Registro Generale
n. 20274/2009

20047/10

Udienza pubblica del 1°.4.2010
Sentenza n. 606/2010

 
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUARTA SEZIONE PENALE

 

composta dagli Ill.mi Sigg

1. Dott. Graziana CAMPANATO    - Presidente -
2. Dott. Francesco MARZANO   - Consigliere relatore -
3. Dott. Carlo Giuseppe BRUSCO   - Consigliere estensore -
4. Dott. Giacomo FOTI   - Consigliere -
5. Dott. Rocco Marco BLAIOTTA   - Consigliere -


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da ... parti civili,

avverso

la sentenza 29 settembre 2008 della Corte d'Appello di Firenze che, in riforma della sentenza 21 febbraio 2006 del Tribunale di Lucca, sez. dist. di Viareggio, ha assolto... dal reato di omicidio colposo in danno di ...

Udita la relazione del Consigliere dott. Francesco MARZANO;

sentite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del S. Procuratore Generale dott. Oscar CEDRANGOLO, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;

uditi gli avv.ti;

- Antonio VANNUCCI ZAULI per le parti civili ricorrenti che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;

- Carlo DI BUGNO per i responsabili civili s.p.a. SEA e s.r.l. Società Viareggio Patrimonio;

- Enrico MARZADURI per ... e, in sostituzione dell’avv. Rinaldo CARLONI, per ... ;

i quali hanno concluso per il rigetto o l'inammissibilità del ricorso;

designato, quale estensore della sentenza, il consigliere dott. Carlo Giuseppe BRUSCO,


1) Il giudizio di primo grado.

   Il 21 febbraio 2006 il Tribunale di Lucca - sezione distaccata di Viareggio – condannava ... , riconosciute le attenuanti generiche (dichiarate equivalenti all'aggravante contestata quanto al ... ed all' ... , prevalenti quanto all' ... e al ... a pene ritenute di giustizia (con entrambi i benefici di legge), nonché, unitamente al responsabile civile, al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, per l'imputazione di cui all'art. 589, 1° e 2° e, c.p..

   Si era contestato ai predetti imputati - ... quale direttore e legale rappresentante della Azienda Municipalizzata Acquedotto e Gas (AMAG) di Viareggio dal 5 ottobre 1964 al 27 febbraio 1977; ... quale direttore e legale rappresentante della stessa AMAG dal 1° marzo 1977 al 31 ottobre 2000; ... quale dirigente e capo dei Servizi Tecnici della stessa AMAG, poi Azienda Speciale Servizi Pubblici (ASSP) di Viareggio, dal 25 ottobre 1978 al 5 settembre 1995; ... quale capo dei Servizi Tecnici della stessa azienda dal 1° maggio 1969 al 3l  dicembre 1996 - di aver cagionato per colpa la morte di ... dipendente della AMAG, poi ASSP, dal 1° marzo 1971 al 31 gennaio 1997 addetto alle operazioni di manutenzione delle condutture in cemento amianto ed esposto sul lavoro alla inalazione di polveri di amianto.

   In particolare i predetti avrebbero omesso "di adottare tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere 1'esposizione ad amianto (ed in specie impianti di aspirazione, limitazione dei tempi di esposizione), di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei mezzi di protezione personale, di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario, di informare lo stesso circa i rischi specifici derivanti dall'amianto e circa le misure per ovviare a tali rischi", decedendo poi il ... per mesotelioma pleurico.

   Rilevava, tra l'altro, il giudice che "le tubazioni in cemento-amianto, per quanto riguarda la rete del gas, furono sostituite definitivamente a Viareggio nella seconda metà degli anni '80 e cioè tra il 1985 ed il 1987-88, mentre ne erano rimaste ancora attive per qualche anno nella rete idrica ..."; riteneva che "può senz'altro ritenersi provato che la vittima abbia effettuato nei suoi anni di servizio all'AMAG sicuramente almeno più di cento interventi sulle tubazioni in fibrocemento".

   Esaminando, poi, la circostanza che il ... aveva prestato una precedente attività di lavoro alle dipendenze di altra ditta, ... tra il 1964 ed il 1966, nel corso della quale - si era difensivamente addotto - '"avrebbe operato circa trenta interventi su marmitte con sfasciatura del coibente nelle quali, in effetti, si sarebbero potute produrre polveri di amianto", rilevava che "non è stato possibile accertare nulla di concreto né in senso oggettivo, né in senso soggettivo, di queste prime lontane attività di lavoro del ..." e "naturalmente è impossibile determinare con certezza quando sia avvenuta, nell'organismo del ..., 1'assunzione della c.d. "dose- killer" (o assassina) di fibra di amianto".

   Nondimeno, "quand'anche il ... avesse assunto la ... 'dose-killer’ nel corso del lavoro svolto precedentemente all' inizio dell'attività alle dipendenze dell'AMAG . . ., comunque la lunga dimostrata esposizione alle fibre di amianto subita dallo stesso durante gli anni di lavoro per l'AMAG avrebbe in ogni caso causalmente contribuito in modo efficiente a determinare 1'evento non potendosi attribuire alla, peraltro eventuale, causa preesistente un'efficienza determinativa autonoma ed assoluta rispetto a quella successiva".

