Cassazione Penale, Sez. 2, 20 luglio 2018, n. 34293 - Responsabilità da reato degli enti ex d.lgs. 231/2001: è ammissibile anche il sequestro c.d. “impeditivo”


Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO Relatore: RAGO GEPPINO Data Udienza: 10/07/2018

 

Fatto

 


1. Con decreto del 30/01/2018, il giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Trani, ordinava, ai sensi degli artt. 321 cod. proc. pen., 322 ter, 640 bis, 640 quater cod. pen., il sequestro preventivo: di tre impianti fotovoltaici; della somma di € 7.907.245,44 nella disponibilità di A.C., C.C., V.C. e della società Sunflower s.r.l.; delle ulteriori somme non ancora percepite, e, in subordine, in caso di mancato reperimento, di beni per un importo equivalente. 
Il suddetto sequestro era stato ordinato in quanto i suddetti soggetti (persone fisiche e giuridica) erano indagati per il reato di truffa aggravata, ex art. 640 bis cod. pen., perché, secondo il capo d'incolpazione, avevano indebitamente percepito erogazioni pubbliche attraverso l'artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche, solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura, che aveva indotto in errore il Ministero per lo Sviluppo Economico per il tramite del Gestore dei Servizi Economie (GSE) e determinato, quindi, l'ingiusto profitto di Sunflower consistente nel percepimento di tariffe incentivanti per un importo pari ad € 7.134.326,38 e di € 772.919,06 a titolo di ritiro dedicato (RID).
Proposta istanza di riesame, il Tribunale del riesame di Trani la respingeva con ordinanza del 12/03/2018.
2. Contro la suddetta ordinanza, la Sunflower s.r.l. - società sottoposta ad indagine ex combinato disposto degli artt. 5/1 lett. a) e 24 Dlgs n. 231/2001 - ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 7 DLGS 387/2003, 2 - 6 D.M. 19/02/2007 La ricorrente ha premesso che, secondo l'ipotesi accusatoria, gli impianti fotovoltaici in questione posti sulla copertura di serre, dovessero rispettare, per avere accesso all'incentivazione, l'obbligo di coltivazione continuativa e permanente durante tutta la durata dell'erogazione degli incentivi.
Sennonché, la difesa contesta la suddetta interpretazione in quanto, a suo avviso, dalla stessa lettura delle suddette norme, si evince che «non esiste una tipologia specifica di installazione o di tariffe incentivante per le cd. "serre fotovoltaiche", ma per moduli fotovoltaici integrati ovverosia installati come elementi costruttivi (e.g., rivestimento) di una struttura edilizia "di qualsiasi funzione o destinazione". In sostanza, le cosiddette "serre fotovoltaiche" non esistono come categoria autonoma nel sistema di cui al D.M. 19 febbraio 2007, ma rientrano nella tipologia 1 o 10 del summenzionato Allegato 3; le stesse potranno dunque accedere alla tariffa per impianti di cui all'art. 2, comma 1, lettera b3). Il D.M. 19 febbraio 2007 non prescrive alcun ulteriore o specifico requisito per le serre fotovoltaiche, in ragione del fatto che l'incentivo è assegnato alla produzione di energia "pulita" da impianti fotovoltaici e, nel caso di specie, da moduli fotovoltaici posti in sostituzione dei tetti o di parte di questi di "strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione", essendo qui indifferente ai fini dell' accesso agli incentivi stabiliti dal Ministero dello Sviluppo Economico che la struttura edilizia sia una serra o altro manufatto [....] a differenza di quanto asserisce l'ordinanza impugnata, non vi è alcuna incompatibilità concettuale tra la "sostituzione" della copertura dei fabbricati e la realizzazione di un "nuovo" impianto. L'impianto è nuovo perché nuovi sono i 
moduli fotovoltaici di cui si compone. Si realizza mediante sostituzione in quanto i moduli fotovoltaici sono installati come "rivestimento di tetti, coperture, facciate di edifici e fabbricati", in sostituzione dei materiali di cui si sarebbe composto tale rivestimento e avendo cura di preservare "la medesima inclinazione e funzionalità architettonica della superficie rivestita" [....] il D.m. 19/02/2007 riconosce l'accesso agli incentivi ai nuovi impianti realizzati tramite sostituzione della copertura di edifici senza nulla imporre in merito alla destinazione degli edifici medesimi, senza individuare alcun particolare regime di accesso alle tariffe incentivanti per quella peculiare tipologia di fabbricati costituita dalle serre»;
2.2. LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 7 DLGS CIT. 2/1 LETT. i) - 10 D.M. 19/02/2007
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale, come ulteriore argomento, ha sostenuto che l'obbligo di adibire le serre a coltivazione continuativa, derivava da apposite linee guida elaborate sin dal marzo-aprile 2009 dal GSE e che tali guide costituivano fonti normative secondarie di carattere contrattuale che avevano avuto la funzione di dettagliare le condizioni per l'accesso e la stipula della convenzione.
La difesa contesta tale affermazione sostenendo, al contrario, che il GSE non era titolare del potere di introdurre nuove condizioni per l'accesso agli incentivi in quanto nessuna norma glielo concedeva e, quindi, "le guide" pubblicate non potevano essere considerate una fonte di diritto.
2.3. LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 10-20 D.M. 06/08/2010
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale, come ulteriore argomento, ha sostenuto che l'obbligo di adibire le serre a coltivazione continuativa, derivava, altresì, dall'art. 20/5 D.m. 06/08/2010 a norma del quale «Rientrano nelle tipologie di cui all'allegato 3 del decreto ministeriale 19 febbraio 2007 le serre fotovoltaiche nelle quali i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per tutta la durata dell'erogazione della tariffa incentivante, a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura».
