Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 agosto 2018,  n. 22390 - Rendita per malattia professionale


 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: RIVERSO ROBERTO Data pubblicazione: 13/08/2018

 

 

 

Fatto

 


La Corte d'Appello di Messina con sentenza n. 2269/2013 accogliendo parzialmente l'appello dell'Inail dichiarava il diritto di C.E. al riconoscimento della rendita per malattia professionale nella percentuale del 35%, a decorrere dalla data di presentazione della domanda amministrativa (8 gennaio 2004), e nella misura del 45%, a decorrere dal mese di gennaio 2008, condannando l'Inail al pagamento della prestazione nelle stesse percentuali, oltre accessori e con compensazione delle spese processuali.
A fondamento della sentenza la Corte d'appello richiamava il contenuto della consulenza tecnica d'ufficio e del successivi chiarimenti in base ai quali erano state stimate le suddette percentuali di invalidità con le diverse decorrenze.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione C.E. con quattro motivi al quali ha resistito Inali con controricorso.
 

 

Diritto

 


1. - Col primo motivo il ricorso deduce la nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c., giudicato Interno, errores in procedendo ed assume che, in relazione alla decorrenza dalla data di presentazione della domanda amministrativa (8.1.2004), la sentenza d'appello sia affetta da nullità essendo in contrasto con il principio secondo cui l'effetto dell'evolutivo dell'appello - entro I limiti del motivi di Impugnazione- preclude al giudice del gravame di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche Implicitamente, nel tema del dibattito esposto nel motivi di Impugnazione; e poiché non vi era stato gravame dell'INAIL In relazione alla statuizione con cui la sentenza di primo grado aveva stabilito la decorrenza della rendita, sul punto si era formato il giudicato Interno e si era pertanto costituito il diritto del ricorrente alla decorrenza della rendita dalla data Indicata dal giudice di prime cure (17.5.2001).
Il motivo è infondato in quanto, come risulta dallo stesso ricorso, l'INAIL aveva chiesto la totale riforma della sentenza Impugnata e la revoca ed annullamento In ogni sua parte. Risulta inoltre dal controricorso che l'Inall aveva impugnato con l'appello anche il punto relativo alla decorrenza stabilita dalla sentenza attraverso le considerazioni mediche allegate all'atto di impugnazione. Non è vero pertanto che il gravame dell'Inail fosse rivolto alla riforma della sentenza di primo grado esclusivamente per II grado di invalidità ma non per la decorrenza della rendita dalla domanda amministrativa.
2. - Col secondo motivo viene dedotta la nullità della sentenza ex art. 360 n. 3 c.p.c.; violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto art. 52 d.p.r. numero 1124/65; artt. 4 e 5 del d.p.r. 21/9/94 n. 698; art. 3 comma 4 legge n. 18/1980; error in iudicando; e ciò perché la Corte aveva illegittimamente ed immotivatamente postergato la decorrenza della rendita all'8/1/2004 facendo acriticamente proprie le considerazioni espresse dal nominato CTU circa la decorrenza dello stato invalidante dalla data della domanda amministrativa presentata all'Inail; mentre il dottor C.E. aveva ritualmente denunciato in data 17/5/2001 la malattia professionale all'amministrazione datoriale che tuttavia non aveva provveduto a trasmettere nei termini di legge all'istituto assicuratore la stessa denuncia. Peraltro, in base alla disciplina dettata dagli artt. 4 e 5 del d.p.r. 21/9/94 n. 698, le prestazioni spettanti agli invalidi civili che decorrono d'ordinario dal primo giorno del mese successivo alla domanda, decorrono invece a partire dalla data di insorgenza dello stato invalidante, qualora un requisito sanitario si concretizzi nel corso del procedimento amministrativo. Il motivo è inammissibile in quanto non rispetta il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione posto che non riproduce nel corpo del ricorso, nè produce con lo stesso atto, i documenti ai quali fa rinvio e di cui nulla dice la sentenza impugnata. D'altra parte la censura si fonda su questioni di fatto e non di diritto ed investe la motivazione della sentenza e non violazioni della legge; mentre neppure incide sulla correttezza della pronuncia la disciplina relativa alla decorrenza delle prestazioni spettanti agli invalidi civili.
Va infatti considerato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie normativa astratta e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'errata ricostruzione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna all'esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione, nei limiti consentito dall'alt. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi è segnato dal fatto che quest'ultima censura, e non la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa ( cfr. Cass. 7394/2010). E' stato altresi puntualizzato che il motivo con cui si denuncia il vizio della sentenza previsto dall'art. 360 n. 3 c.p.c. deve essere dedotto a pena di inammissibilità non solo mediante la puntuale indicazione delle norme riassuntivamente violate, ma anche mediante specifiche ed intellegibili argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. Cass. 24298/2016).
3. - Col terzo motivo viene dedotta la nullità della sentenza articolo 360 n. 3 c.p.c.; violazione e falsa applicazione di norme di diritto circa l'applicazione delle percentuali di invalidità DPR 30 dicembre 1981 n. 834 e successive modifiche; error in iudicando; in relazione alla valutazione delle invalidità discendenti dalle patologie riportate dal dott. C.E..
Il motivo di ricorso appare inammissibile in quanto le censure sollevate si risolvono esclusivamente in un riesame in ordine alla valutazione delle patologie e delle conseguenti invalidità che i giudici di merito, aderendo alle motivate conclusioni del ctu, hanno ricondotto alle percentuali indicate. Pertanto, sotto le mentite spoglie del vizio di legge, la parte ricorrente domanda in realtà a questa Corte un riesame del materiale istruttorio a cui ha già provveduto, nell’esercizio dei poteri riservatigli dall’ordinamento, il giudice del merito, e rispetto al quale il controllo potrebbe vertere sulla logicità e sulla completezza della motivazione ma non sulla correttezza degli esiti del giudizio.
Le censure si condensano inoltre nell'espressione di un mero dissenso diagnostico volto a contestare nel merito la decisione impugnata, attraverso una generalizzata critica formulata in base ad una valutazione di parte; da ritenersi perciò inammissibile siccome, per consolidato orientamento di questa Corte, la sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio può essere contestata in Cassazione soltanto in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata in ricorso, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi; mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce appunto un mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice.
4. - Col quarto motivo viene dedotta la nullità della sentenza che ex art. 360 n. tre c.p.c.; violazione falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c.; error in iudicando. in quanto dall'annullamento della sentenza censurata discende il diritto della ricorrente all'integrale riconoscimento delle spese del giudizio di secondo grado che erano state invece compensate dalla Corte d'appello.
Il quarto motivo è infondato risultando invece corretta la sentenza d'appello anche in ordine alla pronuncia sulle spese processuali.
5. - Per i motivi esposti il ricorso va quindi respinto, con condanna del ricorrente soccombente alla rifusione delle spese processuali. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in € 3200 di cui € 3000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed oneri accessori.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.