   Ricordato, poi, che "gli attuali imputati erano i quadri dirigenti e tecnici in prima battuta destinatari di tutte le norme di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori in azienda", richiamava le varie norme al riguardo ritenute rilevanti e, quanto agli addebiti di colpa, evidenziava che "è mancata ogni seria didattica o quanto meno informativa ai lavoratori sui pericoli ..." della loro attività lavorativa. "È mancato ... ogni serio controllo da parte dell'azienda sull'effettivo utilizzo da parte dei lavoratori dei presidi e degli strumenti atti a prevenire od a limitare l'aspirazione di polveri da parte dei lavoratori stessi ...".

   Secondo l'accertamento del primo giudice gli interventi "consistevano nel taglio dei tubi delle condotte per 1'inserimento di raccordi o per riparazione e tale taglio veniva fatto o con il seghetto se si trattava di tubazioni piccole o con la mola ad aria od a scoppio, se si trattava di tubi più grossi. In tutti e tre i casi, questo è il dato univoco scaturito dalle testimonianze s.d., si producevano più o meno polveri che contenevano fibre di amianto rispetto alle quali i sistemi di controllo e di abbattimento sostanzialmente consistevano in acqua o stracci imbevuti d'acqua...". Oltretutto queste operazioni "avvenivano in ambiente ristretto, cioè in fossa più o meno profonda, e quindi la dispersione delle polveri era necessariamente più lenta e difficile."

   Quanto alle "mascherine protettive degli organi della Respirazione ..., almeno sino alla fine degli anni '70 non fu in uso tra gli operai alcun tipo di mascherina ... ; il primo tipo di mascherina introdotto dall'azienda tra i lavoratori fu quella di semplice carta senza alcun filtro e ... tale mascherina restò in uso tra gli operai per molti anni, almeno sino alla metà degli anni '80, quando dall'azienda fu acquistata e fatta utilizzare un altro tipo di mascherina un po' più perfezionata con un filtro davanti alla bocca ...".

   Infine, quanto alle visite mediche, "si trattava di visite assolutamente generiche e non specificamente mirate ad attestare l'eventuale insorgenza di malattie collegate all'inspirazione di polveri nocive negli operai o capi-squadra . . ., onde anche da questo punto di vista il precetto normativo risulta inevaso ...".


2) Il giudizio di appello.

   Sui gravami degli imputati e delle parti civili, la Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 29 settembre 2008, assolveva gli imputati dal reato loro ascritto, revocando le rese statuizioni civili.

   I giudici dell'appello ritenevano accertato che la vittima era deceduta, all'età di 54 anni, per mesotelioma pleurico, e che non si potesse dubitare della riconducibilità del decesso del ... all'esposizione professionale ad amianto ed, in particolare, al lavoro dal medesimo svolto presso la AMAG di Viareggio. Ritenevano, tuttavia, la insussistenza dell'elemento soggettivo in riferimento all' addebito contestato.

   Consideravano che, come evidenziato dal consulente tecnico del P.M., prof. ... "vengono resi noti alla comunità scientifica i rapporti con l'amianto dell'asbestosi negli anni '30-'40, del cancro del polmone intorno al 1955, del mesotelioma negli anni '60-'70 ... "; tanto non consentiva "di muovere tout court agli imputati un addebito di colpa (generica) per non aver impedito l'esposizione dei dipendenti dell'azienda municipalizzata ad un fattore oncogeno" dal momento che essi erano, al momento dei fatti, dirigenti di azienda "e non scienziati o studiosi della materia e, come tali, estranei non solo alla 'comunità scientifica’ ma anche, più semplicemente, privi, senza possibilità di rimprovero a causa di ciò, delle, già minori, conoscenze esigibili da parte di soggetti esercenti la professione medica in forma specialistica".

   Consideravano, inoltre, che "sino alla entrata in vigore della 1. 27 marzo 1992, n. 257, ... la legislazione nazionale in materia ha espressamente e senz'altro consentito lo svolgimento di attività lavorativa in luoghi comportanti esposizione alla inalazione di fibre di amianto ..."; aggiungevano poi che "il D. L.vo 15 agosto 1991, n. 277, attuativo di direttive CEE in materia di protezione dei lavoratori, specificamente consentiva la loro esposizione alla polvere di amianto nell'aria limitandosi, a tale proposito, a stabilire 'valori limite', 'espressi come media ponderata in funzione del tempo su un periodo di riferimento di otto ore' ...".