La difesa della ricorrente contesta il suddetto argomento, sostenendo che «tale previsione, però, lungi dall'introdurre una nuova condizione di accesso agli incentivi non prevista dal Secondo Conto Energia, si limita a specificare che, aN'interno del genus costituito dagli impianti fotovoltaici con integrazione architettonica posta sulla copertura di serre (previsto dalla Tipologia 1 dell'allegato 3 del D.M. 19 febbraio 2007) "rientra" altresì la species delle serre fotovoltaiche nelle quali i manufatti sono adibiti, per tutta la durata della tariffa, alla coltivazione agricola o alla floricoltura [....] La ratio di questa specificazione va ricavata alla luce del D.M. 6 agosto 2010 nel suo complesso considerato. Infatti, l'art. 10 del D.M. 6 agosto 2010 ha previsto "Premi per specifiche tipologie e applicazioni di impianti fotovoltaici", attribuendoli proprio agli "impianti i cui moduli costituiscono elementi costruttivi di pergole, serre, barriere acustiche, tettoie e pensiline, così come definiti all'articolo 20, commi 2, 3, 4 e 5". La specificazione, dunque, era funzionale, attraverso il rinvio operato dall'art. 10 del D.M. 6 agosto 2010, a restringere l'applicabilità del premio previsto da quest'ultimo a quei soli impianti insistenti sulla copertura delle serre che avessero anche garantito lo svolgimento continuativo dell'attività di coltivazione. Premio che non è stato né richiesto né ottenuto da Sunflower [....] ove si ritenesse che l'art. 20/5 avesse davvero inteso restringere retroattivamente i requisiti di accesso agli incentivi di cui al Secondo Conto Energia, tale norma sarebbe illegittima per violazione del divieto di retroattività dei regolamenti posto dall'art. 11 disp. prel. Cod. civ. e si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost. in relazione ai principi, anche di diritto dell'Unione Europea, di irretroattività, tutela dell'affidamento e certezza del diritto»;
2.4. LA VIOLAZIONE DELL'ART. 20/5 D.M.CIT.
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale aveva ritenuto sussistente per gli impianti integrati su serra un obbligo di coltivazione per l'accesso e l'erogazione degli incentivi di cui al Secondo Conto energia, da ricavarsi sulla base delle disposizioni di cui alla "Guida" del GSE dell'aprile 2009 e dell'art. 20, comma 5, del D.M. 6 agosto 2010 che farebbero riferimento al fatto che le serre debbano essere "dedicate" alle coltivazioni agricole o alla floricoltura.
Ad avviso della difesa, invece, «[....] il preteso requisito della "dedizione" delle serre alle coltivazioni agricole o alla floricoltura di cui alla "Guida" del GSE dell'aprile 2009 e all'art. 20, comma 5, del D.M. 6 agosto 2010 non può certamente essere interpretato come riferito alla costante presenza in serra di piante in crescita o visibili, a meno di non voler interpretare la normativa secondo dinamiche del tutto estranee all'agricoltura e floricoltura. Quello che potrebbe contare, al più, è che le serre fotovoltaiche abbiano mantenuto la destinazione d'uso alla coltivazione agricola o alla floricultura e che vengano svolte attività che dimostrino - appunto - la "dedizione" alla coltivazione, come è certamente avvenuto nel caso che ci occupa. In queste attività certamente rientra anche la fase del riposo del terreno quale fase prodromica necessaria all'avvicendamento di diverse colture sullo stesso [....] il Tribunale del Riesame ha applicato in modo errato l'art. 20, comma 5, del D.M. 6 agosto 2010, stravolgendo del tutto la ratio dell'art. 7 del D.lgs. n. 387 del 2003, posto che quest'ultimo era espressamente teso a incentivare la produzione di "elettricità [...] mediante conversione fotovoltaica della fonte solare" attraverso "una equa remunerazione dei costi di investimento e di esercizio" e non certo l'attività di coltivazione attraverso un'erogazione di incentivi subordinata all'esercizio della coltivazione»;
2.5. LA VIOLAZIONE DELL'ART. 13 DLGS 387/2003
La difesa della ricorrente ha premesso che era stata sottoposta a sequestro la somma di € 772.919,06 corrispondente ai corrispettivi percepiti dalla Sunflower a titolo di ritiro dedicato (RID).
Ad avviso della difesa, la suddetta somma non avrebbe potuto essere sequestrata in quanto le somme percepite a titolo di RID sono versate dal GSE «come corrispettivo dell'energia effettivamente prodotta e concretamente immessa nel sistema elettrico, per il solo fatto di derivare da fonte rinnovabile»; quindi, sarebbe errata l'affermazione del Tribunale secondo il quale si tratterebbe di "una sorta di prezzo di favore" in quanto «il prezzo era lo stesso tanto per gli impianti integrati sui tetti che per quelli al suolo e soprattutto prescinde dal riconoscimento degli incentivi stabiliti dal conto energia»;
2.6. CARENZA DEL FUMUS DELICTI
Ad avviso della difesa «nessun argomento è stato portato dai Giudici del Riesame per contestare quanto dimostrato dalla difesa, ovvero che le serre sono state effettivamente pensate e realizzate per esercitarvi l'attività florovivaistica, considerato che: (i) le stesse presentano caratteristiche strutturali peculiari per permettere la floricoltura, piuttosto che per la massimizzazione dell' energia elettrica, tanto è vero che i moduli fotovoltaici non sono posti su tutta la copertura ma solo su parte di questa per garantire la corretta illuminazione; (ii) all'epoca il Gruppo Ciccolella era un'eccellenza italiana riconosciuta anche all'estero e leader indiscusso del settore florovivaistico»;
2.7. LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 19-53 DLGS 231/2001
Ad avviso della difesa il sequestro preventivo di cui all'art. 321/1 cod. proc. pen. (cd. impeditivo) non sarebbe ammissibile nei confronti degli enti come si desume non solo dall'art. 53 dlgs 231/2001 che richiama l'art. 321 limitatamente ai commi 3, 3 bis e 3 ter, escludendo il riferimento al comma primo, ma, anche a livello sistematico in quanto le finalità precauzionali nei confronti di una persona fisica sarebbe del tutto estranee all'ente per il quale è stata previsto il sequestro solo funzionale alla successiva confisca, anche perché, se così non fosse si verrebbe a creare una sovrapposizione tra il sequestro impeditivo e l'interdizione dell'attività.
Inoltre, ai fini del fumus delieti, occorrerebbe provare non solo gli indizi del reato presupposto, ma anche tutti gli altri elementi che fondano la responsabilità dell'ente (cd. fumus allargato), ossia: a) che il reato sia ricompreso fra quelli previsti dalla stesso decreto; b) che l'autore si trovi in posizione apicale o subordinata all'interno dell'ente; c) l'interesse per l'ente o il vantaggio dal medesimo ottenuto dal reato, d) la colpa organizzativa. Sul punto, il tribunale si era limitato solo a vagliare la fondatezza del fumus del delitto commesso dalle persone fisiche senza considerare tutti gli altri elementi che determinano la > 
responsabilità da reato dell'ente, motivando, peraltro, in modo apparente sui suddetti presupposti applicativi del sequestro finalizzato alla confisca di € 772.919,06;
2.8. Con memoria, pervenuta il 30/06/2018, la difesa della ricorrente ha ulteriormente illustrato il contesto normativo in cui si inserisce la vicenda per cui è processo, ribadendo, pertanto, le censure dedotte.
