REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill..mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe
Dott. VIDIRI Guido
Dott. PICONE Pasquale
Dott. STILE Paolo
Dott. BALLETTI Bruno

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
L.A., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER 53, presso lo studio dell'avvocato MARTELLA DARIO, rappresentato e difeso dall'avvocato SPIRITO GIUSEPPE, giusta mandato in calce al ricorso e da ultimo d'ufficio domiciliato presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

- ricorrente -

contro
S.A.T.A. - AUTOMOBILISTICHE TECNOLOGIE AVANZATE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell'avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato AMENDOLITO BRUNO, giusta mandato a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 402/2005 della CORTE D'APPELLO di POTENZA, depositata il 15/06/2005 R.G.N. 1292/02;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 08/07/2009 dal Consigliere Dott. BALLETTI Bruno;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. dinanzi al Tribunale - Giudice del lavoro di Melfi L.A. conveniva in giudizio la s.p.a. "S.A.T.A. - società automobilistica tecnologia avanzata" (in acronimo S.A.T.A.) esponendo:
a) di avere prestato lavoro alle dipendenze della convenuta dal 13 aprile 1992 al 12 aprile 1994 con contratto di formazione e lavoro e di essere stato assunto a tempo indeterminato in data 13 aprile 1994 con la qualifica di "impiegato ***";
b) che, con lettera dell'8 marzo 2000, la direzione del personale della società contestava ad esso ricorrente di essere venuta a conoscenza che, nel luglio del 1999, lo stesso aveva compiuto ripetuti atti di molestia sessuale nei confronti della dipendente R.L.;
c) che, con lettera in data 18 marzo 2000, la SATA, dopo avere ricevuto le sue giustificazioni, gli aveva intimato il licenziamento per giusta causa;
d) che esso ricorrente aveva sporto querela nei confronti della R. per le dichiarazioni dalla stessa rese in quanto gravemente lesive della propria reputazione;
e) che esso ricorrente aveva deciso, in un primo momento di attendere la sentenza penale prima del deposito del ricorso ex art. 414 c.p.c. ma, che non essendo la detta sentenza sollecitamente intervenuta e non potendo lo stesso attendere oltre, aveva proposto l'impugnativa giudiziale di licenziamento;
f) che il licenziamento era totalmente infondato, non avendo esso ricorrente mai posto in essere alcun tipo di molestia ai danni della R., e, comunque, era da considerarsi nullo ed invalido.
Tanto premesso il ricorrente chiedeva all'adito Giudice del lavoro di voler dichiarare illegittimo o annullare il licenziamento come dianzi intimato con ogni relativa conseguenza reintegratoria e risarcitoria.
Il Tribunale - giudice del lavoro di Melfi, con sentenza del 28 giugno 2002, rigettava il ricorso e a seguito di impugnativa del L. e ricostituitosi il contraddittorio - la Corte di appello di Potenza, con sentenza del 15 giugno 2005, rigettava l'appello e condannava l'appellante al pagamento delle spese del grado.
Per la cassazione di tale sentenza L.A. propone ricorso affidato a sei motivi.
L'intimata s.p.a. S.A.T.A. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1 - Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio".
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia "violazione degli art. 2697 c.c. e dell'art. 116 c.p.c.".
Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia "violazione degli artt. 1334 e 1335 c.c. e dell'art. 138 c.p.c., nonché dell'art. 421 c.p.c.".
Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente denuncia "violazione degli artt. 116, 132 e 244 c.p.c.".
Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente denuncia "violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2".
Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente denuncia "violazione dell'art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art 1 - sproporzione della sanzione disciplinare applicata e/o inesistenza della giusta causa - erronea, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio".

2 - È, anzitutto, da precisare prioritariamente che i quesiti di diritto formulati dal ricorrente - anteriormente, peraltro, all'applicabilità nella specie della normativa ex art. 366 bis c.p.c. in quanto la sentenza impugnata risulta pubblicala prima del 2 marzo 2006 - si esauriscono in enunciazioni di carattere generale che, poiché non riconducibili specificamente alla fattispecie, non consentono di offrire elementi consequenzialmente pertinenti a definire il ricorso nel senso preteso dal ricorrente (Cass. Sez. Unite n. 6420/2009).

