Categoria: Giurisprudenza civile di merito
Visite: 8293

Infortunio occorso durante il servizio di leva: M. si trovava nei locali della caserma, in esecuzione di attività connesse al suo servizio di leva, quando una sega circolare che in quel momento l'attore medesimo stava adoperando, gli aveva troncato la falange unghiale del dito mignolo della mano sinistra e procurato ferite multiple alle altre dita e al palmo. Per tale infortunio è stata tra l'altro riconosciuta la causa di servizio.
Egli chiede dunque di essere risarcito del danno subito mediante applicazione di "parametri equivalenti a quelli in vigore per il riconoscimento delle lesioni riportate a seguito di incidenti subiti per cause di lavoro o incidenti stradali".
Chiedeva pertanto che il Ministero convenuto fosse condannato al risarcimento dei danni subiti.

Il Tribunale, nel condannare il Ministero convenuto al risarcimento, afferma innanzitutto che:
E' stato condivisibilmente sostenuto che la normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro deve considerarsi applicabile all'ambiente militare ed alle attività svolte dai militari di leva all'interno dei relativi presidi, nonostante non si tratti di attività dirette alla produzione di beni e servizi e nonostante non si abbia in tali casi rapporto di lavoro subordinato in senso tecnico.

"Ciò posto, deve evidenziarsi che il Ministero della Difesa convenuto non ha provato - e si trattava di un onere probatorio sul medesimo incombente, in base ai principi desumibili dagli artt. 1218 e 2087 c.c. - che all'attore fossero state impartite adeguate istruzioni e fosse stato sottoposto ad adeguato addestramento per l'utilizzo dei macchinari che avevano determinato l'infortunio; non ha provato l'adozione di presidi antinfortunistici; non ha provato che il macchinario utilizzato fosse dotato di misure, dispositivi o accorgimenti antinfortunistici.
In base a tali elementi deve affermarsi la responsabilità dell'Amministrazione convenuta."


 




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI PALERMO
PRIMA SEZIONE CIVILE


in persona del giudice dr. Gaetano SCADUTI, ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nel procedimento iscritto al n. 1338/2001 r.g. promosso da MI.VI., elettivamente domiciliato in questa via (omissis) presso lo studio dell'avv. Ca.Pe.Ra. che lo rappresenta e difende per procura a margine della citazione

ATTORE

contro MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in questa via (omissis) presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato che io rappresenta e difende ope legis

CONVENUTO

Oggetto: risarcimento del danno.



Fatto


Con atto di citazione notificato il 19 gennaio 2001 Vi.Mi. conveniva il Ministero della Difesa dinanzi a questo Tribunale, premettendo:
- di aver prestato servizio di leva presso il 30 Gr. di Catania;
- di essere rimasto vittima di un incidente, verificatosi il 25 ottobre 1993, durante la lavorazione di sagome in legno per le esercitazioni di tiro;
- che, più precisamente, una sega circolare (che in quel momento esso attore stava adoperando) gli aveva troncato la falange unghiate del dito mignolo della mano sinistra e procurato ferite multiple alle altre dita ed al palmo;
- di aver presentato richiesta di equo indennizzo ai sensi dell'art. 4 della L. 3 giugno 1981 n. 308;
- che l'istruzione della pratica si era protratta per diversi anni, concludendosi con la decisione della CMD II, la quale aveva giudicato l'infermità in questione come dipendente da causa di servizio, ma non ascrivibile ad alcuna delle categorie previste;
- di avere comunque diritto ad essere risarcito del danno subito mediante applicazione di "parametri equivalenti a quelli in vigore per il riconoscimento delle lesioni riportate a seguito di incidenti subiti per
cause di lavoro o incidenti stradali".
Chiedeva pertanto che il Ministero convenuto fosse condannato al risarcimento dei danni subiti da esso attore per la complessiva somma di Lire 17.190.680 (o di quella maggiore risultante dall'istruzione), con gli interessi e la rivalutazione monetaria dal giorno del sinistro.
Si costituiva il Ministero della Difesa, eccependo in primis il difetto di giurisdizione ed osservando, sul punto, che la controversia afferiva ad un rapporto d'impiego con le Forze Armate; eccepiva, in subordine, la prescrizione quinquennale e contestava infine la fondatezza della domanda nell'an e nel quantum, specie per l'aspetto relativo al (non configurabile) danno morale.
Con sentenza non definitiva n. 1498/2004 del giorno 11 maggio 2004 questo Tribunale ha dichiarato la propria giurisdizione ed ha rigettato l'eccezione di prescrizione.
Rimessa la causa sul ruolo, la stessa è stata istruita mediante C.T.U. e, quindi, è stata posta in decisione all'udienza del giorno 8 aprile 2008, con concessione dei termini di cui all'art. 281 quinquies c.p.c.