 

 

Diritto

 


1. IL FUMUS DE LI CTI DELL'ART. 640 BIS COD. PEN.
L'ipotesi accusatoria risultante dalla lettura del capo d'incolpazione (riportato in nota 1 dell'ordinanza impugnata), riguarda l'artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche, solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura, con conseguente induzione in errore del Ministero per lo Sviluppo Economico per il tramite del Gestore dei Servizi Economici (GSE) e conseguimento di un ingiusto profitto consistente nel percepire le "tariffe incentivanti previste dal secondo Conto Energia di cui al D.M. del 19/02/2007 per l'importo di € 7.134.326,38 nonché della tariffa a titolo di RID (ndr: ritiro dedicato) per l'importo di € 772.919,06": cfr capo d'incolpazione.
Il suddetto importo fu percepito a seguito della stipula di tre convenzioni in base alle quali, appunto, il GSE riconobbe gli incentivi sul falso presupposto che le serre sulle quali erano stati posti gli impianti fotovoltaici, fossero "dedicate a coltivazioni agricole e a floricoltura".
Si tratta, quindi, di una tipica truffa contrattuale la cui attività decettiva va individuata nel momento della stipula delle convenzioni, ossia "dal 14/11/2011 all'attualità" così come indicato correttamente nel capo d'incolpazione.
Va anche precisato, in punto di fatto, che si trattava di un «impianto fotovoltaico con integrazione architettonica ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera b3), del D.M. 19/02/2007, essendo stato realizzato sul tetto di una serra ed i moduli sono installati con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falsa, i cui componenti non modificano la sagoma della serra stessa e la superficie dell'impianto non è superiore a quella del tetto, risultando integrati secondo le tipologie di cui all'allegato 3 del D.M. 19/02/2007» (pag. 14 ordinanza impugnata in cui il Tribunale riporta l'asseverazione del direttore dei lavori, ing. Marco Vito Alberto M..
2. Le censure dedotte ed illustrate supra in parte narrativa ai §§ 2.1.- 2.2. - 2.3., ruotano tutte su quale sia la normativa applicabile alle Convenzioni stipulate dalle parti.
La tesi accusatoria, fatta propria dal Tribunale, sostiene che gli impianti fotovoltaici in questione, realizzati sui tetti delle serre, avrebbero potuto usufruire degli incentivi di cui al cit. D.m., solo ove le serre fossero state "dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura" anche perché «tale obbligo derivava ex se dalla sottoscrizione della convenzione con il GSE che, appunto risultava a monte disciplinata dalla predisposizione di regole e parametri che, con la sottoscrizione del contratto, i responsabili hanno pacificamente accettato e recepito» (pag. 8 ordinanza impugnata).
La tesi difensiva, ritiene esattamente il contrario perché «non esiste una tipologia specifica di installazione o di tariffe incentivante per le cd. "serre fotovoltaiche", ma per moduli fotovoltaici integrati ovverosia installati come elementi costruttivi (e.g., rivestimento) di una struttura edilizia "di qualsiasi funzione o destinazione". In sostanza, le cosiddette "serre fotovoltaiche" non esistono come categoria autonoma nel sistema di cui al D.M. 19 febbraio 2007, ma rientrano nella tipologia 1 o 10 del summenzionato Allegato 3; le stesse potranno dunque accedere alla tariffa per impianti di cui all'art. 2, comma 1, lettera b3). Il D.M. 19 febbraio 2007 non prescrive alcun ulteriore o specifico requisito per le serre fotovoltaiche [....]».
3. La censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.
Il punto nodale della problematica consiste nel verificare quale fosse la normativa vigente al momento (14/11/2011) in cui le Convenzioni furono stipulate.
Il D.M. del 2007, all'art. 2/1 lett. b3) definisce l'impianto fotovoltaico con Integrazione architettonica (cioè quello per cui è processo) come «l’impianto fotovoltaico i cui moduli sono integrati, secondo le tipologie elencate in allegato 3, In elementi di arredo urbano e viario, superfici esterne degli involucri di edifici, fabbricati, strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione».
A sua volta l'allegato 3 ("tipologie di interventi valide ai fini de! riconoscimento deN’integrazione architettonica") prevede le seguenti dieci tipologie: «Tipologia specifica 1: Sostituzione dei materiali di rivestimento di tetti, coperture, facciate di edifici e fabbricati con moduli fotovoltaici aventi la medesima inclinazione e funzionalità architettonica della superficie rivestita, Tipologia specifica 2. Pensiline, pergole e tettoie in cui la struttura di copertura sia costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto; Tipologia specifica 3: Porzioni della copertura di edifici in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano il materiale trasparente o semitrasparente atto a permettere l’illuminamento naturale di uno o più vani interni; Tipologia specifica 4: Barriere acustiche in cui parte dei pannelli fonoassorbenti siano sostituiti da moduli fotovoltaici; Tipologia specifica 5: Elementi di illuminazione in cui la superficie esposta alla radiazione solare degli elementi riflettenti sia costituita da moduli fotovoltaici; Tipologia specifica 6: Frangisole i cui elementi strutturali siano costituiti dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto; Tipologia
specifica 7: Balaustre e parapetti in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano gli elementi di rivestimento e copertura; Tipologia specifica 8: Finestre in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano o integrino le superfici vetrate delle finestre stesse; Tipologia specifica 9: Persiane in cui i moduli fotovoltaici costituiscano gli elementi strutturali delle persiane; Tipologia specifica 10: Qualsiasi superficie descritta nelle tipologie precedenti sulla quale i moduli fotovoltaici costituiscano rivestimento o copertura aderente alla superficie stessa».
Come può notarsi, l'allegato 3, non contiene alcun riferimento esplicito alle serre, sicché si poteva inserirle in una delle suddette tipologie solo in via interpretativa come ha fatto il tribunale secondo il quale, il combinato disposto delle tipologie di cui ai nn. 2 ("tettoie in cui la struttura di copertura sia costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto") e 10 ("Qualsiasi superficie descritta nelle tipologie precedenti sulla quale i moduli fotovoltaici costituiscano rivestimento o copertura aderente alla superficie stessa") «consente di annoverare la tipologia "serre fotovoltaiche" all'interno della categoria "serre"».