3a - Passando, quindi, alla disamina specifica dei motivi di ricorso, il primo, il secondo ed il quarto di detti motivi - da valutarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi - non sono meritevoli di accoglimento.
Al riguardo a prescindere dall'asserito c.d. "orientamento ideologico sul preteso mancato rispetto dei principi di civiltà giuridica della presunzione di innocenza dall'incolpato ed ancor più dei principi dell'onere e del la valutazione della prova" che inficerebbero in generale le decisioni giudiziarie nei casi delle molestie sessuali sul luogo di lavoro: eventualità esclusa nella specie in considerazione del rilevante scrupolo caratterizzante l'istruttoria probatoria svolta nel giudizio sia di primo che di secondo grado (con l'escussione rinnovata dei testi C. e LA. e l'audizione dei testi R. e P.) confermato dal provvedimento di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Melfi a seguito di querela per diffamazione presentata dal L. nei confronti della R. si rileva che la valutazione delle risultanze probatorie rientra nell'attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).

Pervero, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un'esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito a quelli utilizzati. Si rileva, altresì, che le censure con cui una sentenza viene impugnata per vizio della motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata da giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte pure in relazione al valore da conferirsi alle "presunzioni" la cui valutazione è anch'essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003)- e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3/b - Circa, poi, la censura riguardante la pretesa inattendibilità della teste R.L., questa Corte ha statuito - con la sentenza n. 21412/2006 a cui vale riportarsi integralmente anche per la relativa parte motiva - che "il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi o circostanze che, sebbene non menzionali specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata".

Nella specie, peraltro, la Corte di appello di Potenza ha ritenuto, mediante ampia e convenuta motivazione, attendibile a testimonianza della R. e ciò in forza di un percorso argomentativo esemplarmente corretto ed esaustivo che appare opportuno riportare integralmente: "nella controversia relativa alla legittimità del licenziamento del lavoratore per aver compito atti di molestie sessuali in danno di una collega di lavoro, non sussiste l'incapacità a testimoniare della vittima ancorché a carico di essa possa profilarsi, in relazione all'episodio posto a base del recesso del datore di lavoro, un tatto alla stessa imputabile come illecito penale, tenuto anche conto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 85 del 1983, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., in relazione all'art. 384 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non prevede l'incapacità a deporre nel giudizio civile di chi è imputato di un fatto - reato su circostanze relative o connesse al fatto medesimo (Cass., n. 1341/1993):
- logico corollario di tali affermazioni è che, in tema di vai stazione della prova testimoniale della vittima di un reato che sia anche indagata in un procedimento penale per il delitto di diffamazione o calunnia a carico del soggetto accusato di illecito disciplinare nel giudizio civile, il giudice può, a condizioni esatte, porre a base del libero convincimento le dichiarazioni della parte offesa che, pur non potendo essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da soia come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva (precisione e completezza delle dichiarazione, possibili contraddizioni, ecc.) e soggettiva (credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni): nel caso di specie evidenzia conclusivamente la Corte territoriale, non sussistendo situazioni che inducono a dubitare dell'attendibilità della R. ed in presenza di una credibilità oggettiva e soggettiva delle sue dichiarazioni peraltro neppure specificamente censurate dall'appellante sotto il profilo della mancanza di precisione e di coerenza, la prova della fondatezza dell'addebito deve ritenersi conseguita anche sulla base delle dichiarazioni rese da altri testimoni (C., L.A., P.), fungendo Le stesse come riscontri esterni alla deposizione della vittima circa la verità del fatto narrato".

