N. 01595/2010 REG.SEN.
N. 00863/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 863 del 2008, proposto da:
P. V., rappresentato e difeso dall’avv. Giorgio Albè, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Milano, l.go Richini n. 2/A;

contro

MINISTERO DELL'INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1;
I.N.P.D.A.P. - ISTITUTO NAZ. PREVIDENZA DIP. AMM.NI PUBBLICHE, rappresentato e difeso dall’avv. Giulio Peco, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Milano, via Circo n.16 ;

per l’annullamento
previa sospensione dell'efficacia,

- del decreto del Ministero dell’Interno 7 gennaio 2008 n.1/R, con il quale è stata respinta l’istanza di riconoscimento della causa di servizio;

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di MINISTERO DELL'INTERNO e di I.N.P.D.A.P.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 marzo 2010 il dott. Dario Simeoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso depositato il 17 aprile 2008, il ricorrente ha impugnato il provvedimento in epigrafe, con il quale è stata rigettata l’istanza finalizzata al riconoscimento della causa di servizio ed alla concessione dell’equo indennizzo, chiedendo al Tribunale Amministrativo Regionale di disporne l’annullamento, previa sua sospensione, in quanto viziato da violazione di legge ed eccesso di potere.
Il ricorrente ha premesso di essere stato arruolato presso il dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno sin dall’11 giugno 1977, acquisendo la qualifica di Ispettore Capo della Polizia di Stato a decorrere dal 28 febbraio 2002; ha aggiunto di avere presentato, in data 14 dicembre 2005, istanza di riconoscimento della causa di servizio e contestuale concessione dell’equo indennizzo, lamentando di essere affetto da “sindrome coronaria acuta”. L’Amministrazione, con il decreto impugnato, reso sulla scorta del parere obbligatorio del Comitato di Verifica reso in data 28 agosto 2007, ha respinto la domanda motivando che le patologie riscontrate non sono dipendenti da fatti di servizio.
Si è costituito in giudizio il MINISTERO DELL’INTERNO e l’INPDAP, in persona del Ministro pro tempore, chiedendo il rigetto del ricorso.
All’udienza del 24 aprile 2009, il Collegio ha disposto consulenza tecnica d’ufficio. In particolare, il CTU è stato incaricato di fornire risposta ai seguenti quesiti: “a) Dica, sulla scorta della documentazione esibita in giudizio e di quella eventualmente ritenuta necessaria e fornita dai ricorrenti in sede peritale, se il sig. P. sia affetto dalle patologie indicata in ricorso;
b) Dica, altresì, se sussista nesso causale in termini di alta probabilità scientifica logico razionale tra l’evento patologico eventualmente riscontrato e le condizioni lavorative dedotte in ricorso quali risultano dalla documentazione in atti;
c) se, in conseguenza dell’evento dannoso e tenuto conto di eventuali precedenti morbosi del soggetto, ovvero della coesistenza o concorrenza di precedenti morbosi, siano derivati al ricorrente postumi che abbiano ridotto in modo permanente l’idoneità del soggetto a svolgere le comuni attività e la propria vita di relazione; nell’affermativa, precisi inoltre la misura percentuale della riduzione della integrità psicofisica del soggetto indicando specificamente come sia pervenuto a determinare la misura percentuale suddetta”
.
Depositata la relazione peritale, sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa all’udienza odierna.
2. La domanda non può essere accolta.
2.1. L’equo indennizzo è un istituto di sicurezza sociale posto, dall’ordinamento, a tutela dell’inabilità dell’individuo conseguente all’inverarsi del rischio professionale. Esso trova origine nell’art 68 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (testo unico del pubblico impiego), ed è stato successivamente regolamentato con d.P.R. 3.5.1957, n. 686 e d.P.R. 20.4.1994 n. 349; ulteriori modifiche sono state apportate con leggi finanziarie, del 1995 e del 1997, nonché con d.P.R. 29.10.2001 n. 461, recante il regolamento di semplificazione dei procedimenti per il riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio).
Rispetto a quanto previsto in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, il riconoscimento dell’equo indennizzo presuppone che il fatto di servizio abbia causa o concausa efficiente rispetto alla patologia contratta nel senso che quest’ultima debba risultare non semplicemente contratta dal pubblico dipendente durante il tempo di servizio (in occasione del lavoro) ma, più specificatamente, la patologia deve essere etiologicamente collegata alle finalità del servizio (ulteriore differenza attiene al regime giuridico privilegiato in ordine al possesso dei requisiti contributivi).
La richiesta di equo indennizzo deve riguardare la morte o una menomazione dell'integrità fisica o psichica o sensoriale ascrivibile ad una delle categorie di cui alla tabella A o alla tabella B annesse al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834; la menomazione conseguente ad infermità o lesione non prevista in dette tabelle è, invece, indennizzabile solo nel caso in cui essa sia da ritenersi equivalente ad alcuna di quelle contemplate nelle tabelle stesse. Qualora la menomazione dell’integrità non comporti una totale inabilità al servizio spetta al dipendente una indennità una tantum.