   La l. 27 marzo 1992, n. 257, ... ancora consentiva la 'utilizzazione' dell'amianto e conseguentemente, per quanto da essa espressamente stabilito, la 'respirazione' delle fibre del minerale, seppure nei limiti stabiliti dall'art. 3 ... La circostanza che lo stesso legislatore consentisse, ancora nel 1991 e 1992 ma anche, a ben vedere, successivamente ( ... D.M. 6 settembre 1994 ...) l'esposizione dei lavoratori a livelli di polverosità che, quand'anche non elevati, erano, tuttavia, ben superiori a quelle naturalmente proprie dell'ambiente ... ; sembra ostativa, in radice, alla formulazione di un addebito di colpa a carico dei dirigenti dell'azienda municipalizzata nel caso in esame ... ; non consta, nel caso di specie, l'avvenuto superamento o meno dei valori-limite, imposti peraltro solo dal 1991 ... Il consenso normativo alla inalazione di fibre di amianto . . . non imponeva, né suggeriva, 1'unico rimedio ovvero 1'unico dispositivo di protezione individuale che, a posteriori, può ritenersi pienamente idoneo ad evitare il rischio patogenetico ovvero il ricorso a vere e proprie maschere respiratorie ...".

   Ritenevano tali considerazioni "esaustive per quanto attiene a ..., stante il periodo nel quale egli ha svolto funzioni di direttore generale dell' azienda municipalizzata (dal 5 ottobre 1964 al 28 febbraio 1977)". Quanto agli altri imputati, rilevavano che "non vi è prova in atti, in termini di ragionevole certezza, di una esposizione del ... alla inalazione di polveri di amianto nell' ultimo periodo ovvero in quello compreso tra l'eventuale entrata in vigore della 1. n. 257/1992 e la cessazione dell'attività lavorativa del dipendente, verificatasi il 31 gennaio 1997".


3) Il ricorso delle parti civili.

   Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso, con unico atto e per mezzo del comune difensore, le parti civili ... denunziando vizi di violazione di legge ("in particolare dell'art. 2087 c.c.") e di motivazione.

   Deducono che "incredibilmente la Corte d'Appello di Firenze sentenzia che i dirigenti dell'AMAG non erano una comunità di scienziati ... Proprio la loro suprema ignoranza in questa materia avrebbe dovuto consigliare loro un contatto con l'università, con i presidi medico-ospedalieri, con un consulente di vaglia, cosa mai fatta ... ; si tratta ... di valutare la violazione del diritto all'informazione e quello conseguente di scegliere o meno un'attività foriera di così gravi rischi ...". Rilevano che "l'obbligo di prevenzione a carico dell'agente non può limitarsi solo ai rischi riconosciuti come sussistenti dal consenso generalizzato della comunità scientifica .... e alla adozione delle misure preventive generalmente praticate."

   L'obbligo di prevenzione, infatti, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità omissiva colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia dal competente organo amministrativo ..., tale obbligo dovendolo ricondurre oltre che alle disposizioni specifiche - nel caso in esame D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 - proprio, più generalmente al disposto dell'art. 2087 c.c. ...".

   Le parti civili ricorrenti hanno prodotto, per mezzo del difensore, una memoria con motivi nuovi. Ribadiscono, in sostanza, le ragioni del ricorso, rilevando, tra l'altro, che la sentenza impugnata "ripos(a) su conoscenze delle questioni che riguardano l'amianto sicuramente insufficienti, alla luce di nozioni storiche ben note e della elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione ...".

   Richiamati pregressi testi normativi (r.d. 14 giugno 1909, n. 442; 1. 12 aprile 1943, n. 455), rilevano che, "poiché la maggior parte della rete del gas e dell'acqua era in fibrocemento (cemento più amianto) , chiunque avesse a cuore la sorte dei propri dipendenti non doveva solo sapere della pericolosità dell'amianto, ma doveva assumere le necessarie decisioni, a partire dalla valutazione del rischio ...". In conclusione, "non si può condividere il giudizio della Corte d'Appello in tema di assenza di colpa, quando non ci si è informati, non si sono informati i dipendenti, né si è controllata la salute dei dipendenti; né si è, naturalmente, valutato il rischio ...".


4) La causa dell'evento e i limiti del presente giudizio.
 
   Va premesso che in questo processo non sono più in discussione né la riconducibilità dell' evento morte all'esposizione all'amianto cui ... è stato negli anni sottoposto né che le persone assolte dai giudici di appello - e contro le quali è stato proposto ricorso ai fini civili - abbiano causalmente contribuito al verificarsi dell'evento. La Corte di merito ha infatti precisato che "non appare ragionevole dubitare della riconducibilità del decesso del ... ad esposizione professionale ad amianto ed, in particolare, al lavoro dal medesimo svolto presso la AMAG di Viareggio".

   Ha poi considerato, la sentenza impugnata, che ... aveva avuto una precedente esperienza lavorativa presso altra impresa operante nel settore della cantieristica navale (nella quale si verificano esposizioni alle polveri di amianto utilizzato, in passato, per la coibentazione delle navi) ma ha rilevato che, al più, questa precedente esposizione poteva avere avuto efficacia concausale nel provocare la malattia.

   Dunque la sentenza dei giudici di appello ha confermato che ... era stato esposto ad una significativa esposizione alle polveri di amianto, che questa esposizione era avvenuta nello svolgimento della sua attività lavorativa e che l'evento mortale doveva quindi essere oggettivamente addebitato alle persone nei cui confronti era stata esercitata l'azione penale per il delitto di omicidio colposo. E infatti la Corte di merito ha assolto gli imputati - in base alle argomentazioni che saranno più avanti esaminate - per mancanza dell' elemento soggettivo, la colpa, tanto che la formula di assoluzione adottata è stata "perché il fatto non costituisce reato".

