Infortunio occorso a lavoratore intento a trasportare capi di abbigliamento mediante un montacarichi - Responsabilità:
1) dei due datori di lavoro della vittima perchè, pur avendo appaltato i lavori di ristrutturazione del montacarichi, non avevano posto in opera alcuna attività di coordinamento con la ditta appaltatrice di questi lavori nè alcun avviso era stato dato ai dipendenti sulle modalità di utilizzo del montacarichi il cui uso avrebbe dovuto peraltro essere inibito nel corso dei lavori;
2) del responsabile della s.r.l. appaltatrice dei lavori di installazione e manutenzione del montacarichi;
3) dei manutentori dipendenti della ditta che avevano omesso di ripristinare le protezioni al momento della cessazione del turno di servizio.

La Corte d'Appello ha ritenuto l'esistenza di un concorso di colpa della vittima stessa nella causazione dell'incidente.

Ricorrono tutti in Cassazione -  Respinti.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza limitatamente al concorso di colpa della vittima che viene escluso.
Punto indiscusso e ribadito dalla Corte è che:"nè appaltante nè appaltatore dei lavori di manutenzione del montacarichi abbiano coordinato le rispettive attività cooperando nell'attuazione delle misure di prevenzione e protezione come previsto dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7,comma 2, lett. a)" (vd. oggi art. 26 D.Lgs. 81/08).
"Non esiste attività economico produttiva che sia esente da rischi anche minimi nel suo svolgimento (anche le attività meramente intellettuali presentano sia pur modesti margini di rischio); e infatti l'art. 7 non fa alcun riferimento a questa caratteristica delle attività appaltate.
In ogni caso l'utilizzazione di uno strumento meccanico con componenti elettriche di per sè costituisce esercizio di attività pericolosa che rende necessaria proprio quell'attività di coordinamento che, nel caso di specie, è mancata; e correttamente, questa omissione, è stata ritenuta aver causalmente contribuito al verificarsi dell'evento perchè è stato incensurabilmente accertato che l'incidente si è verificato proprio per il mancato coordinamento tra appaltante (che ha continuato ad utilizzare l'ascensore durante i lavori di manutenzione) e appaltatore (che ha disattivato i sistemi di protezione senza tener conto della circostanza che il montacarichi continuava ad essere utilizzato per le normali attività d'impresa).
Infondate sono anche le censure dei fratelli F. che si riferiscono all'applicabilità alla fattispecie del disposto dell'art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l'obbligo per il datore di lavoro committente per i "rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi") perchè questa esclusione va riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine.
Non può quindi considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di evitare che un ascensore sul quale si stanno eseguendo lavori di manutenzione venga utilizzato con la disattivazione dei sistemi di sicurezza.
Obbligo del committente non è quello di valutare l'idoneità dei sistemi di manutenzione utilizzati dall'appaltatore o di sindacare la correttezza delle misure specialistiche di prevenzione eventualmente utilizzate ma - in considerazione della contemporaneità dello svolgimento delle attività (di impresa e di manutenzione) - quello di verificare con l'appaltatore le modalità di utilizzo e le misure di prevenzione da adottare da entrambi nel caso di svolgimento contemporaneo di dette attività.
Insomma i fratelli F. avrebbero dovuto concordare con I. R. le misure da adottare per evitare incidenti nel caso di utilizzazione dell'impianto tra gli intervalli della manutenzione (o, comunque, quando il montacarichi veniva usato nel corso della manutenzione) e questa attività di cooperazione, certamente esigibile anche nei confronti dei primi, è mancata completamente."

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOCALI Piero - Presidente -
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere -
Dott. IZZO Fausto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) F.A. nato a (OMISSIS), imputato;
2) F.V. nato a (OMISSIS), imputato;
3) I.R.G. nato a (OMISSIS), imputato;
4) S.G. nato a (OMISSIS), imputato;
5) P.C. nato a (OMISSIS), imputato;
6) S.M., M.C., M.V. e M.L., parti civili;
avverso la sentenza 30 marzo 2007 della Corte d'Appello di Napoli;
udita la relazione del Consigliere Dott. Carlo BRUSCO;
sentite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del sost. Procuratore Generale Dott. CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso per il rigetto di tutti i ricorsi;
uditi gli avv.ti:
SORRENTINO Vincenzo e FERRARO Nicola per gli imputati F. A. e F.V.;
JOSSA Anna, in sostituzione dell'avv. TRAVAGLINO Luigi per gli altri imputati;
i quali hanno chiesto l'accoglimento dei ricorsi rispettivamente proposti.
La Corte:

FattoDiritto

1) La sentenza di primo grado.