2.2. In materia di causa di servizio e di equo indennizzo, sia la normativa dettata per gli impiegati dello Stato, sia la normativa con cui detti istituti sono stati estesi ai dipendenti di altri enti, prevedono un procedimento articolato in due distinte fasi, di cui la prima diretta al riconoscimento della causa di servizio e la successiva alla concessione dell’equo indennizzo, con distinti termini per la domanda di riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio e per la domanda di corresponsione del conseguente equo indennizzo (cfr. Cass. 28 novembre 2001 n. 15059). Il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità o lesione costituisce accertamento definitivo anche nell’ipotesi di successiva richiesta di equo indennizzo e di trattamento pensionistico di privilegio (art. 12 DPR 29/10/2001 n. 461; deve, pertanto, ritenersi non più valido l’orientamento secondo cui, data l’autonomia dei provvedimenti con cui si concludono le due distinte fasi, anche quando le relative statuizioni vengano incorporate in un unico documento, il provvedimento di riconoscimento dell’infermità come dipendente da causa di servizio non è vincolante per la successiva concessione dell’equo indennizzo: cfr. Cons. Stato, 12.10.2000, n. 5413).
3. In via pregiudiziale, non sussiste la legittimazione passiva dell’INPDAP. In primo luogo, titolare dal lato passivo del rapporto giuridico avente per oggetto l’equo indennizzo è il datore pubblico; inoltre, il ricorrente non ha chiesto l’attribuzione della pensione privilegiata erogata dall’INPDAP, di cui l’eventuale riconoscimento della causa di servizio costituisce presupposto, ma sulla cui spettanza non sussiste neppure la giurisdizione del giudice amministrativo.
3.1. Nel merito, come già sopra sottolineato, i presupposti di fatto allegati dal ricorrente (ovvero le condizioni lavorative ed i singoli accadimenti riportati anche nella anamnesi peritale) sono incontestati tra le parti e, pertanto, sono fuori dal “thema probandum”. Il giudizio verte, pertanto, esclusivamente sulla seguente questione di fatto: se le infermità denunciate dal ricorrente siano o meno dipendenti da causa di servizio.
L’amministrazione resistente ha affermato che l’infermità, riscontrata in capo al ricorrente non può riconoscersi dipendente da fatti di servizio, trattandosi di “necrosi di una zona circoscritta o estesa di tessuto miocardio causata da ischemia protratta per occlusione di un vaso coronario interessato da processo aterosclerotico o da fenomeni funzionali stenosanti (spasmi), favorito da fattori di rischio individuali, congeniti o acquisiti, e frequentemente legato alle abitudini di vita del soggetto, sull’insorgenza e decorso della quale il servizio prestato così come descritto agli atti, considerato in ogni suo aspetto, non può aver svolto alcun ruolo, neppure sotto il profilo concausale efficiente e determinante, tenuto conto che non risulta essere stato caratterizzato da particolari abnormi responsabilità ovvero da eccezionali disagi tali da prevalere, rispetto agli elementi individuali favorenti, nell’insorgenza o nella successiva evoluzione della infermità” (cfr. doc. 10 all. ricorrente).
3.2. Secondo un ancora diffuso orientamento giurisprudenziale, il giudizio medico legale circa la dipendenza di infermità da cause o concause di servizio si fonda su nozioni scientifiche e su dati di esperienza di carattere tecnico-discrezionale che, in quanto tali, sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvi i casi in cui si ravvisi irragionevolezza manifesta o palese travisamento dei fatti (C.d.S., sez. IV, 16 marzo 2004 n. 1341; C.d.S., sez. IV, 10 luglio 2001 n. 3822) ovvero quando non sia stata presa in considerazione la sussistenza di circostanze di fatto tali da poter incidere sulla valutazione medico finale (C.d.S., sez. VI, 6 maggio 2002 n. 2483), ovvero esulino dai normali canoni di attendibilità in relazione alle conoscenze scientifiche applicate (Consiglio Stato, sez. VI, 26 gennaio 2010 n. 280). Il sindacato che il giudice della legittimità è autorizzato a compiere sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici, ai quali la normativa vigente attribuisce una competenza esclusiva nella materia de qua, deve necessariamente intendersi limitato ai soli casi di travisamento dei fatti e di macroscopica illogicità ictu oculi rilevabili, non essendogli consentito, in alcun caso, di sovrapporre il proprio convincimento a quello espresso dall'organo tecnico nell'esercizio di una attività tipicamente discrezionale e giustificata dal possesso di un patrimonio di conoscenze specialistiche del tutto estranee al patrimonio culturale di detto giudice (T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 13 giugno 2008 , n. 1497; T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 13 maggio 2008, n. 4487).
Questa impostazione, a parere del Collegio, deve essere revocata in dubbio sulla base di due alternative ragioni: la prima attiene alla natura della posizione soggettiva tutelata; la seconda prescinde dalla natura della posizione soggettiva tutelata ed attiene al sindacato comunque esercitabile dal giudice amministrativo sugli apprezzamenti tecnici compiuti dalla pubblica amministrazione.