   Si pone dunque il problema della formazione del giudicato interno - o, più correttamente, dell'esistenza di una preclusione in base ai principi affermati dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza 19 gennaio 2000 n. 1, Tuzzolino, rv. 216239, secondo cui il giudicato si forma sui capi e non sui punti della sentenza sui quali peraltro si verifica la preclusione in mancanza di impugnazione - in questo giudizio di legittimità (e nell'eventuale giudizio di rinvio ove i motivi sull'esistenza della colpa dovessero essere ritenuti fondati) in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la sentenza di primo grado sul riconoscimento dell'esistenza del rapporto di causalità tra la condotta degli imputati (che hanno consentito l'esposizione all'amianto nel corso dell'attività lavorativa svolta) e il decesso di ... ; pur pervenendo poi all'assoluzione degli imputati per mancanza dell'elemento soggettivo.

   Detto in estrema sintesi. Sugli (allora) imputati incombeva 1'onere - per evitare che si verificasse la preclusione sul diritto di contestare l'esistenza del rapporto di causalità - di proporre ricorso in cassazione contro la sentenza di appello che li ha assolti? Oppure questo onere non esisteva e neppure avevano interesse, i predetti, a proporre tale impugnazione contro la sentenza d'appello assolutoria (per carenza dell' elemento soggettivo) che ha però confermato sia l'accertamento del rapporto di causalità tra l'esposizione e l'evento che il contributo causale degli imputati al verificarsi dell' evento medesimo? E permane, in questo caso, l'interesse all' impugnazione e dunque il mezzo tipico con cui può essere rimessa in discussione 1'esistenza del rapporto di causalità, è costituito esclusivamente dall'appello (nel caso di assoluzione in primo grado) o dal ricorso in cassazione (nel caso di assoluzione in appello)?

   Per accertare l'eventuale formazione della preclusione sull'affermazione dell'esistenza del rapporto di causalità occorre quindi preliminarmente verificare se gli imputati avessero interesse ad impugnare la sentenza d'appello su questa statuizione anche in presenza di un'assoluzione con la formula "perché il fatto non costituisce reato" per difetto di colpevolezza.

   Il punto di partenza è costituito dall'art. 568 comma 4° del codice di rito che, con norma di applicazione generale, stabilisce che "per proporre impugnazione è necessario avervi interesse". Questo principio, applicabile anche alle impugnazioni in materia cautelare, reale e personale, presuppone che 1'interesse non abbia carattere astratto ma che il provvedimento che si richiede sia preordinato all'eliminazione di una situazione pregiudizievole - o all' ottenimento di una favorevole - e che sia attuale e concreto nel senso che il venir meno per altra ragione del provvedimento esclude l'interesse ove non permanga un elemento pregiudizievole da rimuovere.

   Queste caratteristiche - attualità e concretezza dell'interesse richiesto per l'impugnazione - devono esistere non solo nel momento dell' impugnazione ma anche nel momento della decisione e conducono ad escludere l'ammissibilità di impugnazioni di provvedimenti ormai privi di efficacia, per revoca o per altra ragione, qualora il titolare del diritto all' impugnazione intenda soltanto contestare l'esattezza teorica del provvedimento impugnato. In questi casi 1'incidenza effettiva dell'eventuale decisione favorevole nell'ambito del procedimento o del processo è inesistente e l'eventuale pronunzia positiva sulla richiesta di annullamento del provvedimento impugnato non è idonea a produrre altri effetti favorevoli all' impugnante neppure al di fuori del procedimento.

   Insomma l'impugnazione non deve essere diretta ad affermare l'esattezza delle ragioni dell'impugnante ma ad ottenere un concreto effetto positivo, all' interno del procedimento o al di fuori esso, con l'eliminazione di una concreta ed attuale situazione pregiudizievole per l'impugnante o per il riconoscimento di una situazione concretamente vantaggiosa per la sua sfera giuridica. E sempre che il provvedimento impugnato abbia contenuto decisorio e non meramente interlocutorio senza alcun effetto sulle posizioni soggettive delle parti.

   L'esempio tipico dell'effetto positivo al di fuori del procedimento principale è costituito dal diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione che può trovare titolo nella dichiarazione che il provvedimento cautelare sia stato adottato, o mantenuto, senza che esistessero i presupposti di legge (art. 314 comma 2° c.p.p.). Di qui le decisioni delle sezioni unite di questa Corte (sentenze 13 luglio 1998 n. 28, Gallieri, rv. 211194; 12 ottobre 1993 n. 20, Durante, rv. 195355) che hanno ritenuto perdurasse l'interesse all'impugnazione della misura che applicava la custodia cautelare anche nel caso di revoca nelle more intervenuta.

   L'estensione dell' interesse al di fuori dell'ambito strettamente disciplinato dal processo penale ai fini della tutela dei diritti di libertà dell'imputato - per il quale la formula di proscioglimento adottata potrebbe essere indifferente - è confermato delle citate sentenze delle sezioni unite ed in particolare di quella del 1993 (espressamente richiamata dalla più recente) laddove si afferma che "detto interesse deve essere valutato alla stregua dell' intero complesso delle norme che regolano gli effetti dell' atto impugnato".