Questa interpretazione, però, è contestata, con gli argomenti di cui si è detto, dalla difesa.
Sennonché, il Ministero dello sviluppo economico emanò, in data 06/08/2010, il D.M. intitolato "Incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare".
L'art. 1, intitolato "Finalità e campo di applicazione", al comma 3 stabilisce: «Il decreto 19 febbraio 2007 continua ad applicarsi, tenendo conto di quanto previsto all'articolo 19 e delle modificazioni di cui all'articolo 20, agli impianti fotovoltaici che entrano in esercizio entro il 31 dicembre 2010».
L'art. 20, intitolato "Interpretazioni e modificazioni del decreto ministeriale 19 febbraio 2007" al comma quinto, dispone: «Rientrano nelle tipologie di cui all'allegato 3 del decreto ministeriale 19 febbraio 2007 le serre fotovoltaiche nelle quali i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per tutta la durata dell'erogazione della tariffa incentivante, a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura. La struttura della serra, in metallo, legno o muratura, deve essere fissa, ancorata al terreno e con chiusura eventualmente stagionalmente rimovibile».
Ora, non vi è dubbio che la suddetta norma costituisca una tipica ipotesi di interpretazione autentica (ovviamente, di una norma controversa) che, quindi, in quanto tale ha sicuramente efficacia ex tune. Ciò si desume agevolmente dalla circostanza che le "modificazioni del decreto ministeriale 19 febbraio 2007" invece, sono testualmente indicate nel comma ottavo in cui è scritto: «I commi 1 e 2 dell'articolo 7 del decreto ministeriale 19 febbraio 2007 sono sostituiti dai seguenti [....]»: per differenza, quindi, tutte le altre ipotesi considerate nei precedenti commi rientrano nelle "interpretazioni".
Ma, quand'anche si volesse ritenere che il comma quinto debba essere considerato una "modificazione" del D.M. del 2007 - così come sostiene la difesa dei ricorrenti - nulla cambierebbe per la semplice ragione che, al momento della stipula della Convenzione, il suddetto D.M. risultava già "modificato" da oltre un anno.
Di conseguenza, quando la Convenzione fu stipulata, era in vigore la normativa che stabiliva che gli incentivi sarebbero stati concessi solo ove le serre fossero state "dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura", condizione questa da ritenersi, pertanto, recepita ed accettata dagli indagati.
Diventa, quindi, del tutto irrilevante discettare sul se la G.S.E. - che aveva fin dal 2009, con delle linee-guida, sostenuto che potevano usufruire degli incentivi anche le serre che fossero dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura - avesse o meno il potere di farlo e, quindi, se le sue indicazioni fossero vincolanti.
Quello che rileva è che, lo si ripete, alla data della stipula delle Convenzioni, il D.M. del 2007 risultava essere già stato modificato da oltre un anno, sicché gli indagati, quell'obbligo avrebbero dovuto rispettare.
Non è, quindi, configurabile alcun "divieto di irretroattività" anche perché, prima della stipula della Convenzione, la ricorrente non avrebbe potuto vantare alcun diritto.
Erra, pertanto, la difesa (pag. 19 ricorso) quando, nell'invocare il "divieto di irretroattività", fa retroagire la condotta dei ricorrenti «alla presentazione delle istanze volte ad ottenere i permessi di costruire delle serre [risalente] al 2008. Il deposito delle DIA per la realizzazione degli impianti integrati è avvenuto nel 2009. Il D.M. 6 agosto 2010 è entrato in vigore il 25 agosto 2010 (il giorno successivo alla sua pubblicazione in G.U. ai sensi del suo art. 22)».
In realtà, la ricorrente ha acquisito il diritto di ricevere gli incentivi solo ed esclusivamente per effetto della Convenzione: ove si fosse rifiutata di sottoscriverla, avrebbe potuto magari adire l'autorità giudiziaria per far valere le proprie ragioni (e cioè chiedere che le fossero ugualmente corrisposti gli incentivi nonostante le serre non fossero "dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura"), ma, di sicuro, il G.S.E. non avrebbe potuto, sua sponte, liquidare milioni di euro senza una Convenzione.
E' proprio nel momento della sottoscrizione delle Convenzioni, che si annida, quindi, l'attività fraudolenta dei ricorrenti consistita nell'essere perfettamente consapevoli della modifica del D.M. 2007, nel dichiarare di accettarla, pur sapendo che l'obbligo assunto di dedicare le serre "alle coltivazioni agricole o alla floricoltura" non sarebbe mai stata adempiuto e, quindi, in sostanza, ben consapevoli di chiedere e percepire incentivi non dovuti.
Sul fumus delieti, è sufficiente il rinvio alla lettura dell'amplissima motivazione addotta sul punto dal tribunale (in particolare, pag. 22 ss), anche perché la difesa non ha ritenuto di proporre alcuna specifica censura.
L'unica doglianza è quella illustrata supra in parte narrativa ai §§ 2.4. e 2.6. secondo la quale, essendo le serre comunque "dedicate", cioè predisposte per la coltivazione, sarebbe irrilevante che non fossero state in concreto utilizzate.
Si tratta, però, di un argomento - oltre che confutato dal Tribunale a pag. 11 dell'ordinanza con motivazione nella quale non sono ravvisabili violazioni di legge ossia l'unico vizio deducibile, ex art. 325 cod. proc. pen., in questa sede - anche di poco momento che stride con il principio generale secondo il quale ogni norma (anche quella di origine pattizia) va interpretata in modo ragionevole e in buona fede e tale non può essere quella proposta dalla difesa.
La ratio legis della norma che ha previsto la possibilità di collocare impianti fotovoltaici sui tetti (anche) delle serre è intuitiva: consentire di sfruttare superfici non utilizzate per produrre energia rinnovabile senza, però, pregiudicare la coltivazione e la produzione agricola che ha un valore in sé che va comunque preservato. Attraverso il contemperamento di queste due esigenze entrambe meritevoli di tutela, si è voluto, pertanto, impedire che i proprietari terrieri abbandonino l'attività agricola limitandosi a sfruttare il suolo solo per la tenuta delle serre - magari costruite ad hoc, come nella vicenda in esame - al solo fine di lucrare gli incentivi molto più remunerativi del faticoso lavoro agricolo.