Diritto


Va innanzitutto evidenziato che il potere giurisdizionale del Tribunale si è ormai consumato con riferimento alla questione della giurisdizione (affermata con la sentenza non definitiva in capo al G.O.) ed a quella della prescrizione (eccezione che è stata rigettata in considerazione della riconducibilità della vicenda in questione nell'ambito del regime della responsabilità contrattuale, in quanto "in capo all'Amministrazione della Difesa", anche con riguardo ad un rapporto di ferma di leva, sorge "una serie di obblighi di protezione e di sicurezza non dissimili da quelli gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c."), deve quindi entrarsi nel merito della vicenda.
A tal riguardo è opportuno riprendere le notazioni contenute nella sentenza non definitiva circa la riconducibilità della responsabilità dell'odierno convenuto all'alveo della responsabilità contrattuale e circa
la configurabilità di un obbligo di protezione in termini sostanzialmente analoghi a quello di cui all'art. 2087 c.c.
E stato infatti condivisibilmente sostenuto che la normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro deve considerarsi applicabile all'ambiente militare ed alle attività svolte dai militari di leva
all'interno dei relativi presidi, nonostante non si tratti di attività dirette alla produzione di beni e servizi e nonostante non si abbia in tali casi rapporto di lavoro subordinato in senso tecnico (cfr. Pretura Pordenone, 19 gennaio 1994).
Non sembra, quindi, che possano sussistere dubbi circa la riconducibilità della vicenda in questione all'alveo della responsabilità contrattuale. Se, d'altra parte, la giurisprudenza - anche di legittimità - ha individuato ipotesi di responsabilità contrattuale in altre fattispecie in cui manca o può mancare la spontaneità circa la costituzione del rapporto, per il semplice "contatto sociale", come nelle ipotesi di prestazioni sanitarie, prestazioni scolastiche o addirittura attività provvedimentale della P.A. per il periodo successivo all'entrata in vigore della l. 241/90 (cfr. Cass. 157/2003), appare sicuramente ricostruibile in termini di responsabilità contrattuale anche la vicenda oggetto di causa.
D'altronde, l'art. 2087 c.c. - secondo cui l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro - detta i principi generali (cfr. Cass. 2287/1971) e costituisce nello stesso tempo norma di chiusura (cfr. 5048/1988) del sistema
antinfortunistico. Secondo l'orientamento prevalente, poi, l'art. 2087 c.c. opera anche al di fuori di rapporti relativi all'esercizio di un'impresa.
A questo punto va evidenziato che pacificamente l'attore, mentre prestava servizio di leva presso il 30 Gr. di Catania, era rimasto vittima di un incidente, verificatosi il 25 ottobre 1993, durante la lavorazione di sagome in legno per le esercitazioni di tiro.
Più precisamente, mentre il Mi. si trovava nei locali della caserma, in esecuzione di attività connesse al suo servizio di leva, una sega circolare che in quel momento l'attore medesimo stava adoperando, gli aveva troncato la falange unghiale del dito mignolo della mano sinistra e procurato ferite multiple alle altre dita e al palmo. Per tale infortunio è stata tra l'altro riconosciuta la causa di servizio.
Ciò posto, deve evidenziarsi che il Ministero della Difesa convenuto non ha provato - e si trattava di un onere probatorio sul medesimo incombente, in base ai principi desumibili dagli artt. 1218 e 2087 c.c. - che all'attore fossero state impartite adeguate istruzioni e fosse stato sottoposto ad adeguato addestramento per l'utilizzo dei macchinari che avevano determinato l'infortunio; non ha provato l'adozione di presidi antinfortunistici; non ha provato che il macchinario utilizzato fosse dotato di misure, dispositivi o accorgimenti antinfortunistici.