4. Il primo argomento ha carattere evidentemente pregiudiziale.
Deve ritenersi che la controversia in esame involga posizioni di diritto soggettivo al riconoscimento di emolumenti previdenziali ancora devolute, pure a seguito della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in forza della “riserva soggettiva” avente ad oggetto le controversie di lavoro del personale in regime di diritto pubblico tra cui, come nel caso di specie, il personale della polizia (cfr. art. 3 e 63 testo unico n. 165 del 2001). Difatti, i requisiti di fattispecie necessari e sufficienti al riconoscimento della pretesa azionata, al pari di quanto ritenuto dalla costante giurisprudenza del giudice del lavoro riferita a tutte le prestazioni previdenziali ed assistenziali erogate dalla pubblica amministrazione, sono previsti direttamente dalla legge, residuando in capo alla pubblica amministrazione soltanto un’attività ricognitiva dei presupposti di legge, anche qualora il loro accertamento richiede un giudizio di carattere tecnico.
Non può condividersi l’impostazione tradizionale del giudice amministrativo secondo cui, nella controversia avente ad oggetto il diniego di riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero di liquidazione dell’equo indennizzo, la posizione giuridica da riconoscere al pubblico dipendente nelle suddette vicende contenziose sarebbe quella del titolare dell’interesse legittimo, disponendo l’amministrazione di potere autoritativi e discrezionali proprio in ragione della particolare natura indennitaria dell’emolumento, e non del diritto soggettivo, che è consistenza che detta posizione assume solo allorché il relativo procedimento si sia positivamente concluso, e con riferimento quindi non all’”an”, ma alla corretta liquidazione del “quantum” effettivamente dovuto (C. Stato, sez. IV, 10 luglio 2007 , n. 3914).
Deve, infatti, replicarsi che:
- la natura indennitaria è comune a tutti i ristori economici con funzione previdenziale ed assistenziale rispetto ai quali (basti citare l’indennità di accompagnamento e tutte le altre prestazioni di invalidità civile), non si è mai posta in dubbia la consistenza di diritto soggettivo della pretesa, sottolineando tale espressione unicamente il carattere forfettario e predeterminato dell’emolumento e l’essere lo stesso svincolato dai presupposti dell’illecito;
- gli enti pubblici, in questa materia, non sono investiti di una potestà idonea a “mediare” le modalità concrete e specifiche con cui lo Stato sociale intende curare l’interesse di rango costituzionale alla liberazione dell’individuo dallo stato di bisogno (art. 38 Cost.); difatti, motivi di universalità, parità di accesso e programmazione delle risorse pubbliche a ciò destinate, hanno indotto il legislatore a rimettere siffatte valutazioni esclusivamente alla legge; in presenza dei requisiti di fattispecie, l’Amministrazione non può conformare le posizioni giuridiche soggettive, sovrapponendo alla legge il proprio discrezionale bilanciamento di interessi, avendo esclusivamente il dovere di verificare il ricorrere dei requisiti di fattispecie;
- la dottrina specializzata ha sempre ricostruito tali fattispecie in termini di “rapporto giuridico”, ovvero in termini paritetici; la Corte di Cassazione addirittura ritiene che l’equo indennizzo per causa di servizio (che si sostanzia nel porre a carico del datore di lavoro un'obbligazione pecuniaria strettamente inerente al rapporto di lavoro e che nasce per effetto dell'insorgenza di una infermità cagionata dalla prestazione di servizio) abbia natura giuridica retributiva in senso lato, ancorché sia funzionalmente destinata a riparare un pregiudizio (Cass. n. 12479 del 2003, Cass. n. 12547 del 2003, Cass. n. 2802 del 2003, Cass. n. 3220 del 2001, Cass. n. 5160 del 2000; (ai fini dell'attribuzione delle competenza alla giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di impiego pubblico: Cass., sez. un., 8680-1995, 10243-1994, 1311-1993, 7707-1993; 5988-1992; Cass. SU n. 19342 del 2008);
- per gli stessi motivi, neppure potrebbe parlarsi di attività vincolata nell’interesse pubblico giacché siamo, senza dubbio, in presenza di norme di relazione che disciplinano integralmente il rapporto con l’amministrato; la lettera della norma rende certi che, ai fini della esistenza del diritto, il legislatore non ha ritenuto indispensabile l’esistenza di un atto dell’amministrazione anche se a contenuto vincolato (ipotesi che, talvolta, ricorre quanto si vogliono consentire controlli efficaci dell’amministrazione di regolazione, ovvero quando si devono accertare le conoscenze necessarie ad esercitare un servizio pubblico);
- neppure l’esistenza di un potere autoritativo può desumersi dal fatto che la legge assegna ad un organo tecnico della pubblica amministrazione la verificazione di un fatto che richiede una valutazione dall’esito non univoco, quando (come nella specie) l’amministrazione non è tenuto ad emanare un atto il cui contenuto ed i cui effetti sono dalla legge considerati costitutivi del diritto;
- la tesi contraria, da ultimo, introdurrebbe nel sistema delle tutele, una vistosa irragionevolezza giacché la medesima pretesa azionata dal ricorrente viene dalla giurisdizione ordinaria (cui è rimessa, giova ricordare, salvo le poche categorie non contrattualizzate, la cognizione dell’intero contenzioso concernente il riconoscimento della causa di servizio per coloro che sono alle dipendenze della pubblica amministrazione, oltre che di tutte le restanti controversie previdenziali ed assistenziali) tutelata nelle forme del diritto soggettivo; a questa stregua, non si vede perché la pretesa all’equo indennizzo del professore universitario sarebbe fronteggiata da una pubblica potestà mentre la medesima pretesa avanzata dal direttore generale di un ministero ovvero da un professore di liceo necessiterebbe per contro di una mera attività ricognitiva dei presupposti di legge; con il rischio di far dipendere la consistenza della posizione soggettiva riferita ai medesimi interessi non dal quadro di diritto sostanziale ma dalla mera circostanza processuale della devoluzione della relativa controversia ad un ordine giurisdizionale piuttosto che un altro.