Il Tribunale di Nola, con sentenza 10 marzo 2005, ha condannato F.A., F.V., I.R.G., S.G. e P.C. - previa concessione delle attenuanti generiche dichiarate equivalenti alla contestata aggravante - per il delitto di omicidio colposo in danno di MO. C. deceduto il 27 aprile 2000 in (OMISSIS) a seguito di un infortunio sul lavoro.

Con la medesima sentenza il Tribunale ha condannato gli imputati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili e ha dichiarato non doversi procedere in ordine al medesimo reato nei confronti di FE.CA. nel frattempo deceduto.

L'incidente nel quale MO.Ca. aveva perso la vita si era verificato mentre il lavoratore stava trasportando al secondo piano di un edificio (all'interno del quale veniva esercitata l'attività commerciale della ditta (OMISSIS)) un carrello con capi di abbigliamento per mezzo di un montacarichi installato nell'edificio.
Mentre il montacarichi si trovava fermo ed aperto al secondo piano altro dipendente, che si trovava al piano rialzato, aveva chiamato il montacarichi che aveva iniziato la discesa.
MO.Ca. era rimasto incastrato con la testa e parte del petto tra la parete della tromba di discesa del montacarichi e la cabina che stava scendendo subendo gravissime lesioni che ne cagionavano la morte immediata.
Il primo giudice ha ritenuto che l'incidente si fosse verificato perchè non erano attivi entrambi i sistemi di sicurezza dell'impianto per cui - malgrado il montacarichi si trovasse aperto al secondo piano - era stato sufficiente che altri lo azionasse da altro piano perchè il montacarichi iniziasse la discesa travolgendo quindi MO.Ca. che stava in quel momento uscendo dall'ascensore.

Di questo incidente il Tribunale ha ritenuto dovessero penalmente rispondere anzitutto F.A. e F.V. datori di lavoro della persona offesa quali titolari della ditta (OMISSIS) da cui questa dipendeva.
In particolare i predetti, pur avendo appaltato i lavori di ristrutturazione del montacarichi, non avevano posto in opera alcuna attività di coordinamento con la ditta appaltatrice di questi lavori nè alcun avviso era stato dato ai dipendenti sulle modalità di utilizzo del montacarichi il cui uso avrebbe dovuto peraltro essere inibito nel corso dei lavori.
Analogamente colpose sono state ritenute, dai giudici di merito, le condotte di I.R.G. (responsabile della s.r.l. (OMISSIS) appaltatrice dei lavori di installazione e manutenzione del montacarichi) e di S.G. e P. C. - manutentori dipendenti di questa ditta - che avevano omesso di ripristinare le protezioni al momento della cessazione del turno di servizio.
2) La sentenza d'appello.
La Corte d'Appello di Napoli, con sentenza 30 marzo 2007, ha sostanzialmente riconfermato il quadro ricostruttivo operato dal primo giudice;
ha ritenuto l'esistenza di un concorso di colpa di MO.CA. del 20% nella causazione dell'incidente;
ha ridotto la pena inflitta agli imputati dal primo giudice concedendo a tutti gli imputati il beneficio della non menzione;
ha confermato le statuizioni civili (con la modifica indicata) condannando gli imputati alla rifusione delle spese in favore delle parti civili.
Con la medesima sentenza è stato respinto l'appello del pubblico ministero diretto ad ottenere un più severo trattamento sanzionatorio.