   Non v'è, in queste decisioni, alcuna esclusione degli effetti estrinseci provocati dall'accoglimento dell'impugnazione ma un invito ad una considerazione globale dei suoi concreti ed attuali effetti pregiudizievoli. E puntuale conferma di questa interpretazione può trarsi dalla decisione Cass., sez, VI, 17 novembre 1993 n. 3407, Manenti, rv. 196616, che ribadiva l'esistenza dell'interesse della persona sottoposta a misura cautelare, e rimessa in libertà per ragioni diverse dall'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ad ottenere una decisione sulla legittimità dell'applicazione della misura non solo ai fini della riparazione per l'ingiusta detenzione ma altresì, trattandosi di pubblico dipendente, ai fini interni al rapporto di pubblico impiego per gli effetti che i provvedimenti di custodia cautelare hanno in materia di sospensione cautelare dal servizio.

   Va quindi escluso che 1'interesse perseguibile con 1'impugnazione sia soltanto quello interno al processo penale - nel qual caso ben potrebbe affermarsi che una formula di proscioglimento vale 1'altra per 1'inesistenza di effetti pregiudizievoli nel medesimo processo penale - o che questo interesse sia strettamente ricollegabile all'esercizio dell'azione penale.

   È dunque agevole rilevare, nel caso in esame, l'esistenza dell' interesse ad impugnare con il ricorso in cassazione la sentenza di assoluzione pronunziata nel giudizio di appello perché questa conclusione deriva, in particolare, dalla circostanza che la formula "perché il fatto non costituisce reato" - a differenza dei casi nei quali l'assoluzione avvenga con l'uso delle formule "perché il fatto non sussiste" o "l'imputato non lo ha commesso" -quanto meno non preclude la prosecuzione o l'esercizio dell'azione civile in sede propria (come del resto è puntualmente confermato dal 1° comma dell'art. 652 cod. proc. pen. che limita l'efficacia del giudicato di assoluzione ai casi in cui sia stato accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso).

   Se dunque in tutti i casi di assoluzione non è consentito al giudice penale di pronunziarsi sull'azione civile esercitata nel processo penale, non è invece precluso al danneggiato l'esercizio dell' azione civile in sede propria nel caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato e possono darsi casi, comunque, in cui persistono effetti pregiudizievoli della sentenza di assoluzione con questa formula.

   Questi principi non si pongono in contraddizione con quelli enunciati (sia pure nel caso inverso di assoluzione in primo grado e di condanna in grado di appello) dalla sentenza 30 ottobre 2003 n. 20, Andreotti, rv. 226092-3, delle sezioni unite di questa Corte, che hanno affrontato la questione "se e in quali limiti 1'imputato, assolto in primo grado e condannato in appello, possa dedurre mediante ricorso in cassazione la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna, sull'assunto che entrambe le sentenze avrebbero omesso di valutare decisive risultanze probatorie".

   Com'è noto le sezioni unite sono pervenute ad affermare, su questo tema, che "ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione possa e debba fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d'appello dell' imputato carente d'interesse all' impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contrastare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice d'appello 1'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezza te ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria".

   La "mancata risposta dei giudici d’appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficerebbe la completezza e la coerenza logica della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la renderebbe suscettibile di annullamento."

   Non v'è contraddizione tra la soluzione oggi proposta e i principi affermati nella sentenza Andreotti perché quest’ultima è espressamente riferita ai casi nei quali la formula di assoluzione sia preclusiva della possibilità di proporre impugnazione; se così non è (nel senso che la sentenza è appellabile o ricorribile) le diverse ragioni, non considerate (o erroneamente valutate), dal primo giudice o dal giudice di appello devono essere proposte con il mezzo di impugnazione previsto.

   Anzi le sezioni unite non escludono che, anche nei casi di assoluzione con le formule più ampie, possa eccezionalmente ravvisarsi l'esistenza dell'interesse "allorché l'imputato deduca che l'accertamento di un fatto materiale, oggetto del giudizio penale conclusosi con sentenza dibattimentale e irrevocabile di assoluzione, possa ... pregiudicare con efficacia di giudicato le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo, in 'altri giudizi civili o amministrativi', diversi da quelli di danno e disciplinari ...".

   Ne consegue, come logica conclusione, che permane 1'interesse dell'imputato condannato in primo grado e assolto nel giudizio di appello a ricorrere contro la sentenza che l'abbia assolto con la formula perché il fatto non costituisce reato come, del resto, è confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass., sez. IV, 17 maggio 2006 n. 4675, Bartalini e altri, rv. 235655; 5 novembre 2002 n. 45976, Fasanella, rv. 226719; sez. VI, 9 gennaio 2001 n. 2227, Viola, rv. 217976).

   Quali sono le conseguenze da trarre da questa ricostruzione nel caso oggi all'esame della Corte?