4.1. Vertendosi, per i motivi appena svolti, in materia di diritti e di giurisdizione esclusiva, il Giudice investito della presente controversia non incontra alcun limite istruttorio e cognitorio nell’accertamento del rapporto controverso con la pubblica amministrazione; ben può, in definitiva, procedere a verificare in prima persona (con l’ausilio del consulente tecnico) il possesso, in capo al ricorrente, dei requisiti di legge per l’ottenimento dell’emolumento.
5. Anche a prescindere dalla natura della posizione soggettiva azionata, ritiene il Collegio che, qualora pure si vertesse in sede di giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo, nella materia di cui trattasi, ben potrebbe svolgere un sindacato pieno e non di mera ragionevolezza sugli apprezzamenti medici espressi dalle commissioni tecniche a ciò deputate.
La giurisprudenza sulla sindacabilità meramente estrinseca della valutazione medica in tema di causa di servizio si colloca all’interno di un orientamento ancora assai diffuso presso il giudice amministrativo, nonostante significative spinte alla riconsiderazione dell’argomento propugnata in talune importanti sentenze (Cons. Stato, sez. IV, 09 aprile 1999 n. 601) e da parte di autorevole dottrina.
In particolare, l’opinione secondo cui le valutazioni espresse in materia medico-legale dalle speciali commissioni mediche siano sindacabili dal giudice amministrativo solo nei ridottissimi limiti costituiti dalla carenza dei presupposti e della illogicità ictu oculi non è condivisibile per i seguenti motivi: non esiste una riserva di amministrazione sugli apprezzamenti tecnico-discrezionali in sé considerati; il giudice amministrativo (anche nella giurisdizione di legittimità) non incontra alcun limite di accesso al fatto; un controllo “debole” sugli apprezzamenti tecnico discrezionali può ammettersi solo allorquando l’accertamento del fatto equivalga alla individuazione implicita degli interessi che il potere stesso mira a soddisfare.
Di seguito, lo sviluppo di tali assunti.
5.1. La “discrezionalità tecnica”, secondo l’unanime considerazione dottrinale, ricorre quando l’amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve accertare un fatto sulla scorta di una regola tecnica cui la norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta. La valutazione tecnica opinabile attiene qui ai presupposti della fattispecie; quando, per contro, essa attiene al contenuto della decisione finale, ovvero quando gli interessi sono l’oggetto diretto delle scelta tecnica (scelta di quale progetto adottare per fare una opera pubblica), si versa nell’ambito della discrezionalità amministrativa.
L’applicazione della regola tecnica comporta valutazioni suscettibili di apprezzamento opinabile qualora la stessa, a sua volta, rinvia a concetti indeterminati o imprecisi inerenti alle circostanze presupposte per l’esercizio del potere provvedimentale. Il carattere non obiettivo dell’accertamento differenzia la discrezionalità tecnica da quella del mero accertamento di un fatto sebbene, in entrambi i casi, i fatti costituiscono presupposti di operatività della norma e di validità dell’atto.
Quella degli apprezzamenti tecnici non è sicuramente un’area riservata alla pubblica amministrazione perché non rappresenta una espressione di potere funzionale. Ciò che è certamente precluso al giudice amministrativo (in sede di giudizio di legittimità) è la diretta valutazione dell’interesse pubblico concreto relativo all’atto impugnato: in altre parole, il merito dell’atto amministrativo concretatosi nel giudizio di valore e di scelta che “specializza” la funzione amministrativa. La questione di fatto, che attiene ad un presupposto di legittimità del provvedimento amministrativo, non si trasforma, soltanto perché opinabile, in una questione di opportunità, anche se è antecedente o successiva ad una scelta di merito (notazione quest’ultima limpidamente scolpita da Cons. Stato, sez. IV, 09 aprile 1999 n. 601). Lo sconfinamento nella sfera del merito è configurabile solo quando la statuizione del giudice si spinga ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto giacché, in tal caso, la volontà dell’organo giudicante finisce per sostituirsi a quella dell’amministrazione.