3) I ricorsi proposti contro la sentenza della Corte d'Appello di Napoli.
Contro la sentenza della Corte di merito hanno proposto ricorso tutti gli imputati.
F.V. e F.A. hanno proposto due ricorsi congiunti.
Con il primo ricorso deducono i seguenti motivi:
l'erronea applicazione della legge penale nonchè il vizio di motivazione con riferimento:
1) alla mancata individuazione della causa del blocco dell'ascensore; non essendo conosciuta questa causa neppure può essere individuata la regola cautelare violata mentre l'unica regola preventiva di carattere generale l'esistenza del segnale di allarme - è stata sicuramente rispettata; d'altro canto se non si individua la regola cautelare violata neppure è possibile accertare la prevedibilità dell'evento e se avesse caratteristiche di eccezionalità;
2) alla mancata considerazione che la condotta di MO.Ca., consistente nell'omesso impiego del segnale di allarme (il cui uso avrebbe con certezza evitato l'incidente), era stata la vera causa dell'evento mentre il blocco ha funzionato come occasione; il medesimo vizio per non avere, la Corte di merito, considerato che l'inconveniente che ha dato causa all'incidente aveva carattere tecnico e quindi non poteva che essere addebitato al titolare e ai dipendenti della ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione del montacarichi; il medesimo vizio con riferimento alla ritenuta esistenza della mancanza di coordinamento con la ditta appaltatrice e alla conseguente violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7; l'obbligo di coordinamento incombe sul datore di lavoro e tale può essere ritenuto solo il defunto padre dei ricorrenti, FE.CA..
In ogni caso l'appaltante non può rispondere del fatto in esame sia perchè l'attività dell'appaltante non ha natura di attività rischiosa; sia perchè si trattava di rischi specifici dell'attività svolta dall'appaltatore.
Inoltre il mancato coordinamento non ha svolto alcun ruolo causale nel verificarsi dell'evento.
Da ultimo i ricorrenti affermano che la minor pena loro inflitta avrebbe dovuto avere conseguenze anche sulla responsabilità civile.
Con il secondo ricorso congiunto F.A. e F. V. deducono invece i seguenti motivi:
la violazione di legge per avere la sentenza impugnata, in violazione del principio di colpevolezza, ipotizzato una gestione di fatto da parte dei fratelli F. della ditta amministrata dal padre senza che vi fosse alcuna prova di questa gestione comune.
La sentenza impugnata non avrebbe inoltre compiuto un accertamento rigoroso sulla causalità e non avrebbe considerato che la condotta di MO.Ca. doveva essere considerata causa esclusiva dell'evento; la mancanza e manifesta illogicità della motivazione per non avere, la sentenza impugnata, accertato che l'omissione della condotta richiesta ed omessa fosse idonea ad evitare il verificarsi dell'incidente.
I manutentori erano gli unici titolari di un potere decisionale sull'impianto mentre le conseguenze verificatesi erano inimmaginabili per i ricorrenti.
La sentenza impugnata sarebbe inoltre priva di motivazione sull'esistenza del rapporto di causalità e non avrebbe considerato che l'osservanza delle norma antinfortunistiche faceva capo non al committente ma a chi competeva l'esecuzione dei lavori.
I.R.G. ha proposto ricorso contro la sentenza ricordata deducendo, come unico motivo di impugnazione, l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale perchè la sentenza impugnata non avrebbe indicato quale sia stata la condotta colposa che ha dato causa all'evento posto che i lavori erano stati concordati tra appaltante e appaltatore ed erano state adottate tutte le misure di prevenzione atte ad evitare il verificarsi di infortuni dando incarico, per l'esecuzione dei lavori, a due operai esperti e specializzati.
Inoltre la Corte di merito non avrebbe considerato che la condotta di MO.Ca., per la sua abnormità, si poneva come causa da sola sufficiente a determinare l'evento.
S.G. e P.C. hanno proposto ricorso congiunto denunziando, con l'unico motivo di impugnazione, la violazione di legge e il vizio di motivazione perchè la Corte di merito non avrebbe considerato che i consulenti tecnici delle parti avevano escluso che i ricorrenti, tecnici manutentori, avessero manomesso l'impianto.
La sentenza impugnata non avrebbe poi considerato che l'unica persona che aveva interesse a tenere aperte le porte del montacarichi era MO.Ca. in considerazione dell'elevato numero di scatole che stava trasportando e della circostanza che egli era in grado di compiere questa operazione mentre non vi è alcuna prova che il blocco dei sistemi di sicurezza sia stato compiuto dai ricorrenti.
Anche la parte civile S.M., in proprio e per conto dei figli minori, ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte napoletana - limitatamente al punto in cui ha riconosciuto un concorso del 20% a carico della persona offesa - denunziando la violazione di legge e il vizio di motivazione.
Secondo la ricorrente i giudici di secondo grado avrebbero affermato apoditticamente questo concorso di colpa in base ad una circostanza non dimostrata, che MO.Ca. non avesse azionato l'allarme o chiamato aiuto a voce.
In ogni caso la sentenza impugnata non avrebbe considerato che deve essere ritenuto comportamento normale che una persona bloccata in ascensore cerchi di uscire dal medesimo; trattasi dunque di condotta certamente non imprevedibile e comunque adottata in presenza di una carenza totale di adozione delle misure di sicurezza previste dalla legge.

4) I motivi nuovi.
I.R.G. ha proposto motivi nuovi deducendo il vizio di motivazione della sentenza impugnata che non avrebbe verificato - ipotizzate come presenti le condotte omissive contestate - se le medesime sarebbero state idonee ad evitare il verificarsi dell'evento.
I lavori erano terminati e non era più necessario alcun avviso di lavori in corso;
i tecnici erano specializzati e non vi è prova del mancato coordinamento.
Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che due anni prima dell'incidente, MO.Ca., poichè il montacarichi si era bloccato, aveva "con un semplice gesto della mano, aperto le porte dell'elevatore"; tale comportamento non era controllabile e comunque non vi è alcuna prova che l'evento sia riconducibile ad un intervento dei manutentori.
Anche S.G. e P.C. hanno proposto motivi nuovi con i quali deducono il vizio di motivazione perchè la sentenza impugnata avrebbe immotivatamente ricondotto all'azione dei ricorrenti l'eliminazione del sistema di sicurezza della serratura del montacarichi.
L'eliminazione del c.d. "ponticello" (un filo di rame che consente di escludere il sistema di sicurezza elettrico) non è affatto provata e comunque è incomprensibile che gli ispettori, che affermano di averlo visto, non l'abbiano sequestrato; tanto più che la sentenza impugnata da atto che il "ponticello" potrebbe essere stato smarrito dai vigili del fuoco intervenuti dopo l'incidente.