Sul punto, è anche opportuno osservare che, come rilevato dal giudice delle indagini preliminari - alla stregua di puntuali richiami alla normativa regionale - nel decreto di sequestro (pag. 44 ss) «gli indagati non avrebbero potuto altrimenti conseguire i benefici della legge, neppure collocando gli impianti al suolo»: il che conferma che gli indagati architettarono, fin dall'inizio, un piano fraudolento finalizzato all'illegittima percezione dei benefici.
Alla stregua di quanto si è detto, pertanto, allo stato degli atti, deve ritenersi sussistente il fumus delieti della truffa contrattuale che si ha allorché l'agente ponga in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato.
Vanno, quindi, disattese le censure illustrate supra in parte narrativa ai §§ sub 2.1.-2.2.-2.3.-2.4.-2.6.
4. IL SEQUESTRO
In ordine al sequestro, la difesa della ricorrente ha dedotto le seguenti censure:
a) il sequestro impeditivo di cui all'art. 321/1 cod. proc. pen. non avrebbe potuto essere disposto nei confronti della Società;
b) il Tribunale, in ordine al sequestro finalizzato alla confisca, non aveva motivato su tutti gli elementi che fondano la responsabilità dell'ente (cd. fumus allargato);
c) la somma di € 772.919,06 corrispondente ai corrispettivi percepiti dalla Sunflower a titolo di ritiro dedicato (RID) era errata per eccesso;
4.1. IL SEQUESTRO IMPEDITIVO
Risulta dall'ordinanza impugnata (pag. 12) nonché dallo stesso decreto emesso dal giudice delle indagini preliminari (pag. 42) che, su richiesta del Pubblico Ministero, il giudice delle indagini preliminari ordinò «il sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. pen. degli impianti fotovoltaici, in quanto beni che hanno permesso la realizzazione dei fatti-reato e il conseguimento di erogazioni pubbliche che altrimenti gli indagati non avrebbero potuto conseguire: è quindi evidente che la libera disponibilità di siffatti impianti, in quanto beni pertinenti al reato, potrebbero aggravare, protrarre o agevolare la commissione di altri reati» (pag. 42 decreto giudice delle indagini preliminari).
Il sequestro degli impianti fotovoltaici fu, quindi, ordinato a norma dell'art. 321/1 cod. proc. pen. - come letteralmente si desume dalla motivazione dinnanzi riportata - nei confronti della società ricorrente (pacificamente proprietaria dei suddetti impianti) in quanto indagata ex artt. 5/1 lett a) e 24 dlgs 231/2001 ed il cui legale rappresentante risulta essere Armando Manca di Villahermosa, allo stato non indagato, almeno stando a quanto risulta dallo stesso decreto di sequestro.
Il Tribunale (pag. 31 ss) ha ritenuto di confermare il suddetto sequestro adducendo una motivazione che, in pratica, ricalca quella del giudice delle indagini preliminari.
4.1.1. La censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.
La legge n. 231/2001 prevede un complesso sistema di repressione degli illeciti commessi dall'ente, basato sulle sanzioni amministrative indicate nell'art. 9 che vengono applicate all'esito del processo che si concluda con la condanna dell'ente (art. 69).
Non potendosi tuttavia, attendere sempre l'esito definitivo del processo, il legislatore ha previsto che, nel corso delle indagini o durante lo stesso processo (art. 47), all'ente si possano applicare delle misure cautelari: «L'esigenza di apprestare un sistema di cautele con riferimento all'illecito imputabile alla persona giuridica ubbidisce a un duplice scopo: evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato; "paralizzare" o ridurre l'attività dell'ente quando la prosecuzione dell'attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato» (Relazione Ministeriale § 17).
Il sistema delle misure cautelari (art. 45) si basa, da una parte, sulle sanzioni interdittive di cui all'art. 9/2, e, dall'altra, sul sequestro preventivo (art. 53) e sul sequestro conservativo (art. 54).
L'art. 53/1 dispone «1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili».
Il suddetto articolo, prevede testualmente che, nei confronti degli enti, si possa applicare il solo sequestro (del prezzo o del profitto del reato) a fini di confisca di cui all'art. 321/2 cod. proc. pen.
Quindi, il sequestro preventivo di cui all'art. 53 non coincide con quello previsto nell'art. 321 cod. proc. pen. non solo perché non è previsto il sequestro impeditivo di cui al primo comma, ma anche perché il sequestro a fini di confisca non ha l'ampia latitudine di quello previsto dall'art. 321/2 cod. proc. pen. ("il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca") essendo ristretto e limitato, in virtù del rinvio all'art. 19, al solo prezzo o profitto del reato (la confisca del profitto ex artt. 6/5 e 15/4 è consentita solo con la sentenza di condanna e non è anticipabile con il sequestro essendo questo previsto solo per l'ipotesi di cui all'art. 19).
La suddetta disposizione è, peraltro, coerente con quanto si legge nella Relazione Ministeriale in cui, al § 17 - dedicato alle misure cautelari - si trova scritto: «Discorso a sé stante meritano, infine, le previsioni di cui agli artt. 53 e 54. Queste introducono due ipotesi di cautele autonome rispetto all'apparato di misure interdittive irrogabile alle persone giuridiche. Per quanto non espressamente previsto dalla legge delega, si è ravvisata la necessità di disciplinare le ipotesi di sequestro preventivo a scopo di confisca e del sequestro conservativo, posto che la loro operatività in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti - questo espressamente previsto dalla delega - non si sarebbe potuta mettere seriamente in discussione in ragione di una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, in realtà non ravvisabile se non in relazione al sequestro preventivo in senso proprio, che pertanto è da ritenersi ipotesi non applicabile nella specie. Da qui la disciplina sopra richiamata che consente il sequestro preventivo in funzione di confisca con conseguente richiamo di parte della disciplina codicistica, nonché l'altra previsione, che appunto rende possibile il sequestro conservativo - anche qui con richiamo della disciplina codicistica in quanto applicabile - dei beni o delle somme dovute o che garantiscano il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario».
Quindi, non fu prevista la possibilità del sequestro impeditivo perché la funzione cautelare da questo assolta (impedire che "la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati)", avrebbe determinato "una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche", anch'esse aventi la stessa finalità.
4.1.2. Poiché l'incompatibilità fra il sequestro impeditivo e le misure interdittive ha costituito l'unico motivo per cui il sequestro di cui all'art. 321/ cod. proc. pen. è stato ritenuto inapplicabile nei confronti degli enti, non resta allora che verificare se la suddetta affermazione sia fondata oppure se, al contrario, il sequestro impeditivo abbia un suo autonomo raggio di azione: in quest'ultimo caso, occorre stabilire quale sia il finium regundorum fra i due suddetti istituti.