   Che, o per la formazione del giudicato o per l'esistenza di una preclusione (secondo la ricostruzione effettuata dalla già citata sentenza delle sezioni unite di questa Corte 19 gennaio 2000 n. 1, Tuzzolino) non è più consentito - nel giudizio di legittimità o in quello di rinvio - di rimettere in discussione l'accertamento dell'esistenza del rapporto di causalità in relazione all' omicidio colposo per il quale già in primo grado sia stata accertata l'esistenza del rapporto in questione confermata dal giudice di appello.

   E questa conclusione riguarda tutti gli aspetti della causalità decisi dai giudici di merito: causalità generale, causalità individuale, contributo causale dei singoli imputati, posizione di garanzia (o mancato doveroso esercizio dei poteri per far cessare o diminuire i livelli dell'esposizione) sui quali, dunque, non è più possibile contestare il contenuto delle decisioni di merito.


5. L'esclusione dell' elemento soggettivo da parte della corte d'appello. L'agente modello.

   Due sono, in buona sostanza, le argomentazioni sulle quali la sentenza impugnata fonda la propria valutazione sull'esclusione dell'elemento soggettivo.

   La prima riguarda l'esigibilità della condotta osservante, da parte degli imputati, posto che essi erano, al momento dei fatti dirigenti di azienda, "e non scienziati o studiosi della materia e, come tali, estranei non solo alla 'comunità scientifica' ma anche, più semplicemente, privi, senza possibilità di rimprovero a causa di ciò, delle, già minori, conoscenze esigibili da parte di soggetti esercenti la professione medica in forma specialistica".

   La sentenza dunque non esclude, ed anzi riconosce implicitamente, che gli imputati abbiano violato le regole cautelari che avrebbero imposto l'adozione di misure di prevenzione atte ad escludere l'esposizione all'amianto (o a ridurla in modo consistente) ma fonda la sua decisione negativa sull'esistenza della colpa su un'asserita inesigibilità della condotta omessa che sarebbe conseguente alla mancanza di conoscenze scientifiche da parte degli agenti che non avrebbe consentito loro di avere la percezione del rischio cui il lavoratore era sottoposto.

   La motivazione riportata chiarisce che la sentenza impugnata fa riferimento ad una nozione di "agente modello" che non è condivisibile.

   Premesso che se la regola cautelare impone l'astensione dall'attività pericolosa non si pongono i problemi cui si farà cenno occorre domandarsi quale criterio è necessario adottare per valutare se l'agente, nel caso di colpa generica, si sia attenuto alle richieste regole di diligenza, prudenza e perizia o se, nel caso di colpa specifica, il livello di rispetto della regola cautelare specifica prevista - soprattutto nei casi in cui esistano diversi livelli di osservanza della regola - si sia mantenuto nei limiti richiesti.

   Questo problema in realtà riguarda anche i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi.

   La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza ecc. esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un'attività pericolosa) o dall' uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall' uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del c.d. "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili.

   Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un'attività, tanto più se pericolosa, ha 1'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva" della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva" della colpa che non rileva nel presente giudizio.

   È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.

   L'agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute ... sarà quella del modello di agente che 'svolga' la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell' agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest'ultimo".

   Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto.

   Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto, neppure possono essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.


6. L'agente modello nel caso in esame.

   A questi criteri non si è attenuta la Corte di merito che non si è posta il problema dell'osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con 1'osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie dall'agente modello ma in relazione alla preparazione professionale degli agenti concreti negando 1'esistenza della colpa perché i medesimi non avevano la preparazione scientifica necessaria.

   La tesi della Corte è da ritenere erronea perché agente modello è colui che adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se non dispone di queste conoscenze, adempie all'obbligo - se intende svolgere un'attività che comporta il rischio di eventi dannosi - di acquisirle o di utilizzare le conoscenze di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la propria funzione.

   Insomma se un soggetto riveste una posizione di garanzia per una funzione di protezione del garantito (nella specie il lavoratore subordinato) deve operare per assicurare la protezione richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell'evento dannoso.

   Si pensi a quali conseguenze si potrebbe pervenire ove si confermasse un principio quale quello affermato dalla Corte di merito : chiunque, anche se inesperto e incapace, potrebbe svolgere un'attività che comporta rischi di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento, conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi si verifichino.

   Erronea è dunque la tesi della corte di merito laddove, per negare l'esigibilità della condotta osservante, fa riferimento all'agente concreto e non all'agente modello.

   Ed erronea è anche la tesi sostenuta nella sentenza impugnata (a p. 5) secondo cui l'elemento soggettivo addebitato avrebbe natura di colpa generica dimenticando l'esistenza della violazione di regole di prevenzione vigenti all'epoca dell'esposizione quali, in particolare, l'art. 21 del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (norme generali per l'igiene del lavoro) - concernente l'obbligo, per il datore di lavoro, di adottare i provvedimenti atti ad impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell'ambiente di lavoro - e gli artt. 377 e 387 del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) concernenti i mezzi personali di protezione e (art. 387) la protezione, in particolare, contro le inalazioni pericolose di polveri.