5) La ricostruzione dei fatti.
Va premesso, all'esame dei motivi contenuti nei ricorsi degli imputati, che gli accertamenti in fatto compiuti dalla sentenza impugnata devono ormai ritenersi definitivi in quanto entrambi i giudici di merito hanno adeguatamente e logicamente motivato sulla ricostruzione della vicenda che ha condotto all'infortunio nel quale MO.CA. ha trovato la morte.
In particolare, devono dunque ritenersi definitivamente accertate le circostanze che verranno di seguito esaminate.
Il primo punto ormai indiscutibile è quello relativo alle modalità e alle cause dell'incidente.
In sintesi, il tragico fatto si è verificato perchè l'ascensore- montacarichi - privo di porte proprie - si è messo in movimento con le porte a muro (site sulla parete del vano corsa) aperte mentre la movimentazione, per ovvie ragioni di sicurezza, deve sempre avvenire a porte chiuse.
La causa prossima di questo movimento è da individuare nella circostanza che un altro dipendente aveva azionato il pulsante di richiamo da un piano inferiore.
L'impianto di sollevamento in realtà disponeva di due sistemi idonei a prevenire che l'ascensore si mettesse in movimento a porte ancora aperte e quindi la situazione di pericolo che ciò comportava:
un sistema meccanico e un sistema elettrico che peraltro, al momento dell'incidente, erano stati entrambi disinseriti.
Non corrisponde dunque al vero quanto si afferma nel primo motivo del primo ricorso dei fratelli F., i quali sostengono che, essendo rimasta sconosciuta la causa del blocco dell'ascensore (che si fermò a circa un metro dal livello del secondo piano) è impossibile individuare la regola cautelare violata.
In realtà la sentenza impugnata ha ritenuto accertato che il movimento di discesa è iniziato perchè il montacarichi era stato richiamato da altro piano e la regole cautelari violate erano proprio quelle dirette ad evitare che il montacarichi si muovesse con le porte ancora aperte.
Ed è certo e indiscutibile che la condotta alternativa lecita rappresentata dal mantenimento in efficienza dei sistemi di protezione già indicati avrebbe evitato il verificarsi dell'evento perchè, in quella situazione, l'ascensore non si sarebbe mosso alla semplice pressione del pulsante al piano inferiore.
Di qui la conclusione che le censure che riguardano la causalità materiale dell'evento devono ritenersi manifestamente infondate.
Un altro punto ormai indiscusso (che peraltro neppure i ricorrenti pongono in discussione, salvo un generico accenno di I.R.) è costituito dalla circostanza che nè appaltante nè appaltatore dei lavori di manutenzione del montacarichi abbiano coordinato le rispettive attività cooperando nell'attuazione delle misure di prevenzione e protezione come previsto dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7,comma 2, lett. a).

6) La posizione di garanzia di F.A. e F. V..

Ciò premesso si osserva che anche gli altri motivi dei ricorsi proposti da F.A. e F.V. sono infondati.
Preliminarmente occorre esaminare le censure che si riferiscono all'esistenza di una posizione di garanzia in capo ai ricorrenti ed in particolare alla soluzione del quesito se possano, i medesimi, essere considerati "datori di lavoro" o se tale dovesse essere considerato soltanto il loro defunto padre FE.CA..
Anche su questo punto la sentenza impugnata, pur incorrendo in un'inesattezza (affermando erroneamente che la ditta (OMISSIS) aveva la forma di società a responsabilità limitata ma di ditta individuale formalmente intestata a FE.CA.;
ma l'errore è privo di rilievo sulla decisione), giustifica congruamente l'estensione della responsabilità anche ai figli del titolare motivando questa decisione con la circostanza che i due fratelli di fatto gestivano congiuntamente l'impresa.
In particolare la sentenza di secondo grado ricorda la deposizione di un testimone che ha riferito che i "titolari" erano i due ricorrenti e richiama le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado (p. 15 e 16) che argomenta ampiamente sulla loro posizione precisando che i medesimi davano "direttive e indicazioni al personale" e spiegando come, di fatto, fossero i fratelli F. ad assumere tutte le decisioni rilevanti per la gestione d'impresa.
Trattasi di accertamento in fatto (fondato su numerose deposizioni che il giudice di primo grado ha analizzato in modo dettagliato) che, essendo esente da alcun vizio logico o giuridico (che neppure i ricorrenti riescono ad individuare) si sottrae al vaglio di legittimità.