In base a tali elementi deve affermarsi la responsabilità dell'Amministrazione convenuta.

Per quanto riguarda il quantum debeatur, il C.T.U., con le sua relazioni (perfettamente condivisibili e tra l'altro non contestata dalle parti), ha accertato che gli esiti residuati (diretta e sicura conseguenza del
sinistro oggetto di causa) hanno dato luogo ad un'invalidità permanente pari al 12% (due percento). Il periodo di inabilità temporanea assoluta è stato quantificato in 30 giorni e quello di inabilità temporanea
parziale è stato quantificato in 40 giorni.
Ciò posto, deve esser liquidato in via equitativa il danno biologico subito dall'attore, inteso quale danno all'integrità psico - fisica del soggetto; esso prescinde da una concreta menomazione della capacità produttiva e riguarda la sfera culturale, affettiva, sociale, nonché tutte le attività realizzatrici della persona umana.
Per la determinazione del danno da invalidità permanente, si aderisce alle più recenti pronunzie della Corte di Cassazione in materia, utilizzando per la liquidazione il criterio del cosiddetto "punto tabellare", in base al quale l'ammontare del danno viene calcolato in relazione all'età della parte lesa ed al grado di invalidità.
Questo Tribunale ha (nel gennaio 2002) rivisitato le tabelle di liquidazione fin qui adottate, al fine di adeguare i criteri di liquidazione a quelli utilizzati nel resto del Paese, di valorizzare la risarcibilità delle
"macroinvalidità", ridimensionando, per contro, l'incidenza delle "microinvalidità", di ottenere una maggiore differenziazione per fasce d'età ed infine di adeguare le suddette valutazioni anche ai parametri
ormai normativamente previsti dalla l. 5 marzo 2001 n. 57. Il parametro di riferimento rappresentato dalle tabelle in uso presso questo Tribunale (al momento della precisazione delle conclusioni) per la liquidazione del danno biologico tiene inoltre conto del coefficiente di rivalutazione di cui al D.M. 12 giugno 2007, emesso ai sensi dell'art. 5, 4 comma, l. 57/2001.
Secondo tali criteri, tenuto conto della invalidità permanente del dodici percento e dell'età dell'attore all'epoca del sinistro - 20 anni -, può essere liquidata equitativamente - a titolo di danno biologico - la
somma complessiva di 21.713,92 Euro in cifra tonda, secondo i valori attuali, utilizzando il valore punto di Euro 1.904,73, da moltiplicare per il grado di invalidità (12) e per un coefficiente - 0,950 - corrispondente all'età del danneggiato.
A titolo di inabilità temporanea assoluta e relativa appare equo liquidare la somma complessiva di 2.036,00 Euro sulla base dei valori attuali, pari ad Euro 40.72 Euro al giorno per l'I.T.T. ed a 20,36 Euro al giorno per l'I.T.P.
È anche dovuto all'attore il risarcimento del danno morale, essendosi concretamente accertata la commissione di un fatto riconducibile allo schema delle lesioni fisiche.
Va in ogni caso osservato che recentemente la Corte di Cassazione, innovando un precedente orientamento, ha anche sostenuto che alla risarcibilità del danno non patrimoniale "ex" artt. 2059 c.c. e
185 c.p. non osterebbe il mancato positivo accertamento della colpa dell'autore del danno se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe
qualificabile come reato (cfr. sentt. nn. 7281 e 7283 del 2003).
Ancora, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 233/2003, ha affermato che l'art. 2059 c.c. va inteso nel senso che il danno non patrimoniale, ove riferito all'astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche
nell'ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell'autore del fatto risulti da una presunzione di legge.
Ebbene, nel caso di specie ricorrono tutti gli elementi obiettivi dell'astratta ipotesi di reato di cui all'art. 590 c.p., mentre gli artt. 1218 e 2087 c.c. pongono una presunzione di colpa.
Pertanto va riconosciuto all'attore anche il risarcimento del danno morale.
Tale danno - solitamente, per prassi di questo Tribunale, quantificabile in una misura oscillante tra il quarto e la metà del danno biologico - va liquidato in via equitativa, tenuto conto del tipo di infortunio,