La paventata incompatibilità potrebbe ravvisarsi laddove la misura interdittiva avesse lo stesso effetto di un sequestro impeditivo: ad es., la misura interdittiva dell'esercizio dell'attività (che, può essere disposta anche in via definitiva ex art. 16), paralizzando l'attività dell'ente può, apparentemente, sortire lo stesso effetto di un sequestro impeditivo che colpisca le "cose che pertinenti al reato".
In realtà, non è così.
Infatti, se è vero che l'uso delle suddette "cose" può rimanere "paralizzato" a seguito di un provvedimento interdittivo, è anche vero, però, che si tratta solo di un effetto indiretto e tendenzialmente temporaneo (art. 13/2, fatta eccezione l'ipotesi di cui all'art. 16).
Tale effetto, invece, non si verifica con il sequestro impeditivo perché, a norma dell'art. 323/3 cod. proc. pen, "se è pronunciata sentenza di condanna, gli effetti del sequestro permangono quando è stata disposta la confisca della cose sequestrate" ex art. 240 cod. proc. pen.
Si può, quindi, affermare che il campo d'applicazione del sequestro impeditivo non coincide con le misure interdittive per una molteplicità di ragioni.
Innanzitutto, per la temporaneità della misura interdittiva laddove il sequestro è tendenzialmente definitivo ove, all'esito del giudizio di cognizione, sia disposta la confisca.
In secondo luogo, per l'effetto: mentre la misura interdittiva "paralizza" l'uso del bene "criminogeno" solo in modo indiretto (quale effetto di una delle misure interdittive), al contrario, il sequestro (e la successiva confisca) colpisce il bene
direttamente eliminando, quindi, per sempre, il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati.
Infatti, il sequestro è diretto contro le "cose" (non a caso, è denominato "reale") che abbiano una potenzialità lesiva dei diritti costituzionali sicché è finalizzato a sottrarle a chi ne abbia la disponibilità proprio a tutela della collettività: sul punto, è opportuno rammentare, che - sulla scia dei lavori preparatori - è stato ritenuto che «i limiti di disponibilità dei beni si correlano alla funzione preventiva della cautela e, quindi, ad esigenze connesse ad una situazione di pericolo per la collettività che ben possono giustificare l'imposizione del vincolo»: Corte Cost. n. 48/1994. Al contrario, le misure interdittive sono dirette contro la società, tant'è che i criteri per la loro applicabilità sono stati parametrati su quelli delle misure cautelari personali (artt. 45-46).
Il sequestro impeditivo ha, quindi, una selettività che la misura interdittiva non ha. E, così, proseguendo nell'esempio ipotizzato (che, a fortiori, può essere esteso anche alle altre misure meno invasive), se è vero che l'interdizione dell'esercizio dell'attività può paralizzare anche l'utilizzo delle cose "criminogene", è anche vero che nulla vieta all'ente di continuare a disporre di quei beni: una cosa, infatti, è la paralisi dell'attività dell'ente (al fine di impedirgli di continuare a trarre profitto dal reato), ben altra cosa è il blocco di singoli e ben determinati beni che, ove non sequestrati, ben potrebbero continuare ad esplicare la loro carica criminogena ad es. perché utilizzati dall'ente in altri rami dell'attività non colpita dall'interdittiva o perchè, addirittura, ceduti a terzi che continuino ad utilizzarli.
L'unico caso in cui le conseguenze ipotizzate si potrebbero evitare è quello del commissariamento dell'ente (art. 45/3) e sempre che il commissario, motu proprio, blocchi l'utilizzo materiale e giuridico dei beni "criminogeni.
Ma, a parte la temporaneità e le stringenti condizioni che devono sussistere per disporre il commissariamento (art. 15), sembra evidente che il mezzo utilizzato sarebbe sproporzionato per lo scopo che si volesse raggiungere (impedire che singoli beni possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati): il che costituisce un'ulteriore conferma del fatto che la cautela interdittiva - o perché inidonea o perché troppo invasiva - non ha quella duttilità (anche in considerazione dei ferrei criteri cui deve sottostare ex art. 46) che ha, invece, il sequestro impeditivo.
Il sequestro impeditivo, ha, quindi, una finalità che la misura interdittiva non ha: impedire l'utilizzo di singoli beni ed evitare, sottraendoli alla disponibilità dell'ente, che possano continuare - nonostante la misura interdittiva - quantomeno ad "agevolare la commissione di altri reati" con conseguente pericolo per la collettività. 
4.1.3. Individuato l'autonomo raggio d'azione del sequestro impeditivo rispetto alle misure interdittive, resta, però, da capire in base a quale argomento il suddetto sequestro possa essere veicolato nell'ambito della normativa di cui al dlgs n. 231/2001.
A livello sistematico, l'applicazione del sequestro impeditivo si può, innanzitutto, giustificare laddove si tenga presente che si tratta di un istituto generale (in quanto previsto nel cod. proc. pen.) che non trova ostacolo di natura logica-giuridica, per quanto si è ampiamente illustrato, ad essere applicato anche agli enti, proprio perché il pericolo di sovrapposizione paventato nella Relazione Ministeriale non è ipotizzabile.
A livello letterale, la norma che consente di applicare il sequestro Impeditivo anche agli enti, va rinvenuta nell'amplissimo disposto dell'art. 34 a norma del quale «per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano [....] in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
D'altra parte, non appare superfluo evidenziare che solo un'interpretazione costituzionalmente orientata - come quella alla quale si ritiene di dover pervenire - può fugare i dubbi di costituzionalità che sorgerebbero laddove si volesse teorizzare per l'ente un regime privilegiato rispetto a quello generale previsto dal codice di rito e, quindi, privare la collettività di un formidabile ed agile strumento di tutela finalizzato ad eliminare dalla circolazione beni criminogeni.
Ovviamente, nulla vieta, come pure è stato proposto in dottrina, di disporre il sequestro impeditivo nei confronti della persona fisica indagata o imputata che utilizzi il bene "criminogeno" di proprietà dell'ente che, quindi, sia pure in modo indiretto, ne verrebbe privato: ma si tratta di una possibilità che va ritenuta aggiuntiva o alternativa ma non sostitutiva.