3/c - L'obiettiva validità della motivazione a sostegno della sentenza impugnata appare, comunque, confermata se si considera che:
- il difetto di motivazione, nel senso di insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, del complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, - come per le doglianze mosse nella specie dal ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati;
- il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni dei giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della controversia - irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -;
- per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi - come, nella specie, chiaramente ha fatto la Corte di appello di Potenza le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo naso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

4/a - Anche il terzo ed il quinto motivo di ricorso - esaminabili congiuntamente in quanto sostanzialmente connessi debbono essere respinti. Infatti, pure in relazione al le censure concernenti l'errato giudizio della Corte di appello sulla ammissibilità e valutazione della prova testimoniale in ordine alla consegna della lettera di licenziamento al L., valgono le considerazioni dianzi sviluppate circa la valutazione delle risultanze delle risultanze istruttorie ed i requisiti caratterizzati la motivazione della decisione del giudice di merito in materia.

Sul punto della contestata applicazione dell'art. 421 c.p.c., costituisce carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando, le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere - dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (cfr. Cass. n. 22305/2007).

Nella specie la Corte territoriale - pure in questo caso mediante una motivazione del tutto corretta e completa in merito all'attivazione dei poteri istruttori di ufficio ex art. 421 c.p.c. - ha statuito che "le censure mosse nei confronti dell'impugnata sentenza sono destituite di fondamento perché il primo giudice, rifacendosi al filone giurisprudenziale di cui sono espressione gli orientamenti della Corte Suprema ha correttamente ammesso la prova diretta a verificare se le circostanze già deducibili dal documento prodotto con la prima difesa, e quindi non completamente nuove, fossero o meno in linea con le deduzioni espresse dalla società resistente" e non ha, poi, mancato di evidenziare - facendo buon uso del principio di acquisizione processuale secondo il quale le risultanze istruttorie comunque ottenute, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice - che S. nella stessa lettera di impugnativa stragiudiziale del licenziamento, datata 3 aprile 2000, il L., per mezzo del proprio difensore, ha assunto essergli stato intimato il licenziamento con lettera in data 18 marzo 2000, senza lamentare e neppure soltanto prospettare la tardività della comunicazione del licenziamento, con la conseguenza che tale ultima circostanza, oltre a corroborare la prova testimoniale, elimina ogni dubbio circa l'attendibilità del teste e la verità dei fatti affermati".

4/b - In ogni caso, per quanto concerne il profilo dell'avvenuta ricezione, da parte del lavoratore, del provvedimento di licenziamento (così come della comunicazione dei motivi di recesso) deve sottolinearsi che, considerato che entrambi hanno natura di atti unilaterali recettivi, ad essi si applicano le disposizioni di cui agli artt. 1334 e 1335 c.c. (Cass. n. 6527/2003, Cass. n. 3195/2003).

In particolare questa Corte ha statuito che "il rifiuto di ricevere l'atto scritto di licenziamento non esclude che la comunicazione del medesimo sia avvenuta (Cass. n. 12571/1999). Infatti, costituisce principio di diritto sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell'obbligato, inficiandone l'adempimento.

Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile dalle norme sulla mora credendi: il rifiuto dell'adempimento non può nuocere il debitore. Egualmente, il medesimo principio si ravvisa nella specifica norma sulla presunzione di conoscenza, secondo cui gli atti si presumono conosciuti con il semplice arrivo all'indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.), essendo, dunque, irrilevante il rifiuto di accettarli.

Ancor più chiaramente, nel diritto processuale, se il destinatario rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie (art. 138 c.p.c.).

Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è il licenziamento: il rifiuto di ricevere l'atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta.

I motivi in esame vanno, pertanto, definitivamente disattesi.

5 - Pure il sesto motivo di ricorso - con cui il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione del principio della necessaria proporzionalità tra la violazione commessa e la sanzione del licenziamento comminata - non può essere accolto.

Al riguardo, in tema di sanzioni disciplinari, il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice sia chiamato a fare. A tale proposito ha carattere indispensabile la valutazione, ad opera del giudice del merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, della sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del .lavoratore e la sanzione irrogatagli, per cui il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma pure delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anch'esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi della legittimità della sanzione stessa: con la conclusione -ribadita dalla giurisprudenza consolidata - che l'apprezzamento di merito delle proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge a censura in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione (ex plurimis, Cass. n. 8679/2006).

