, a condizione che sia giuridicamente apprezzabile (Sez. 5, n. 28509 del 13/04/2010, D.S., Rv. 247884).
Il reato, quindi, è certamente integrato dalla condotta di chi, come nella specie, chiuda a chiave (o disponga di chiudere a chiave) i propri dipendenti all'interno di un locale, segregandoli per l'intera giornata di lavoro.
Non può revocarsi in dubbio che in tale situazione venga lesa la libertà di movimento del soggetto passivo, non quella psichica di autodeterminazione che caratterizza la diversa e più tenue fattispecie di cui all'art. 610 cod. pen. (Sez. 5, Sentenza n. 49610 del 14/10/2014, Ammazzagatti, Rv. 261813).
Sono del tutto irrilevanti le circostanze che le chiavi erano tenute da tale H.X.P. e che la pratica di chiudere i lavoratori all'interno della fabbrica era invalsa già da epoca anteriore alla assunzione della gestione aziendale da parte del ricorrente, considerato che, al più, la eventuale responsabilità altrui si aggiungerebbe a quella del ricorrente, certo non la farebbe venir meno.
2.2 Il terzo motivo, concernente l'infortunio sul lavoro (capo C), è manifestamente infondata.
La sentenza impugnata àncora la responsabilità colposa del ricorrente a circostanze decisive emerse dalle prove raccolte.
La macchina fustellatrice, alla quale era addetto il lavoratore al momento dell'infortunio, presentava difficoltà nel meccanismo di accensione e spegnimento, tanto che era stato lo stesso J.C. a insegnare a W.H. che «per sbloccare la macchina quando un foglio vi restava incastrato, doveva inserire la mano nella pressa senza interrompere il ciclo lavorativo, ma sospendendolo con l'apposita bandella per alcuni attimi» (pagina 9 sentenza impugnata).
Il difetto di funzionamento si era manifestato con evidenza al momento dell'infortunio quando «accadde che la macchina nonostante l'arresto con la bandella eseguito dall'H. per estrarre il foglio inceppato, ripartì improvvisamente da sola, per cui la mano gli restò incastrata negli ingranaggi in movimento» e, inoltre, «per bloccare la macchina onde estrarre la mano del poveretto, i compagni non poterono fare altro che staccare la spina della corrente elettrica. Ciò dimostra che la macchina era priva di sistemi di sicurezza di arresto di emergenza /fungo rosso di stop) ovvero questi non funzionavano» (pagina 9 sentenza impugnata).
Il ricorrente non si confronta con questa motivazione, ma sottopone alla Corte il proprio personale giudizio, soggettivo e parziale, degli atti processuali, richiamando esiti probatori irrilevanti (il risultato della perizia compiuta su altro macchinario) o principi giuridici, in tema di colpa del lavoratore, contrari agli arresti giurisprudenziali, se non addirittura inconferenti.
Invero la corte di cassazione è consolidata nel riconoscere l'obbligo per il datore di lavoro di apprestare dispositivi e misure di sicurezza tali da tutelare il lavoratore anche contro gli incidenti derivanti da imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso. Il datore di lavoro è chiamato a rispondere dell'omissione colposa di un apprestamento di difesa tale da impedire il sorgere o da neutralizzare il pericolo connesso all'impiego di macchine, degli impianti e delle attrezzature della struttura a cui fa capo.
Le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti il caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e che sia del tutto imprevedibile o inopinabile (tra le ultime Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 dep. 2015, Bonelli, Rv. 261946).
Nella specie, la responsabilità del datore di lavoro è manifesta: non solo ha adibito il lavoratore a un macchinario difettoso, ma lo ha addirittura istruito in maniera da ovviare al malfunzionamento attraverso una prassi pericolosa che, per non interrompere il ciclo produttivo, esponeva il dipendente proprio a quel rischio per la propria incolumità che poi si è concretizzato con l'infortunio in rassegna.
2.3 Del pari inammissibili sono il quarto e il quinto motivo, poiché tesi ad evidenziare non l'illogicità o contraddittorietà della sentenza, ma soltanto la pretesa ingiustizia della decisione su due punti — determinazione della pena e della concessione della sospensione condizionale — riservati alla discrezionalità del giudice di merito.
3. Discende l'annullamento senza rinvio, ai fini penali, della sentenza impugnata nei confronti di W.Y.X., perché il reato alla stessa ascritto è estinto per intervenuta prescrizione. Mentre il ricorso deve essere rigettato agli effetti civili.
Il ricorso di J.C. va dichiarato inammissibile, con condanna al pagamento delle spese del procedimento e della somma, che si stima equa, di euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Deriva, inoltre, la condanna di entrambi i ricorrenti al rimborso, in solido, delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Comune di Prato, che, tenuto conto di natura e caratteri dell'opera prestata, possono liquidarsi in complessivi euro 1.200,00 oltre accessori come per legge.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio ai fini penali la sentenza impugnata nei confronti di W.Y.X., perché il reato alla stessa ascritto è estinto per intervenuta prescrizione; rigetta il ricorso della predetta ai fini civili.
Dichiara inammissibile il ricorso di J.C. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Condanna entrambi i ricorrenti al rimborso in solido delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Comune di Prato, che liquida in complessivi euro 1.200,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso il 30/05/2018