   Né può dirsi che le conoscenze sugli effetti dannosi dell'amianto fossero conosciuti in una ristretta cerchia di scienziati. Basti pensare che già vi faceva riferimento il r.d. 14 giugno 1909 n. 442 (in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli) e che la malattia conseguente all'inalazione da amianto più conosciuta, l'asbestosi (nota fin dai primi del '900 ed inserita nelle malattie professionali dalla 1. 12 aprile 1943 n. 455), è ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad essa correlate.

   Ne consegue che la mancata eliminazione, o riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti. Rischio prevedibile anche se, solo successivamente alla condotta, sono state conosciute ulteriori conseguenze di particolare lesività (ma occorre osservare che la prevedibilità dell'evento, non è stata esclusa dalla sentenza impugnata).


7. Il secondo profilo di esclusione della colpa.

   Il secondo argomento posto a base della decisione di secondo grado fa invece riferimento alla più recente normativa in tema di amianto e richiama in particolare il d. l.vo 15 agosto 1991 n. 277 (che ha dato attuazione a varie direttive Cee in tema di protezione dai lavoratori dalle esposizioni nocive e che peraltro è stato espressamente abrogato dall'art. 304 comma 1 lett. a del d. 1.vo 9 aprile 2008 n. 81; testo normativo che ha disciplinato la materia dell'esposizione alle fibre di amianto agli articoli da 246 a 261).

   Secondo la tesi della Corte di merito questo testo normativo - consentendo l'esposizione alle polveri di amianto purché la concentrazione non superi determinati valori limite (in particolare quelli previsti dagli artt. 24 e 31) - esclude la colpa per il periodo anteriore alla data della sua entrata in vigore per il quale non è dato conoscere se i livelli di concentrazione superassero quelli consentiti nel 1991.

   Questa interpretazione sarebbe avvalorata, secondo la sentenza impugnata, anche dalla legge che ha vietato l'uso dell'amianto, la 1. 27 marzo 1992 n. 257 (norme relative alla cessazione dell' impiego dell' amianto) il cui art. 3 ha ribadito che la concentrazione delle fibre di amianto respirabili, nei luoghi di lavoro dove si utilizza 1'amianto o si svolgono altre attività in presenza di amianto, la concentrazione non può superare i limiti previsti dal già citato art. 31 del d. d. l.vo del 1991.

   Insomma, secondo il giudice di secondo grado, dopo la modifica normativa del 1991 le polveri di amianto sarebbero liberamente respirabili, nell'ambiente di lavoro, purché non superino i valori limiti prescritti e senza che vi sia un obbligo - se non vengono superati questi limiti - di dotare i lavoratori esposti dei presidi necessari per evitare le inalazioni (in particolare le maschere protettive).

   Questa lettura delle norme indicate non è peraltro condivisibile anche perché frutto di una lettura parziale che non prende in considerazione parti significative della medesima normativa che smentiscono l'interpretazione proposta.

   È da premettere, da un punto di vista logico, che la Corte di merito omette anzitutto di considerare che la normativa del 1991 e del 1992 ha, ovviamente, natura ben più restrittiva di quella precedente e infatti individua valori limite che in precedenza non erano previsti. Sarebbe paradossale che una disciplina espressamente diretta a limitare (il d. l.vo del 1991) o addirittura a vietare (la 1. del 1992) le lavorazioni dell'amianto avesse il significato di consentire ciò che in precedenza era vietato.

   In particolare appare affermare paradossale che sia stato consentito nel 1991 di non utilizzare i mezzi di protezione in precedenza previsti (da norme entrate in vigore nel 1955 e nel 1956 !) quando i livelli di presenza dell'amianto non superino i valori limite indicati nel d. l.vo del 1991.

   Ma è sufficiente leggere quest'ultimo testo in modo non parziale per giungere alla conclusione che questa più recente normativa non solo non esclude ma, al contrario, impone espressamente l'uso dei mezzi di protezione individuale: l'art. 27 del d. 1.vo n. 277 del 1991 prevede infatti che in tutte le attività di cui all'art. 22 del medesimo decreto ("attività nelle quali vi è rischio di esposizione alla polvere proveniente dall' amianto o dai materiali contenenti amianto") il datore di lavoro - oltre ad adottare le misure di protezione relative agli ambienti di lavoro e alle modalità delle lavorazioni - metta a disposizione dei lavoratori (comma 1 lett. e nn. 1 e 2) "adeguati indumenti di lavoro o protettivi" e "mezzi di protezione delle vie respiratorie da usarsi in operazioni con manipolazioni di prodotti polverosi".

   È opportuno precisare che le misure previste dall' art. 27 comma 1 si applicano a "tutte" le attività nelle quali vi è rischio di esposizione mentre solo quelle previste dal comma 2 si applicano solo se 1'esposizione personale supera certi livelli (art. 24 comma 3).

   Insomma nel 1991 si è previsto che nelle lavorazioni dell'amianto, fermo l'obbligo dell' uso dei mezzi di protezione individuale, non si possa comunque lavorare in ambienti nei quali il livello di concentrazione dell'amianto superi certi valori limite non che, all'interno di questi limiti, non debbano essere utilizzati i mezzi di protezione individuale.