In definitiva, il potere è l’effetto di una fattispecie, l’interpretazione dei cui presupposti spetta al giudice.
La mancanza di riserva di amministrazione in tema di valutazioni tecniche è comprovata dal fatto che, nelle liti tra privati e p.a. devolute alla cognizione del giudice ordinario, gli elementi tecnici sono conosciuti con pienezza, direttamente o tramite un consulente (nel giudizio civile, la CTU viene utilizzata sia per fare valutazioni che semplici accertamenti).
5.2. Neppure è insito nel processo amministrativo di legittimità un limite strutturale di accedere direttamente al fatto. Il potere di accertare i presupposti di fatto del provvedimento impugnato costituisce, anzi, lo specifico della giurisdizione amministrativa anche di legittimità, in ciò differenziandosi dalla cognizione, parimenti detta di legittimità, della Suprema Corte di Cassazione. Lo stesso progressivo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto alla fondatezza della pretesa giuridica azionata, invocato da autorevole parte della dottrina e della giurisprudenza, rende oramai intollerabile l’idea di una cognizione ristretta ai soli elementi di fatto che risultino esclusi o sussistenti in base alle risultanze procedimentali.
L’introduzione nel processo amministrativo dello strumento della C.T.U., dapprima per la sola giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 3, d.lgs. n. 80/98) e poi anche in quella di legittimità (ad opera dell’art. 1, l. n. 205/2000), ha fatto cadere anche quei vincoli ai poteri istruttori che venivano invocati a fondamento della limitazione del sindacato del giudice amministrativo. Nel processo del pubblico impiego, del resto, l’esperibilità della consulenza tecnica era stata anticipata dalla Consulta (C. Cost. n. 146 del 1987) che, con sentenza additiva, aveva integrato la fattispecie legale ritenendo necessario, nella materia de qua, il più completo accertamento del fatto.
Non è ultroneo sottolineare sul punto che se ben può il giudice amministrativo, al fine di esercitare il sindacato sulla c.d. discrezionalità tecnica della p.a., avvalersi della c.t.u., tale strumento non può essere utilizzato per supplire ad un onere probatorio non assolto dalla parte. Infatti, il principio per cui il ricorrente è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte si giustifica nei soli casi in cui la disponibilità degli elementi probatori pertenga alla sola pubblica amministrazione mentre il privato, per la sua posizione di disparità sostanziale, non sia altrettanto in grado di fare. Quando, invece, tali elementi rientrino nella disponibilità della parte privata occorre che il ricorrente supporti la propria domanda, allegando e dimostrando in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa (Consiglio Stato, sez. VI, 04 settembre 2007 , n. 4621).
5.3. Vi sono, tuttavia, ipotesi in cui il sindacato del giudice amministrativo sull’attività discrezionale di natura tecnica non consente alcun potere sostitutivo del giudice tale da sovrapporre all’operato della pubblica amministrazione la propria valutazione tecnica opinabile o il proprio modello logico di attuazione del “concetto indeterminato” (avvalendosi di perito ausiliario).
Rileva, al riguardo, la seguente distinzione.
In un primo novero di casi, pure solitamente ricondotti alla nozione di discrezionalità tecnica ma che, secondo il Collegio, sarebbe meglio definire in termini di “valutazione tecnica complessa non discrezionale”, i fatti presupposti dal provvedimento, per quanto di opinabile accertamento, sono pur sempre presi in considerazione dalla norma nella loro dimensione oggettiva di “fatto storico” giuridicamente rilevante. La norma di azione, qui, indica con precisione il bisogno tutelato e gli strumenti per farvi fronte, ragione per cui la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, deve consentire al giudice un controllo penetrante attraverso la piena verifica del fatto sotto il profilo della sua verità.
In altre ipotesi, per le quali invece è effettivamente utile e pregnante il termine “discrezionalità tecnica”, presupposto del provvedimento non è il mero fatto storico ma il fatto “mediato” e “valutato” dalla pubblica amministrazione. Qui, l’attività valutativa ed integrativa della p.a. equivale in tutto e per tutto a descrivere “implicitamente” l’interesse pubblico che l’atto stesso mira a soddisfare. Tale tipologia di apprezzamento tecnico appartiene qualitativamente all’area della vera e propria discrezionalità, distinguendosi da quella denominata “amministrativa” sol perché vi difetta la valutazione comparativa con altri interessi secondari, concretandosi nella sola identificazione dell’unico interesse pubblico sotteso all’accertamento del fatto. L’insindacabilità della scelta tecnica si giustifica qui in virtù della peculiare “politicità” della scelta tecnica per la quale il giudice sconta un difetto di legittimazione democratica.