7) La violazione dell'obbligo di cooperazione tra appaltante e appaltatore.

Verificata l'infondatezza delle ragioni addotte dai ricorrenti F. sull'esistenza di una loro posizione di garanzia va adesso affrontato il tema che riguarda l'inadempimento dell'obbligo di cooperazione tra appaltante e appaltatore stabilito dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7,comma 2.
Va peraltro preliminarmente osservato che alcuno dei ricorrenti, come si è già rilevato, contesta l'esistenza dell'omissione; il tema ha solo in parte formato oggetto dei motivi di ricorso perchè solo in parte accennato nel ricorso dell'appaltatore ( I.R.) e oggetto di una limitata censura da parte degli appaltanti (i fratelli F.) i quali sostengono innanzitutto che l'obbligo doveva essere adempiuto dal loro defunto padre ma, sotto questo profilo, non può che rinviarsi alle già svolte considerazioni sulla qualità di datori di lavoro dai ricorrenti assunta.
Sotto diverso profilo i ricorrenti F. sostengono, come si è già accennato, che l'appaltante non può rispondere del fatto in esame, sia perchè l'attività dell'appaltante non ha natura di attività rischiosa; sia perchè si trattava di rischi specifici dell'attività svolta dall'appaltatore.
In definitiva dunque nè appaltante nè appaltatore pongono in discussione l'esistenza dell'obbligo previsto dall'art. 7 indicato e, tutto sommato, neppure la loro inosservanza salvo quanto di seguito si dirà.
Il primo profilo di censura è manifestamente infondato perchè non esiste attività economico produttiva che sia esente da rischi anche minimi nel suo svolgimento (anche le attività meramente intellettuali presentano sia pur modesti margini di rischio);
e infatti l'art. 7 non fa alcun riferimento a questa caratteristica delle attività appaltate.
In ogni caso l'utilizzazione di uno strumento meccanico con componenti elettriche di per sè costituisce esercizio di attività pericolosa che rende necessaria proprio quell'attività di coordinamento che, nel caso di specie, è mancata; e correttamente, questa omissione, è stata ritenuta aver causalmente contribuito al verificarsi dell'evento perchè è stato incensurabilmente accertato che l'incidente si è verificato proprio per il mancato coordinamento tra appaltante (che ha continuato ad utilizzare l'ascensore durante i lavori di manutenzione) e appaltatore (che ha disattivato i sistemi di protezione senza tener conto della circostanza che il montacarichi continuava ad essere utilizzato per le normali attività d'impresa).
Infondate sono anche le censure dei fratelli F. che si riferiscono all'applicabilità alla fattispecie del disposto dell'art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l'obbligo per il datore di lavoro committente per i "rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi") perchè questa esclusione va riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine.
Non può quindi considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di evitare che un ascensore sul quale si stanno eseguendo lavori di manutenzione venga utilizzato con la disattivazione dei sistemi di sicurezza.
Obbligo del committente non è quello di valutare l'idoneità dei sistemi di manutenzione utilizzati dall'appaltatore o di sindacare la correttezza delle misure specialistiche di prevenzione eventualmente utilizzate ma - in considerazione della contemporaneità dello svolgimento delle attività (di impresa e di manutenzione) - quello di verificare con l'appaltatore le modalità di utilizzo e le misure di prevenzione da adottare da entrambi nel caso di svolgimento contemporaneo di dette attività.
Insomma i fratelli F. avrebbero dovuto concordare con I. R. le misure da adottare per evitare incidenti nel caso di utilizzazione dell'impianto tra gli intervalli della manutenzione (o, comunque, quando il montacarichi veniva usato nel corso della manutenzione) e questa attività di cooperazione, certamente esigibile anche nei confronti dei primi, è mancata completamente.
Se svolta correttamente, inoltre, secondo la valutazione dei giudici di merito, avrebbe consentito di predeterminare le condizioni di utilizzo dell'impianto evitando l'esclusione dei sistemi di protezione quando il medesimo veniva utilizzato per l'attività d'impresa e quindi consentendo di evitare in termini di certezza un incidente quale quello verificatosi.

8) La responsabilità dell'appaltatore e dei suoi dipendenti.