   E la legge del 1992 ha confermato questa disciplina che viene espressamente richiamata; ma poiché il divieto assoluto di lavorazione e di impiego dell'amianto decorreva dal 365° giorno dall'entrata in vigore della legge medesima - e comunque, anche per il periodo successivo, era ovviamente previsto che si potesse procedere ad operazioni di smaltimento e alle bonifiche delle aree interessate - il legislatore ha previsto che le lavorazioni consentite (temporaneamente o per un periodo indefinito) potessero essere svolte ma ha però imposto l'obbligo di verificare che, negli ambienti di lavoro, non si superassero certi livelli di esposizione e comunque imponendo l'uso dei mezzi di protezione individuale.

   Palese è dunque l'errore in cui incorre la sentenza impugnata nella parte in cui interpreta la prima parte del comma 1 dell'art. 3 della 1. 257 (laddove viene usata l'espressione "concentrazione di fibre di amianto respirabili nei luoghi di lavoro") nel senso che queste fibre possono essere liberamente respirate dai lavoratori purché non superino certi valori limite e non nel senso che, in questi ambienti, sia consentito prestare attività lavorativa ma solo se i lavoratori addetti siano dotati dei mezzi di protezione individuale (e siano adottate tutte le altre misure di protezione ambientale).

   Si aggiunga, come conferma argomentativa, che sarebbe ben strano aver consentito un'esposizione senza protezioni individuali, sia pure a bassi livelli di concentrazione, in un'epoca nella quale era già noto che talune forme tumorali ricollegabili causalmente all' inalazione di fibre di amianto (ed in particolare il mesotelioma pleurico che ha costituito la causa della morte di ... ) possono essere contratte anche con bassi livelli di esposizione.

   È dunque da escludere che prima degli interventi normativi del 1991 e 1992 - e anche successivamente nei limiti in cui le lavorazioni relative all' amianto sono state consentite - vi fosse un "consenso normativo" (così si esprime la sentenza impugnata) alla libera inalazione delle fibre di amianto purché non superassero i valori limite previsti.


8. L'addebito di colpa per gli anni successivi al 1991.

   Come si è già in precedenza precisato la sentenza impugnata, a conclusione delle sue considerazioni sulla mancanza dell'elemento soggettivo, ha affermato le sue considerazioni erano "esaustive per quanto attiene a ... , stante il periodo nel quale egli ha svolto funzioni di direttore generale dell'azienda municipalizzata (dal 5 ottobre 1964 al 28 febbraio 1977)".

   Quanto agli altri imputati la sentenza evidenzia che "non vi è prova in atti, in termini di ragionevole certezza, di una esposizione del ... alla inalazione di polveri di amianto nell'ultimo periodo ovvero in quello compreso tra l'eventuale entrata in vigore della l. n. 257/1992 e la cessazione dell'attività lavorativa del dipendente, verificatasi il 31 gennaio 1997".

   Sembra da escludere che tali considerazioni siano dirette ad escludere l'efficienza causale delle esposizioni cui la persona offesa è stata sottoposta nell'intero arco lavorativo perché ciò sarebbe in contraddizione con quanto dai medesimi giudici affermato nelle premesse sull'esistenza del rapporto di causalità anche in relazione alle condotte degli agenti.

   E dunque le argomentazioni riportate sembrano piuttosto riferirsi al discorso sulla colpa sviluppato - in relazione alle esposizioni ritenute consentite dopo il 1991 in base alla già riferita interpretazione che questa Corte ritiene non condivisibile - sull'asserito "consenso" normativo all'esposizione dopo tale data. Ciò trova conferma nell'ulteriore precisazione nella sentenza che, dopo aver ribadito l'eziologia da amianto del mesotelioma, afferma che la ricostruzione dell'attività lavorativa di ... "è rimasta ampiamente deficitaria per quanto attiene alla sua scansione cronologica apparendo, con ciò stesso, preclusiva, ai fini della formulazione di un addebito di colpa, relativamente al periodo nel quale essa avrebbe potuto più facilmente essere ravvisata in dipendenza di una evoluzione normativa finalmente recettiva delle acquisizioni scientifiche in materia."

   Queste argomentazioni non si distinguono per chiarezza ma il riferimento esclusivo alla colpa conferma che non viene messa in discussione 1'esistenza della causalità e che, per gli altri tre Imputati ( ... ), la Corte di merito ha ribadito che, successivamente al 1991, non era configurabile un addebito di colpa non essendo stato dimostrato che le minori esposizioni cui la persona offesa era stata sottoposta avessero superato i valori limite di cui si è già discusso.


9. Conclusioni.

   Alle considerazioni svolte consegue 1'annullamento della sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice indicato dall'art. 622 cod. proc. pen. che provvedere anche sulle spese tra le parti del presente giudizio di legittimità.

P. Q. M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti.

Così deciso in Roma il giorno 1° aprile 2010.

 



IL CONSIGLIERE ESTENSORE
(dr. Carlo Brusco)






CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
IV Sezione Penale

DEPOSITATO IN CANCELLERIA
26 MAGGIO 2010

IL CANCELLIERE
Giulio Maria TIBERIO

IL PRESIDENTE
(dr. Graziana Campanato)