In altre parole, nell’accertamento tecnico discrezionale (nella nozione specificatamente circoscritta) la valutazione dell’organo concorre a definire compiutamente la fisionomia dell’interesse pubblico primario assegnato alla cura della p.a.; nel prosieguo dello stesso procedimento, può essere richiesto alla amministrazione anche il bilanciamento con altre istanze pubbliche e private, ma tale ulteriore ed eventuale segmento procedimentale, in cui si esercita la “discrezionalità amministrativa”, rimane concettualmente ben distinto dal primo stadio. Alla luce di tale ricostruzione teorica, si spiega agevolmente perché il sindacato su tale peculiare manifestazione di giudizio denominata “discrezionalità tecnica”, al pari di qualunque determinazione realmente discrezionale (perché impinge nelle modalità di cura dell’interesse pubblico), debba essere contenuto nei limiti del controllo estrinseco. Sul versante della tutela, ne consegue, per il giudice l’impossibilità di sostituire la valutazione compiuta dall’organo amministrativo, salvo sanzionarne “ab externo” l’irragionevolezza.
5.4. Nel quadro di tale cornice concettuale sembra essersi mossa la giurisprudenza, formatasi in materia di accertamento dei fatti posti a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale ha ritenuto che le valutazioni tecniche dell’Autorità, fondate su regole scientifiche inesatte ed opinabili (ad esempio, di carattere economico) debbono decodificare “concetti giuridici indeterminati” in cui l’apprezzamento tecnico contiene anche una attività di interpretazione dell’interesse pubblico assegnato alla cura della pubblica amministrazione. Ne consegue la necessità di distinguere un controllo di tipo “forte”, che si traduce in un potere sostitutivo del giudice, il quale si spinge fino a sovrapporre la propria valutazione tecnica opinabile a quella dell'amministrazione” ed un controllo di tipo “debole” in cui le cognizioni tecniche acquisite (eventualmente) grazie al consulente vengono utilizzate solo allo scopo di effettuare un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica della decisione amministrativa." (Cons. Stato, IV, n. 5287 del 6-10-2001). In presenza di casi in cui la distinzione tra il carattere di opinabilità dei giudizi tecnici (attratti nella cognizione del giudice) e i profili della opportunità (sottratti al sindacato) non è così netta deve escludersi il sindacato giurisdizionale di tipo forte (sostitutivo) ed ammettersi solo il controllo di tipo debole (il self restraint del Consiglio di Stato è analogo a quello pure adottato dalla Corte di Giustizia CE sulle valutazioni economiche complesse fatte dalla Commissione: sentenze 11 luglio 1985, causa 42/84, Remia, punto 34, e 17 novembre 1987, cause riunite 142/84 e 156/84, BAT e Reynolds, punto 62; 28 maggio 1998, C-7/95, John Deere, punto 34).
5.5. La corretta applicazione dei principi tutti sopra esposti comporta che l’opinabilità degli apprezzamenti tecnici medici, cui la norma di sicurezza sociale subordina il conseguimento del beneficio previdenziale invocato in questa sede, non rientra nelle ipotesi in cui è impedita la loro sostituzione con gli accertamenti istruttori compiuti dal giudice che ne abbiano riscontrato l’insufficienza quanto a criterio seguito e a procedimento applicativo utilizzato. Difatti, la regola tecnica inserita nella struttura della norma giuridica, nella specie, è strumentale al solo accertamento di un fatto storico (presupposto sanitario), avendo già il legislatore compiutamente identificato il bisogno tutelato mercé la determinazione del tipo di patologia e di lavorazione, dell’entità del beneficio ritenuto compatibile con le altre missioni di bilancio pubblico, del modello di relazione causale tra patologia e condizioni di lavoro. Con l’ulteriore avvertenza che, nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento di una patologia come causa di servizio, gli elementi medici in base a cui accertare tale riconoscimento sono nella disponibilità del ricorrente e in presenza di un accertamento negativo da parte dell’amministrazione spetta allo stesso fornire quanto meno un principio di prova a fondamento della sua pretesa.
5.6. La piana lettura del ricorso rende evidente che, al di là della impostazione impugnatoria e della formula terminativa in termini caducatori delle conclusioni, giustificata dalla necessità di uniformarsi allo strumentario concettuale tradizionalmente adoperato dalla giurisprudenza amministrativa, la pretesa sostanziale del ricorrente è volta all’accertamento della dipendenza della propria patologia da causa di servizio; in tal senso deve essere riqualificato il petitum.
6. Nel merito, ritiene il Collegio che il consulente tecnico incaricato abbia sottolineato convincentemente, con motivazione chiara ed immune da vizi logici che il Collegio pienamente condivide e fa propria, gli elementi che, da un lato, escludono il nesso di derivazione causale tra la patologia riscontrata e il servizio lavorativo prestato dal ricorrente, dall’altro, pongono in evidenza la correttezza della valutazione della pubblica amministrazione.
6.2. In termini generali, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento occorre che, in base ad una legge scientifica di copertura, il giudice sia in grado di affermare che l’evento è conseguenza della condotta con alto grado di probabilità scientifica razionale. Pertanto, il giudice può affermare di avere accertato il nesso di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di probabilità razionale o, se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio, solamente se le leggi di copertura di cui si serve consentano di affermare che senza lo svolgimento della condotta lavorativa in oggetto l’evento lesivo nella stragrande maggioranza dei casi non si sarebbe verificato. La conferma dell’ipotesi sull’esistenza del nesso causale non deve essere dedotta esclusivamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice può verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile. Ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possano fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti.