Il che significa, in ultima analisi che, oltre all'espressa e speciale ipotesi prevista dall'art. 53, del sequestro preventivo del prezzo o del profitto del reato, nei confronti dell'ente deve ritenersi ammissibile (in virtù del rinvio alle disposizioni del cod. proc. pen. "in quanto compatibili") anche la normativa generale del sequestro preventivo di cui all'art. 321/1 cod. proc. pen., spettando al Pubblico Ministero individuare, di volta in volta, quello più funzionale all'esigenza cautelare che intenda conseguire.
Deve, pertanto, ritenersi la legittimità del disposto sequestro impeditivo non essendovi alcun dubbio sul nesso di pertinenzialità fra il reato contestato (di cui è stato ampiamente provato il fumus: cfr supra) e le "cose" sottoposte a sequestro (le serre votovoltaiche) che, ove lasciate nella libera disponibilità della ricorrente avrebbero continuato "a produrre una lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (art. 640 bis cod. pen.) poiché risulta acquisita la prova che 
le serre negli anni di esercizio non sono state destinate né a coltivazione agricola, né ad attività di floricoltura, circostanza che, in assenza di revoca della concessione da parte del G.S.E., aggrava le conseguenze del reato" (pag. 32 ordinanza impugnata).
In conclusione, la censura dev'essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: «in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma primo dell'art. 321 cod. proc. pen., non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive».
4.2. IL FUMUS ALLARGATO
Nei confronti della società ricorrente è stato, inoltre, disposto il sequestro preventivo della somma di € 772.919,06 quale corrispettivo percepito a titolo di ritiro dedicato (cd RID).
La difesa della ricorrente (supra in parte narrativa § 2.7.: pag. 29 ss del ricorso) ha censurato l'ordinanza impugnata in quanto - così come il decreto del giudice delle indagini preliminari - in essa non era stato specificato se fossero stati o meno violati tutti i requisiti necessari per disporre il sequestro.
La ricorrente, a sostegno della propria tesi, ha invocato la sentenza di questa Corte (n. 34505/2012 riv 252929) secondo la quale, «non appare corretta una automatica trasposizione del regime dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall'art. 321 c.p.p., in quanto nel caso dell'art. 53 d.lgs. 231/2001 il sequestro è direttamente funzionale ad anticipare in via cautelare, la confisca di cui all'art. 19 d.lgs. cit., che è sanzione principale, obbligatoria e autonoma (così Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Impregilo ed altri) e che come tale si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca cui si riferisce lo stesso d.lgs. 231/2001 (ad esempio, negli artt. 6 comma 5 e 15 comma 4)». Di conseguenza, il dibattito (e le conclusioni) sui presupposti applicativi richiesti per il sequestro preventivo di cui ai commi 1 e 2, cod. proc. pen., e, in particolare, sul "fumus boni iuris", «non può essere integralmente replicato con riferimento al sequestro preventivo previsto dall'art. 53 d.lgs. 231/2001». Pertanto, proprio perché il sequestro di cui all'art. 53 d.lgs. n. 231 del 2001 «è prodromico ad una sanzione principale, che viene applicata solo a seguito dell'accertamento della responsabilità dell'ente, al pari delle altre sanzioni previste dall'art. 9», è necessaria «una più approfondita valutazione del presupposto del "fumus commissi delieti». Quindi, in conclusione, «presupposto per il sequestro preventivo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53, è un fumus delieti "allargato", che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell'ente, al pari di quanto accade per l'emanazione delle misure cautelari interdittive. Sicché i gravi indizi coincideranno con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgono di per sé a dimostrare oltre ogni dubbio l'attribui bilità dell'illecito all'ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato, una qualificata probabilità di colpevolezza. L'apprezzamento dei gravi indizi deve portare il giudice a ritenere l'esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di responsabilità, in un procedimento che avvicina la prognosi sempre più ad un giudizio sulla colpevolezza, sebbene presuntivo in quanto condotto allo stato degli atti, ma riferito alla complessa fattispecie di illecito amministrativo attribuita all'ente indagato (cfr., Sez. 6A, 23 giugno 2006, La Fiorita)».
Questa tesi, però, è rimasta isolata essendosi, in senso opposto, sostenuto che «in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell'art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato»: Cass. 41435/2014 rv. 260043; Cass. 51806/2014 rv. 261571; Cass. 9829/2006 rv. 233373.
Questo Collegio, ritiene di aderire e dare continuità a quest'ultimo indirizzo in quanto il suddetto diverso orientamento interpretativo «si fonda su interpretazione estensiva del dettato normativo ed addebita al legislatore delegato di avere mutuato criteri propri del sistema processuale penale in tema di sequestro preventivo. Vero è che la confisca disciplinata dal Decreto Legislativo in esame costituisce una delle sanzioni a carico degli enti, ma il legislatore nel disciplinare le misure cautelari a carico degli stessi ha richiesto la verifica dei gravi indizi di responsabilità solo per le misure interdittive cautelari e non per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca» (Cass. 41435/2014), così come risulta dalla precisa ed inconfutabile ricostruzione normativa effettuata da Cass. 9829/2006 cit.
La censura, va, quindi, respinta.
4.3. IL QUANTUM SEQUESTRABILE
La difesa della ricorrente ha contestato che potesse essere sottoposta a sequestro la somma percepita a titolo di RID, adducendo la censura illustrata supra in parte narrativa al § 2.5. (ricorso pag. 22 ss).
Il tribunale (pag. 29) ha ritenuto sequestrabile l'intera somma avendo condiviso l'assunto accusatorio secondo il quale «tale produzione di energia, intanto è stata possibile ed è stata effettuata, in quanto la realizzazione degli impianti è avvenuta avvalendosi, in maniera fraudolenta ed indebita, degli incentivi garantiti dal GSE: in altri termini, se, trattandosi di terreni non adibiti a coltivazione né ad attività di floricoltura, le serre fotovoltaiche non si fossero realizzate, alcuna energia sarebbe stata prodotta, onde l'intero corrispettivo risulta illegittimamente percepito dal Conto Energia».
4.3.1. L'art. 13/3 del Dlgs n. 387/2003, dispone che l'energia elettrica prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili «è ritirata, su richiesta del produttore, dal gestore di rete alla quale l'impianto è collegato. L'Autorità per l'energia elettrica ed il gas determina le modalità per il ritiro dell'energia elettrica di cui al presente comma facendo riferimento a condizioni economiche di mercato».