dell'invalidità residua e dell'età della vittima, in complessivi 7.000,00 Euro secondo i valori attuali.
In definitiva, la somma complessivamente determinata a titolo risarcitorio per le lesioni fisiche subite dall'attore ammonta a 30.749,92 Euro, secondo i valori attuali.
Poiché tale somma corrisponde ai valori attuali, andrà prima devalutata e poi, sulla stessa andranno applicati interessi compensativi sulla somma via via rivalutata.
Infatti, le superiori somme, espresse in valori attuali, non comprendono l'ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità del denaro, derivante dal ritardo con cui viene liquidato al
creditore danneggiato l'equivalente in denaro del bene leso.
A tal proposito va osservato che in caso di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, se la liquidazione viene effettuata per equivalente - e cioè con riferimento al valore del bene perduto dal
danneggiato all'epoca del fatto illecito, espresso poi in termini monetali che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione - è dovuto anche il danno da ritardo e cioè il lucro
cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma.
Infatti, la rivalutazione della somma liquidata e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono due funzioni diverse, mirando la prima alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale anteriore
all'illecito, mentre gli interessi hanno natura compensativa, con la conseguenza che questi ultimi sono compatibili con la rivalutazione.
Affermata, pertanto, la cumulabilità di rivalutazione ed interessi, ormai pacifica in giurisprudenza, i problemi che sorgono sono quelli di determinare i limiti di tale concorrenza, al fine di individuare i corretti
criteri per la liquidazione del lucro cessante e per evitare la c.d. overcompensation del danno.
A tal proposito va specificato che, in un primo tempo, la giurisprudenza aveva ritenuto che gli interessi andassero corrisposti sulla somma rivalutata con decorrenza dal giorno in cui si era verificato l'evento
dannoso. A parte la critica alla categoria giurisprudenziale degli interessi "compensativi", si è da più parti osservato che, con la suddetta forma di liquidazione, il creditore riceveva di più del danno effettivamente subito, perché anche gli interessi (nella misura legale) venivano rivalutati, in ragione del deprezzamento del valore intrinseco della moneta, di guisa che anche gli interessi ricadevano nella categoria dei debiti di valore, senza alcuna base legale (il debito di interessi è, per sua natura, debito pecuniario, e cioè stabilito in misura fissa ed estinto con la entità di moneta corrispondente a detta misura). Si realizzava, in sostanza, una sorta di anatocismo, all'infuori dei casi previsti dall'art. 1283 (cfr. Cass. sez. un., 10 ottobre 1992 n. 11065).
In accoglimento parziale di dette critiche, altre pronunce hanno affermato che gli interessi legali vanno calcolati non sulla somma risultante dalla rivalutazione monetaria della liquidazione del credito, ma sul
capitale originario (valore del bene al momento dell'illecito che lo ha sottratto al patrimonio del creditore), peraltro rivalutato anno per anno, secondo gli indici ISTAT (Cass. 20 giugno 1990 n. 6209; 7 aprile 1994, n. 3290).
Sul punto sono, quindi, intervenute le S.Q. della Cassazione, con la sentenza n. 1712/95, che hanno tentato di risolvere definitivamente il problema dell'overcompensation e dell'esatta liquidazione del danno da ritardo, pur nell'ottica della conservazione del principio della risarcibilità sia del valore del bene perduto secondo la sua rivalutazione monetaria (danno emergente) che del corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene predetto per tutto il tempo che intercorre fra il fatto e la liquidazione (lucro cessante).
In tal senso si è affermato che un principio generale di equità impone di compensare, con l'attribuzione degli interessi, il conseguimento - in ritardo rispetto al sorgere del credito - della disponibilità di una