Parte delle censure proposte da I.R. sono state già esaminate nella parte che precede; ciò, in particolare, per quanto riguarda l'inosservato obbligo di cooperazione che, se posto in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell'incidente.
Questa omissione (di un adempimento che ha precisa funzione cautelare per rispondere alla critica secondo cui i giudici di merito non avrebbero individuato la regola cautelare omessa) è stata la causa fondamentale dell'incidente anche se si volesse attribuire soltanto ai dipendenti della società, di cui il ricorrente era legale rappresentante, la scelta di escludere i sistemi di protezione.
Quanto alle altre censure proposte con il ricorso e i motivi nuovi da I.R. le medesime possono essere esaminate congiuntamente a quelle, in gran parte analoghe, contenute nel ricorso e nei motivi nuovi di S.G. e P.C..
La prima censura comune ai ricorrenti è quella che riguarda l'affermazione che sarebbe stato il defunto MO.Ca. ad escludere i sistemi di protezione.
Questa affermazione sarebbe fondata, secondo i ricorrenti, sulla circostanza che un testimone ha riferito che un paio di anni prima dell'incidente MO.Ca. aveva disinserito il sistema di protezione meccanico abbassando i c.d. "catenacci" che garantivano la protezione.
Evidente è la natura congetturale di questa ricostruzione: perchè due anni prima la persona offesa aveva escluso il sistema di protezione meccanico si vorrebbe ritenere provato, in mancanza di alcun elemento anche indiziario di conferma, che possa averlo fatto in occasione dell'infortunio in cui ha perso la vita.
Ma in ogni caso questa ricostruzione è priva di decisività perchè comunque resterebbe la disattivazione del sistema di prevenzione elettrico che alcuno attribuisce a MO.Ca..
Esistono peraltro anche censure di S. e P. che concernono proprio la manomissione del sistema di prevenzione elettrico che sarebbe avvenuta mediante l'utilizzazione del c.d.
"ponticello", un filo di rame che, come già accennato, consentiva agli addetti alla manutenzione di simulare la chiusura del circuito elettrico così da escludere il sistema di sicurezza elettrico.
Orbene, se è vero - come riferisce la sentenza impugnata - che il ponticello utilizzato nell'occasione non è mai stato sequestrato, è altrettanto vero che i giudici di appello ne ritengono accertata l'esistenza sulla base della deposizione degli ispettori intervenuti sul luogo subito dopo l'incidente e questo accertamento in fatto non può che essere ritenuto incensurabile nel giudizio di legittimità.
Si aggiunga che la sentenza impugnata dimostra in modo argomentato, con il richiamo alle deposizioni di alcuni testi e alle dichiarazioni di un consulente tecnico di parte, che MO.Ca. - anche ammesso (ma la Corte esclude che ciò si sia verificato) che potesse avere avuto l'idea di escludere il sistema di prevenzione di natura meccanica - non aveva comunque alcun interesse (e neppure le capacità tecniche) ad escludere il sistema di protezione elettrico perchè questa esclusione era utile soltanto ai manutentori.
Questo tema consente di affrontare l'ultimo argomento contenuto nel ricorso e nei motivi nuovi di S. e P. i quale contestano che sia stata raggiunta la prova che siano stati loro a rimuovere i sistemi di protezione.
Su questo aspetto i giudici di merito hanno congruamente argomentato evidenziando come l'incidente si sia verificato il 27 aprile 2000 alle ore 17 subito dopo che S. e P. si erano allontanati dai locali della ditta (OMISSIS) presso la quale stavano appunto eseguendo i lavori di ripristino e manutenzione del montacarichi in questione.
I giudici di merito hanno escluso che l'esclusione dei sistemi di prevenzione potesse essere stata operata dai dipendenti (OMISSIS) e hanno sottolineato come questo disinserimento rispondesse ad un preciso scopo dei manutentori dei quali agevolava l'opera.
D'altro canto la contestazione ai due ricorrenti (come formulata anche nel capo d'imputazione) non riguarda tanto l'opera di disinserimento delle protezioni quanto la riconsegna dell'impianto alla (OMISSIS) senza che i sistemi di sicurezza venissero nuovamente inseriti e questa circostanza è stata ritenuta pacificamente accertata dai giudici di merito con argomentazioni certamente non illogiche avendo i medesimi verificato che i dipendenti della ditta appaltante non erano in grado di disinserire i sistemi di protezione e che, al momento dell'incidente, i tecnici manutentori si erano da poco allontanati dalla sede dell'impresa appaltante.
Si aggiunga, come hanno sottolineato entrambe le sentenze di merito, che alcun cartello o segnale era stato apposto all'interno del montacarichi per segnalare situazioni di pericolo o modalità d'uso dell'impianto che valessero ad attrarre l'attenzione degli utilizzatori sui pericoli presenti in tale uso.

9) La condotta della persona offesa quale causa da sola idonea a determinare l'evento.