Il RID consiste nella cessione di tutta l'elettricità immessa in rete al Gestore dei Servizi Energetici - GSE S.p.A. che provvede a remunerarla, corrispondendo al produttore un prezzo per ogni Kwh ritirato, per poi rivenderla sul mercato elettrico.
Ora, a parte lo snellimento burocratico derivante dal fatto che il GSE è l'unico interlocutore dei produttori di energia, quello che interessa focalizzare, ai fini della problematica dedotta dalla ricorrente, è l'aspetto economico sotteso al suddetto meccanismo.
Per effetto della convenzione che i produttori di energia stipulano con il GSE, viene garantito - in alternativa ai prezzi di mercato - un prezzo minimo aggiornato, su base annuale, al tasso di variazione annuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati rilevato dall’lstat.
Quindi, in sostanza, la cessione al GSE dell'energia prodotta, evita al produttore di vendere l'energia sul libero mercato, in quanto gli è garantito un prezzo minimo dal GSE.
4.3.2. Chiarita la nozione del RID, non resta ora che valutare se e in che misura la somma percepita dalla società ricorrente potesse essere sottoposta a sequestro.
La somma in questione è stata sequestrata perché ritenuta profitto del reato di cui all'art. 640 bis cod. pen.
Della determinazione del profitto confiscabile si sono specificamente occupate le Sezioni Unite che, trattando specificamente proprio il tema della confisca sanzione ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001, affermarono il seguente principio di diritto: «il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto»; SSUU 26654 del 2008; Cass. 33226/2015 rv. 264941; Cass. 23013/2016 rv. 267065; Cass. 53650/2016 rv. 268854.
Tale nozione, successivamente, è stata ampliata dalle stesse SSUU che - fermo il principio secondo cui il profitto confiscabile, seppure reimpiegato o trasformato, è solo quello che derivi in modo diretto e causale dalla commissione del reato, con esclusione di vantaggi ulteriori ed eventuali (SSUU 31617/2015) - hanno ritenuto che «in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca diretta di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 si identifica non soltanto con i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche con ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa», come ad es. «il risparmio di spesa che si concreta nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto» SSUU 38343/2014 Rv. 261116-261117; SSUU 10561/2014.
Ritornando alle SSUU del 2008, va osservato che, contestualmente, però, le SSUU cit. hanno tracciato un netto discrimen fra profitto derivante da un "reato contratto" e profitto derivante da un "reato in contratto".
Per reato contratto deve intendersi quel reato che tale possa essere definito per effetto della semplice stipula di un contratto e, quindi, a prescindere dalla sua esecuzione, in quanto si verifica un'immedesimazione del reato col negozio giuridico che ne risulta integralmente contaminato da illiceità: pertanto, poiché il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della suddetta illiceità, esso è assoggettabile totalmente a confisca.
Per reato in contratto s'intende, invece, quel reato in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale: in tali casi, poiché il contratto è lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), occorre verificare se il profitto che ne ha tratto l'agente sia o meno ricollegabile alla condotta criminosa in quanto, solo nel primo caso, il profitto è confiscabile e non nelle ipotesi in cui sia il frutto di una prestazione lecita eseguita in favore della controparte.
In quest'ultima categoria rientra proprio la truffa, relativamente alla quale le SSUU cit. hanno chiarito «che non integra un "reato contratto", considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase
esecutiva, da una parte in danno dell'altra. Trattasi, quindi, di un "reato in contratto" e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull'entità del profitto illecito tratto dall'autore del reato e quindi dall'ente di riferimento».
Da questa precisazione, è stata, pertanto tratta la seguente conclusione: «Nella peculiarità che caratterizza il rapporto sinallagmatico [....] la parte di utilità eventualmente conseguita ed accettata dalla vittima va inevitabilmente ad incidere, per l'equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo corrispettivo versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell'ambito di un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatici, con la conseguenza che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale) la controprestazione ricevuta, perché non costituente profitto illecito. Diversamente opinando, vi sarebbe un'irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto al soggetto coinvolto nell'illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione legittimamente eseguita e comunque accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la controparte fosse l'Amministrazione statale, un ingiustificato arricchimento di questa».
Quindi, in sostanza, ove ci si trovi di fronte ad un reato in contratto, il profitto (confiscabile) dev'essere commisurato alla differenza fra l'intero valore del contratto e l'utilità effettivamente conseguita dalla controparte, ossia calcolato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato: ex plurimis Cass. 20506/2009 rv. 243198; Cass. 8339/2014 rv. 258787; Cass. 53430/2014 rv. 261841; Cass. 9988/2015 rv. 262794; Cass. 23013/2016 rv. 267065.
4.3.3. Applicando i suddetti principi al caso di specie ne consegue che:
a) la questione se, nella fattispecie in esame, debbano o meno essere considerate anche le conseguenze indirette del suddetto profitto, allo stato, non si pone perché, in punto di fatto, non risulta evidenziato, nell'ordinanza impugnata, alcun profitto "indiretto" di cui si debba eventualmente tener conto;
b) non vi è dubbio che il RID fu percepito a seguito e per effetto della stipula della Convenzione a monte della quale vi era la truffa di cui si è detto;
c) il reato contestato va qualificato, ai fini della quantificazione del profitto confiscabile, come "reato in contratto";
d) è errata la conclusione alla quale è pervenuto il Tribunale che, sulla base della motivazione di cui si è detto, ha ritenuto confiscabile l'intera somma percepita dalla ricorrente a titolo di RID: in realtà, poiché il GSE ha comunque 
commercializzato l'energia cedutale dalla società ricorrente, ricavandone, quindi, un guadagno. Di conseguenza, per stabilire quale sia il profitto confiscabile occorre calcolare l'effettiva utilità conseguita dalla ricorrente e cioè occorre procedere a calcolare la differenza fra il corrispettivo erogato a titolo di RID ed il prezzo di mercato al quale la GSE vendette l'energia. L'eventuale differenza negativa restata a carico della GSE, costituisce il profitto confiscabile.
Pertanto, in conclusione, l'ordinanza impugnata dev'essere annullata ed il Tribunale, in sede di rinvio, si atterrà al principio di diritto illustrato al precedente punto sub d).
 

 

P.Q.M.

 


ANNULLA
l'ordinanza impugnata limitatamente alla somma sequestrata di € 772.919,06 con rinvio al Tribunale di Trani, sezione per il riesame delle misure cautelari, per nuovo esame nei limiti di cui alla parte motiva;
RIGETTA
nel resto il ricorso
Così deciso il 10/07/2018