somma di denaro; somma che arricchisce il patrimonio del debitore che non paga subito, con correlativo lucro cessante di chi dovrebbe ottenerlo e non ne ha la disponibilità.
L'equivalente pecuniario (nei debiti di valore), infatti, soddisfa il credito per il bene perduto, ma non anche il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene, se fosse stato rimpiazzato
immediatamente con una somma di denaro equivalente. Detto mancato godimento, nel tempo, concreta un danno da ritardo che consiste nei frutti della somma di denaro equivalente al valore del bene al
momento del fatto, di cui il debitore ha ritardato il pagamento.
A tal proposito, aggiungono le Sezioni Unite della Cassazione, va sottolineato che non è prevista nel nostro ordinamento una presunzione assoluta dell'esistenza di un danno conseguente al mancato godimento di tali somme (come, invece, ad esempio nel caso previsto all'art. 1224 c.c. la cui applicazione è limitata alle obbligazioni aventi ad oggetto sin dall'origine somme di denaro) e pertanto dovrà essere la parte a fornire la prova sia del fatto che, se avesse ottenuto tempestivamente il denaro, lo avrebbe fatto fruttare sia dello specifico ammontare dei frutti.
La medesima sentenza, però, afferma che la prova del danno non deve essere necessariamente rigorosa (nel senso, cioè, di dimostrare che, avendo avuto tempestiva disponibilità delle somme, si sarebbe
ottenuta un'effettiva e determinata fruttificazione delle stesse o si sarebbe evitata l'accensione di un mutuo) ma, pur non trattandosi, come già detto, di un danno presunto ex lege, la prova stessa può essere
fornita anche mediante presunzioni semplici e facendo ricorso all'art. 1226 c.c. (criteri equitativi) e, quindi, in quest'ambito di equo apprezzamento (art. 2056 c.c.) il lucro cessante può essere liquidato col criterio degli interessi, senza dovere necessariamente fare ricorso al tasso degli interessi legali (in tal senso v. anche Cass. 1 dicembre 1992 n. 12839).
A tal fine occorre precisare che la giurisprudenza, già da tempo, aveva escogitato delle "presunzioni personalizzate" (v. SS. UU. Cass. n. 3776/79) al fine di determinare il danno da ritardo nell'adempimento
di una prestazione. In sostanza si tratta di tener conto delle condizioni e qualità personali del creditore, in modo da rispecchiare il più possibile l'effettiva incidenza dell'inadempimento sul suo patrimonio.
In tal senso, per determinare il presumibile impiego del denaro e la sua redditività, va tenuta in considerazione la categoria di appartenenza del creditore se, ad esempio, si tratta di ente pubblico,
imprenditore, risparmiatore abituale, modesto o semplice consumatore.
In base a quanto affermato, pertanto, l'imprenditore deve dare prova del normale rendimento dei suoi investimenti o del costo del prestito cui è dovuto ricorrere; il risparmiatore abituale o occasionale deve
dare prova del rendimento medio dei suoi risparmi nel periodo del ritardo; il modesto consumatore, invece, non ha bisogno di dar prova specifica del danno subito, potendosi questo accertare in base ad un
dato notorio, ossia l'indice ISTAT che misura la variazione dei prezzi al consumo.
Va a tal proposito osservato che certa giurisprudenza, in passato, ha tentato di ampliare il più possibile tale ultima categoria, riproponendo, così, il problema dell'automatica risarcibilità del danno da ritardo in base agli indici ISTAT. Per tale ragione nel 1986 è intervenuta la Cassazione, a Sezioni Unite (sent. n. 2368), provvedendo a definire in termini piuttosto restrittivi la categoria in questione come comprensiva soltanto di quei soggetti che impiegano tutte le proprie risorse economiche, a causa della loro esiguità, in beni di consumo.
Tornando al caso che ci occupa, ai fini di determinare in modo equitativo l'ammontare della somma in questione, devono svolgersi le seguenti considerazioni.
Innanzitutto deve presumersi - in base all'id quod plerumque accidit - che il Mi. avrebbe comunque investito in modo fruttifero le somme oggetto della presente pronunzia se le avesse ottenute al momento