Del resto, il giudizio di esclusione della dipendenza da causa di servizio dell’infermità per il solo fatto della preesistenza di fattori di rischio, in fattispecie nella quale sia documentata l’attività continuativa particolarmente impegnativa e stressante del pubblico dipendente, costituisce affermazione di criterio tecnico inadeguato, come segnalato da costanti acquisizioni giurisprudenziali (cfr. Cass., 6 novembre 1995, n. 11559). La predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra patologia ed evento infortunistico, in relazione anche al principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e che un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia.
6.3. Sulla scorta della documentazione esibita in giudizio e l’approfondimento testistico eseguito nel corso delle operazioni peritali, risulta che il ricorrente è risultato essere affetto da esiti di “Infarto Miocardio Acuto nonQ in seguito ad occlusione dell’arteria interventricolare di sinistra, che venne trattato con rivascolarizzazione percutanea PTCA e stent medicato sulla parte prossimale della suddetta coronaria con buon risultato angiografico finale”.
Correttamente il consulente è partito dal presupposto condiviso dalla giurisprudenza che i fatti di servizio, qualora non agiscano da soli, debbano comunque possedere un preciso significato etiopatogenetico, cioè la concausa correlata al servizio deve essere dotata di una significativa attività etiopatogenetica; non rileva il fatto che esso non sia, quale concausa, quantitativamente non significativa, posto che essa agisca anche solo da un punto di vista qualitativo in maniera da influire in modo sensibile sul fatto conseguente.
6.4. La questione rimessa al consulente si incentrava, fondamentalmente, sull’influenza degli stress emozionali nell’insorgenza dell’insulto ischemico miocardico in questione. L’influenza negativa degli stress emozionali a carico del sistema cardiovascolare, secondo la letteratura, è nel senso che essi possono agire come “trigger”, vale a dire come eventi scatenanti fatti acuti cardiovascolari. Lo stress emozionale può agire in “acuto”, vale a dire in stretto rapporto temporale con l’insorgenza degli eventi coronarici; infatti, in risposta allo stress, aumentano l’attività del simpatico e, di conseguenza, il rilascio di catecolamine, che, risultando in una serie di meccanismi compensatori, possono condurre alla rottura di una eventuale placca aterosclerotica, alla formazione di trombi, all’insorgenza di aritmie e all’ischemia miocardica. Gli stessi eventi, ripetuti nel tempo (“cronicamente”), possono ugualmente provocare modificazioni nella risposta emodinamica, favorendo, nel tempo, lo sviluppo della patologia coronarica.
6.5. Il signor P., all’epoca dei fatti 48enne, svolgeva servizio presso il posto fisso di Polizia dell’Ospedale di Busto Arsizio, quale responsabile. Il servizio era svolto in due turni (dalle 8 alle 14 e dalle 14 alle 20), con mansioni di controllo e sicurezza; l’attività veniva effettuata dal P. in autonomia, perciò con posizione di controllo e gestione autonoma del proprio operato. Avuto riguardo delle sue precedenti mansioni lavorative, si può affermare che negli ultimi dieci anni egli risultava esposto ad un “stress emotivo” evidentemente ridotto nello svolgimento del servizio, a fronte di un’esposizione a situazioni più stressanti in epoca antecedente, quando cioè era impiegato in servizi di squadra Volante e di ordine pubblico.
Secondo il Consulente, non sono individuabili concretamente particolari disagi psico-fisici connessi al servizio svolto dal ricorrente dotati di una dimostrabile efficienza etiopatogenetica, ovvero con caratteristiche sotto il profilo quali-quantitativo tali, da aver potuto svolgere, concretamente, un ruolo “concausale efficiente e determinante” nel determinismo della patologia in questione. Inoltre, a parte l’assenza di documentati specifici eventi connessi al servizio che nello specifico abbiano potuto agire da elementi scatenanti l’evento coronarico (criterio dell’idoneità lesiva), non si può non evidenziare la circostanza che la “sindrome coronarica acuta” si verificò in un periodo di ferie e, pertanto, non certamente in correlazione cronologica direttamente susseguente allo svolgimento della propria occupazione.
6.6. Per ciò che concerne poi le caratteristiche del cosiddetto “stato anteriore” ovvero del substrato bio-comportamentale del soggetto, sul quale hanno agito i diversi fattori, potenzialmente nocivi, legati all’espletamento del servizio, lo stesso ricorrente da un lato si è definito come come “persona tranquilla”, dall’altro non ha segnalato, in anamnesi, alcun evento patologico direttamente correlato ad eventuali stress emotivi. Inoltre non sono segnalate né documentate eventuali patologie a carico della sfera psichica ovvero tratti psicopatologici che abbiano potuto favorire in qualche modo l’insorgenza della patologia patita. Al contrario, sottolinea ancora, il consulente, occorre valutare come il signor P. presentasse, viceversa, importanti fattori di rischio costituzionali per l’instaurarsi e l’evoluzione della patologia coronarica, quali l’abitudine al fumo, il sovrappeso e, soprattutto, la dislipidemia; elementi certamente di preminente rilievo nella genesi di ogni patologia cardiovascolare, non ultimi gli eventi coronarici acuti.