Nella specie la Corte di appello di Potenza con motivazione esaustiva sotto il profilo logico - giuridico - al termine di una completa valutazione delle risultanze probatorie, ha concluso che: "è di tutta evidenza come le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l'obbligo di tutela a carico del datore di Lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. sicché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare ed avendo il datore di lavoro in ogni caso l'obbligo di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche il licenziamento dell'autore delle molestie sessuali minando un tale illecito disciplinare fortemente l'elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro e rendendo dunque proporzionata la sanzione del licenziamento in tronco del l'autore di una tale violazione; nel caso di specie, sussiste proporzione tra sanzione disciplinare applicata e mancanza commessa, avuto riguardo a tutti gli aspetti del caso concreto e tenuto conto che le molestie sessuali sono siate compiute durante l'orario di lavoro, nel corso del turno di notte, da un lavoratore sovraordinato (capo squadra), provocando nella vittima una profonda lacerazione dello stato psico - fisico con ripercussioni anche in ambito familiare". Per cui ribadendo che la valutazione della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità "se congruamente motivato" (così, ex plurimis, Cass. n. 19270/2006) - appare evidente che anche su tale punto il percorso motivazionale a sostegno della sentenza impugnata (dianzi integralmente trascritto) si appalesa certamente congruo e, soprattutto, in linea con l'orientamento giurisprudenziale in materia - sia di merito "il fenomeno del c.d. mobbing verticale si configura come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione, di accerchiamento, si che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale; in definitiva nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento nell'ambito aziendale che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore, posto che quest'ultima deve rimanere estranea alla prestazione e non è versata, in tutte le sue componenti (come da qualche parte oggi si pretende), nel sinallagma, ma mantiene la sua destinazione al patrimonio individuale" che di legittimità le molestie sessuali sul luogo di lavoro incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l'obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c.:
"deve ritenersi, pertanto, legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare, e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l'obbligo, a norma dell'art. 2087 c.c. cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l'integrità' fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l'eventuale licenziamento dell'autore delle molestie sessuali" (Cass. n. 5049/2000).

Orientamento che qui si ribadisce fermamente in contrasto con le opinioni di parte della dottrina secondo le quali "esula dall'illecito la mera insofferenza soggettiva del lavoratore sulla base della sensibilità media dell'uomo comune", o enfaticamente, "l'azienda non può diventare una casa di cura per lavoratori che sono o si atteggiano come delicati cristalli" il cui richiamo a pretesi parametri palesemente generici o ad argomentazioni pseudo - ironiche dimostra che il tentativo di sfuggire al punto nodale della questione non fa che avvalorare l'esattezza della conclusione alla quale è pervenuta da tempo questa Corte nel senso della sentenza n. 143/2000 ("non è dubbio che le molestie sessuali, poste in essere dal datore di lavoro o da suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l'integrità psico - fisica dei prestatori d'opera subordinati") e n. 7768/1995 ("l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma -come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità psico - fisica dei dipendenti qualunque ne siano la natura e l'oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori") in conformità, altresì, alla raccomandazione 92/131 CEE 27 novembre 1991 sanzionante, all'art. 1, che "qualsiasi comportamento a connotazione sessuale o altro tipo di comportamento basato sul sesso, compreso quello di superiori e colleghi che offenda la dignità delle donne e degli uomini sul lavoro, è inammissibile se è indesiderato, sconveniente o offensivo per la persona che lo subisce ... e se crea un ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante".

Di conseguenza anche il sesto motivo di ricorso deve essere respinto.

6 - A conferma della pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in esame vale, infine, riportarsi al principio di cui a Cass. sez. unite n. 14297/2007 ed a Cass. n. 5149/2001, in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poiché diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

7 - In definitiva, alla stregua, delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da L.A., deve essere respinto e il ricorrente - stante la sua soccombenza va condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che Liquida in Euro 30,00 oltre a Euro 3.000,00 per onorari, ed alle spese generali ed agli ulteriori "oneri di legge".

Così deciso, in Roma, il 8 luglio 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2009