del sinistro (non è, infatti, credibile o, comunque, non corrispondente alla normalità della situazione attuale, che l'attore avrebbe conservato le somme sotto il classico materasso o mattone).
In mancanza di elementi precisi che indichino il tipo di investimento prediletto dall'attore deve ritenersi - sempre in base all'id quod plerumque accidit - che la stessa avrebbe depositato le somme in un conto
corrente bancario o che le avrebbe investite in B.O.T. (trattasi, infatti, delle forme d'investimento meno rischiose e, proprio per questo, più diffuse tra i risparmiatori, soprattutto all'epoca dei fatti).
Va, inoltre, osservato che, tenuto conto dell'oscillazione dei saggi d'interesse praticati dalle banche in favore dei risparmiatori nel periodo che ci interessa o dell'oscillazione degli utili che hanno garantito i
B.O.T. nel periodo medesimo, il tasso d'interesse da prendere in considerazione ai sensi della sentenza delle SS. UU. 1712/95, va stabilito (trattasi pur sempre, lo si ribadisce, di valutazione equitativa) nel 3%.
La commisurazione del danno da ritardo alla stregua di una media tra il tasso medio d'interesse praticato dalle banche in favore dei risparmiatori e del tasso medio garantito dai B.O.T. è, inoltre, criterio da
prediligere in quanto trattasi di una delle forme di investimento meno fruttifere; mentre andrebbe provato dall'attore che, avendone avuta la possibilità, avrebbe impiegato in modo più redditizio (ma anche più
rischioso e meno diffuso presso la generalità dei risparmiatori) tali somme.
In base, quindi, alle osservazioni che precedono - normalità d'un investimento fruttifero, diffusione del deposito in conto corrente, redditività di tale investimento bassa e comunque inferiore al tasso legale
d'interesse, mancanza di prova circa investimenti più fruttiferi - appare non opportuno commisurare il danno da ritardo al tasso legale d'interessi, bensì è più equo commisurarlo ad un valore medio, nel periodo che ci interessa, tra il tasso d'interesse applicato dalle banche in favore dei correntisti ed il tasso attivo sui B.O.T. Pertanto tale tasso può determinarsi nella misura del 3%.
Sempre in base all'ormai costante orientamento della cassazione (cfr. Cass. 1712/95), gli interessi compensativi andranno calcolati sulla somma via via rivalutata anno per anno.
Pertanto, devalutando la somma di 30.749,92 Euro, sopra determinata, alla data del sinistro, rivalutando la somma devalutata, anno per anno - dal momento del sinistro sino ad oggi - ed applicando alla stessa, via via rivalutata, il saggio d'interesse del 3% si ottiene, sempre ad oggi, la complessiva somma di 41.080,00 Euro in cifra tonda.
Su tale somma sono dovuti interessi, al tasso legale, dalla pronunzia (momento in cui il debito di valore diventa debito di valuta) e fino al soddisfo.
In considerazione del fatto che l'attore ha chiesto in atto di citazione la somma di "Lire 17.190.680 o quella maggiore che dovesse risultare in corso di giudizio", oltre rivalutazione ed interessi, non vi è il rischio di andare ultra petitum.
Il Ministero della Difesa va condannato al pagamento delle spese di lite sostenute dall'attore, liquidate in dispositivo.
Le spese di C.T.U. vanno definitivamente poste a carico del Ministero della Difesa.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda eccezione o difesa, condanna il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento, in favore di Mi.Vi., della somma di Euro 41.080,00 oltre interessi al tasso legale dalla presente pronunzia e fino al saldo.
Condanna il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento, in favore di Mi.Vi., delle spese di lite da quest'ultimo sostenute, liquidate in complessivi 3.465,00 Euro, di cui 265,00 per spese vive, 1.400,00 per competenze e 1.800,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.
Pone le spese di C.T.U. definitivamente a carico del Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore.
Così deciso in Palermo il 30 giugno 2008.
Depositata in Cancelleria il 8 gennaio 2009.