Tutti i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per aver escluso l'esistenza di una causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento e quindi ad escludere il rapporto di causalità (art. 41 c.p., comma 2).
Queste censure ripropongono uno dei temi di maggior complessità del diritto penale relativo all'interpretazione dell'art. 41 c.p., comma 2 secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento".
Si tratta di una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo l'opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell'art. 41 in esame, comma 1 che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause ("condicio sine qua non").
Anzi, secondo taluni autori questa norma escluderebbe che il codice abbia voluto accogliere integralmente la teoria condizionalistica essendo, il concetto di causa sopravvenuta, estraneo a questa teoria così come è da ritenere estraneo alla teoria della causalità adeguata.
E' stato affermato in dottrina che se il comma 2 in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perchè, in questi casi, all'esclusione si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41, comma 1.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare l'evento.
Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perchè, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema è risolto dall'art. 41, comma 1.
Su questa affermazione di principio deve ritenersi raggiunto un sufficiente consenso in quanto gli orientamenti (peraltro, a quanto risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano la tesi della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere state più riproposte negli ultimi decenni.
In base alla ricostruzione che va sotto il nome della teoria della causalità "umana" si parte dalla premessa che, oltre alle forze che l'uomo è in grado di dominare ve ne sono altre - che parimenti influiscono sul verificarsi dell'evento - che invece si sottraggono alla sua signoria.
Può dunque essere oggettivamente attribuito all'agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che fuoriesce da questa possibilità di controllo.
Quali sono gli elementi esterni controllabili? Innanzitutto quelli dotati da carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con regolarità qualora venga posta in essere l'azione.
Ma non solo queste conseguenze si sottraggono al dominio dell'uomo ma altresì quelle che si caratterizzano per essere non probabili o non frequenti perchè comunque possono essere prevedute dall'uomo.
Che cosa sfugge invece al dominio dell'uomo? Ciò che sfugge a questo dominio - secondo l'illustre Autore che ha formulato la teoria - "è il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi...nei giudizi sulla causalità umana si considerano "propri" del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi; in altri termini esclusi i fattori che presentano un carattere di eccezionalità".
Per concludere che per l'imputazione oggettiva dell'evento sono necessari due elementi, uno positivo e uno negativo: quello positivo "è che l'uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato;
il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali (rarissimi).
Soltanto quando concorrono queste due condizioni l'uomo può considerarsi autore dell'evento".
Perchè possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si dice) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all'azione (od omissione) dell'agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
E' noto l'esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l'agente ha posto in essere un antecedente dell'evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall'incendio dell'ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato.
Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a seguito del ferimento) ma realizza una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).
Va infine rilevato che sia l'Autore che l'ha proposta che tutti coloro che l'hanno condivisa, compresa la giurisprudenza di legittimità e di merito, hanno affermato che la teoria della causalità "umana" è applicabile anche ai reati omissivi impropri.

10) L'applicazione dell'art. 41, comma 2 nel caso concreto.

Alla luce della ricostruzione che precede la tesi dei ricorrenti non appare condivisibile e le censure proposte nei ricorsi su questo punto sono da ritenere infondate.
Per quanto riguarda la condotta del lavoratore va intanto rilevato che, nel campo della sicurezza del lavoro, i principi ricordati consentono di escludere l'esistenza del rapporto di causalità nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento in base al già ricordato art. 41 c.p., comma 2.
Nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro deve dunque considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro ed è stato più volte affermato, dalla giurisprudenza di questa medesima sezione, che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4^, 14 dicembre 1999 n. 3580, Bergamasco, rv. 215686; 3 giugno 1999 n. 12115, Grande, rv. 214999; 14 giugno 1996 n. 8676, Ieritano, rv.
206012).
Tenendo presenti questi principi è dunque da escludere che abbia queste caratteristiche di abnormità il comportamento, pur imprudente, del lavoratore che non esorbiti completamente dalle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e mentre vengono utilizzati gli strumenti di lavoro ai quali è addetto.
Anche quando la condotta del lavoratore sia stata contraria ad una norma di prevenzione ciò non sarebbe sufficiente a ritenere la sua condotta connotata da abnormità essendo, l'osservanza delle misure di prevenzione, finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore.
Deve quindi ritenersi corretto l'argomentare dei giudici di merito i quali, attenendosi ai principi ricordati, hanno escluso l'abnormità della condotta del lavoratore vittima dell'incidente.
E' infatti del tutto prevedibile che un lavoratore - trovandosi in una situazione di emergenza da lui non provocata (ma il discorso non cambierebbe se questa situazione originasse da una sua condotta) - opti per l'unica via di fuga che gli si presenta invece di starsene fermo ad aspettare gli eventi eventualmente azionando il segnale di allarme.

11) Il concorso di colpa della vittima.

Questo tema forma oggetto del ricorso delle parti civili che hanno contestato la statuizione contenuta nella sentenza della Corte d'Appello nella parte in cui, modificando sul punto quella di primo grado, ha ritenuto l'esistenza di un concorso di colpa del lavoratore defunto pari al venti per cento.
Ai fini penali il concorso di colpa della persona offesa può avere rilievo sulla determinazione della pena (ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, n. 3) ma nel nostro caso, in mancanza di ricorso del p.m., la determinazione della pena inflitta dai giudici di appello è divenuta definitiva.
Per quanto riguarda invece il rilievo del problema ai fini del risarcimento del danno cagionato dagli imputati deve osservarsi che il concorso di colpa del lavoratore non è ipotizzabile in ogni caso in cui egli abbia tenuto, nell'esecuzione dei compiti assegnatigli, una condotta colposa che abbia avuto efficienza causale sull'evento dannoso verificatosi in suo danno.
La funzione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro non è infatti solo quella di evitare condizioni e modalità produttive pericolose per la salute del lavoratore ma anche quella di evitare le conseguenze degli errori commessi dai lavoratori e dovuti alle più svariate ragioni (inesperienza, negligenza, eccessiva sicurezza, disattenzione ecc.).
Non appare dunque giuridicamente configurabile un concorso di colpa del lavoratore nel caso di violazione, da parte di altre persone, di norme espressamente dirette a prevenire proprio le conseguenze di tali suoi comportamenti colposi.
Non v'è concorso di colpa se il lavoratore che presta la sua attività in altezza e non è stato munito delle cinture di sicurezza pone un piede in fatto per disattenzione; o nel caso in cui, sempre per disattenzione (quindi per una condotta negligente) viene a contatto con un meccanismo in movimento non protetto e in tutti i casi consimili nei quali la funzione della regola cautelare è diretta a prevenire proprio le conseguenze di tali condotte negligenti (o anche imprudenti o imperite).
E ciò anche se il lavoratore abbia acconsentito a prestare la sua attività in situazione di pericolo, in considerazione dell'indisponibilità del diritto alla salute.
Ma poichè gli obblighi di prevenzione gravano anche sui lavoratori ( D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 6 ) va comunque sottolineato che soltanto nel caso in cui l'infortunato abbia volontariamente trasgredito alle disposizioni del datore di lavoro, o abbia adottato di sua iniziativa modalità pericolose di esecuzione del lavoro, potrà affermarsi, ai fini civilistici che interessano, l'eventuale suo concorso di colpa.
Nel caso accertato dal giudice di merito non era ipotizzabile una colpa del lavoratore che non aveva l'obbligo di osservare una specifica disposizione impartitagli dal datore di lavoro e, tanto meno, di predisporre le misure di prevenzione ma quello di osservare le cautele predisposte dal datore di lavoro e dall'appaltatore i quali, nel caso in esame, per quanto si è detto in precedenza, non avevano a tale obbligo adempiuto.
Nè può dirsi che il lavoratore abbia trasgredito alle disposizioni impartitegli perchè egli si è limitato, e ciò non è da alcuno contestato, ad eseguire i compiti assegnatigli con le modalità prescritte.
Ma il caso in esame si caratterizza per un altro aspetto: in presenza di una situazione di emergenza nella quale si prospettino più condotte astrattamente idonee a sottrarsi ad un pericolo imminente non può considerarsi esigibile la sola condotta che, con valutazione a posteriori, sia considerata la meno idonea a salvaguardare dal pericolo.
Se anche fosse provato che la condotta più idonea era quella di attendere lo sviluppo della situazione e non farsi prendere dal panico per il rischio di rimanere intrappolato come è possibile considerare colposa - accertamento che richiede una valutazione ex ante - la scelta di sottrarsi a questa situazione cercando di uscire al più presto, nella situazione di emergenza creatasi, dal montacarichi? E se anche potesse considerarsi colposa la condotta in base ai criteri già esposti si tratterebbe di colpa connaturata al normale svolgimento del lavoro e non della trasgressione di direttive del datore di lavoro o di casi consimili che consentono di configurare il concorso di colpa del lavoratore infortunato.
Riguardando le statuizioni civili va, infine, rilevata la manifesta infondatezza del motivo contenuto nel primo ricorso F. secondo cui dalla diminuzione della pena da parte del primo giudice doveva derivare una diminuzione della responsabilità civile degli imputati.
A parte che non esiste alcuna correlazione (e tanto meno un automatismo) tra riduzione della pena e diminuzione della responsabilità (civile) va osservato che, in questo caso si è proprio verificata questa ipotesi: diminuzione della responsabilità per il riconosciuto concorso di colpa e diminuzione della pena.
Non si comprende quindi di che cosa si dolgano gli imputati F..

12) Conclusioni.

Consegue alle considerazioni svolte il rigetto di tutti i ricorsi degli imputati e, in accoglimento del ricorso delle parti civili, l'annullamento senza rinvio del punto della sentenza che ha affermato, ai fini civilistici, il concorso di colpa del lavoratore deceduto nella causazione dell'incidente.
Ne consegue altresì la condanna degli imputati ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.

P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta penale, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'affermato concorso di colpa della vittima, che esclude.
Rigetta i ricorsi e condanna gli altri ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2009