6.7. In definitiva, non è dimostrabile che il servizio svolto dal ricorrente, con particolare riferimento agli ultimi dieci anni (lasso di tempo evidentemente più che significativo sia per durata, sia per vicinanza cronologica con i fatti clinici in questione) possa aver svolto, secondo i parametri forniti dalla letteratura scientifica in materia, una “significativa attività eziopatogenetica” nel determinismo della patologia cardiovascolare di cui trattasi e ciò da un punto di vista sia qualitativo, sia quantitativo, dovendosi, viceversa, rapportare quest’ultima alla presenza nel soggetto dei documentati fattori di rischio (fumo, soprappeso e soprattutto dislipiedemia), dei quali è concordemente dimostrato e riconosciuto in ambito scientifico il preminente ruolo eziopatogenetico.
6.8. A fronte delle descritte risultanze peritali, non sono condivisibili le controdeduzioni versate nella memoria del 5 marzo 2010; neppure le depositate osservazioni alla CTU redatte dal consulente di parte (cfr. in atti), inficiano le sopra esposte conclusioni, limitandosi le stesse per lo più “a glossare” parti di relazione peritale senza offrire una ricostruzione scientifica alternativa.
In particolare:
- a) il consulente di ufficio non esclude l’astratta efficienza causale dello stress lavoro sulla patologia sofferta dall’istante, ma unicamente ritiene che non siano emerse nell’ultimo decennio condizioni lavorative al tal fine significative;
- b) con riguardo alla mancanza di rischio per temporanea breve astensione dal lavoro per ferie, il CTP si limita apoditticamente a riferire la circostanza “non accettabile dal punto di vista scientifico come potrà facilmente confermare qualsiasi cardiologo”;
- c) i disordini alimentari e le abitudine scorrete (fumo, sovrappeso) non è per nulla dimostrato fossero imposti dall’organizzazione del lavoro;
- d) il CTP non spiega, pur contestandole, il motivo per cui, sotto il profilo scientifico o statistico, i dati raccolti al momento della visita si tradurrebbero in una anamnesi generica;
- e) il fatto che il meccanismo che dallo stress cronico può condurre alla patologia coronarica acuta possa avvenire anche in soggetto che non abbia in precedenza manifestato patologie a carico dell’apparato cardiovascolare, non esclude la necessità, ed è questo il punto indimostrato, di individuare fatti di servizio stressanti adeguati alla causazione della patologia del ricorrente;
- f) è senza dubbio condiviso dalla giurisprudenza che il giudizio di esclusione della dipendenza da causa di servizio dell'infermità per il solo fatto della preesistenza di fattori di rischio, costituisce affermazione di criterio tecnico inadeguato (cfr. Cass., 6 novembre 1995, n. 11559), ma ciò unicamente nelle fattispecie in cui sia documentata l’attività continuativa particolarmente impegnativa e stressante del pubblico dipendente mentre qui il giudizio del consulente è del tutto diverso, avendo egli ha escluso che vi fossero fattori di rischio connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa;
- g) le informazioni differenti che mostrano uno stato di servizio certamente significativo per la presenza di notevoli situazioni di stress non sono descritte dal consulente di parte, mentre i fatti indicati in ricorso non sono per nulla documentati e descritti nel loro numero, periodo e concrete modalità (si deduce genericamente che, durante il servizio svolto presso l’ospedale di circolo di Busto Arsizio, il ricorrente avrebbe nel reparto di psichiatria e di pronto soccorso, talvolta contrastato pazienti che minacciavano il personale ospedaliero ovvero allontanato tossicodipendenti);
- h) con riguardo ai predenti giurisprudenziali evidenziati dal CTP, si ritiene che i casi proposti per analogia non possano attagliarsi a quello in oggetto, per la diversità sia del servizio in concreto attuato, sia della tipologia clinica ed anatomopatologica.
7. In definitiva, il ricorso deve essere respinto dal momento che non è stata offerta la prova del nesso condizionante tra le mansioni svolte e l’evento lesivo insorto nel senso che l’attività lavorativa è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica.
8. Sussistono giusti motivi per compensare interamente le spese di lite tra le parti, attesa l’oggettiva disputabilità dei presupposti medici della pretesa. Le spese di CTU sono poste in solido a carico di entrambe le parti, da dividersi nei rapporti interni in quote uguali tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione III, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
Rigetta il ricorso e compensa interamente le spese di lite tra le parti.
Liquida in favore del CTU, dott. Umberto Genovese, la somma di € 2.000,00 che pone a carico delle parti in solido.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 18 marzo 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Stefano Celeste Cozzi, Referendario
Dario Simeoli, Referendario, Estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 21/05/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO