Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Mobbing – Demansionamento – Risarcimento del danno biologico ed alla professionalità – Sussiste
Il danno, di carattere non patrimoniale, alla professionalità “attiene … alla lesione (sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale) di un interesse costituzionalmente protetto dall’articolo 2 della Costituzione ed ha ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e qualifica spettategli per legge o per contratto. I provvedimenti del datore che illegittimamente ledono tale diritto hanno quale conseguenza la lesione dell’immagine professionale, della dignità personale e della vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima ed eterostima nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare sia in termini di perdita di chances per lavori di pari livello (Cass., sez. lav., n. 10157 del 2004). La valutazione di siffatto pregiudizio, che, come già evidenziato, è privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata in via equitativa”. Quanto al danno biologico, “vi è da rilevare al riguardo che il c.t.u. ha ritenuto di diminuire la quantificazione del danno…in considerazione della personalità del ricorrente e di situazioni, preesistenti o concomitanti, attinenti alla sua sfera personale, alle quali ha riconosciuto valore di concausa naturale nella determinazione del danno. Ritiene il giudice di non poter aderire a tale impostazione, poiché, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, applicabili in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, «qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità» (Cass., sez. lav., n. 553 del 2003). Non è possibile, pertanto, una volta accertata l’effettiva operatività del nesso causale fra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato, effettuare alcuna graduazione in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, dovendo ritenersi il danneggiante responsabile per l’intero dei danni cagionati”.

Massima a cura della redazione di Olympus


 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 24.4.2002, ritualmente notificato, L.P. C.R., premesso di essere dipendente del Comune di Trebisacce dal 1.7.74, con attuale qualifica di istruttore amministrativo —categoria C1 — e di aver organizzato e gestito l’ufficio Tributi, del quale era stato nominato responsabile, esponeva di essere stato oggetto di una condotta vessatoria sul posto di lavoro, a causa della quale aveva riportato danni alla professionalità, alla salute, alla sfera morale e patrimoniale. In particolare, il ricorrente lamentava che: mentre l’amministrazione precedentemente in carica, con delibera di G.M. n. 304 del 22.5.98 aveva approvato le operazioni relative ad un concorso interno e lo aveva nominato vincitore per il posto di istruttore direttivo ufficio Tributi ex VII qualifica funzionale, cat. D, con delibera di G.M. n. 627 del 12.11.98, l’attuale amministrazione gli aveva revocato l’incarico di responsabile del servizio Tributi; con l’approvazione del nuovo Regolamento sull’Ordinamento Generale degli uffici e dei servizi, con annessa dotazione organica, era stata cancellata la posizione di istruttore direttivo ufficio tributi (figura professionale propria del ricorrente); con delibera n. 676 del 29.12.98 era stato annullato il concorso interno e l’incarico di responsabile del servizio Tributi era stato affidato al ragioniere comunale A. C.; aveva ripetutamente e per iscritto chiesto a quali nuove mansioni dovesse attendere, senza aver ottenuto alcuna risposta in merito; in data 12.01.2000 era stato destinatario del provvedimento di mobilità interna n. 219, di carattere punitiva, in virtù del quale dall’ufficio Tributi egli era stato trasferito all’ufficio Elettorale; era stato quasi esclusivamente adibito al servizio protocollo, limitandosi a registrare la posta in entrata e in uscita; era stato, pertanto, costretto a forzata inattività; era stato spostato dal proprio ufficio in un locale con altri dipendenti e, comunque, era stato posto sotto il diretto controllo di un pari livello, più giovane anche professionalmente era stato vittima di numerose contestazioni disciplinari, tutte finite nel nulla. Evidenziava che i suddetti comportamenti, adottati in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 2103, 2087, 2049, 1175 e 1375 c.c., avevano concretizzato una fattispecie di c.d. mobbing in suo danno ed avevano determinato l’insorgere delle patologie individuate nelle certificazioni depositate unitamente al ricorso. Chiedeva, pertanto, che il Comune di Trebisacce, in persona del legale rappresentante p.t. e S. P., nella sua qualità di direttore generale del Comune convenuto, fossero condannati, in solido, al risarcimento, in suo favore, del danno biologico (quantificato in € 154.937,07), nonché del danno alla professionalità è del danno morale ed esistenziale, da liquidarsi in via equitativa, oltre interessi legali, con vittoria di spese ed onorari.
Si costituivano in giudizio il Comune di Trebisacce e S. P., i quali contestavano la fondatezza dell’avverso ricorso, chiedendone il rigetto.
In particolare, i resistenti evidenziavano l’assenza, nelle condotte descritte dal ricorrente, dell’elemento psicologico necessario per la configurabilità del “mobbing”, consistente nel dolo specifico di nuocere psicologicamente al lavoratore alfine di emarginarlo ed allontanarlo dalla realtà lavorativa. Facevano rilevare, inoltre, come non fossero veritiere le censure mosse dal ricorrente all’operato degli organi amministrativi e come non vi fosse alcuna prova del nesso causale fra la lamentata lesione della sfera personale e professionale e l’insorgenza del danno.
Istruita la causa con l’assunzione della prova testimoniale e l’acquisizione della documentazione prodotta dalle parti (anche con l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio di cui all’art. 421 c.p.c.), dopo l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio, autorizzato il deposito di note difensive, all’odierna udienza la causa veniva discussa ed il giudice decideva come da dispositivo, con contestuale motivazione, del quale dava lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritiene il giudice che il ricorso sia fondato e che, pertanto, debba essere accolto nei limiti di cui si dirà.
Le argomentazioni poste da parte ricorrente a fondamento delle proprie richieste hanno, invero, trovato parziale riscontro all’esito dell’istruttoria svolta.
Giova, in primo luogo, rilevare come non sia emerso alcun elemento sulla base del quale poter sostenere che l’attività amministrativa concretizzatasi nelle delibere di G.M. n. 627 del 12.11.98 e 676 del 29.12.98 (concernenti rispettivamente la revoca della delibera di conferimento al ricorrente della funzione di responsabile del servizio Tributi e all’annullamento del concorso e del relativo atto di nomina a vincitore di concorso interno per la copertura di un posto di istruttore direttivo del servizio Tributi di VII q.f.) sia stata posta in essere al solo scopo di danneggiare il L.P. Ed invero, la ridefinizione della pianta organica dell’Ente alla quale pure ha fatto riferimento il ricorrente, ne ha certamente coinvolto tutta la struttura organizzativa (v. documentazione in atti), così come è emerso che erano ben dieci i concorsi interni svolti in precedenza e successivamente annullati. Nell’attuale sede, inoltre, non sono stati evidenziati precipui profili di illegittimità delle cennate delibere mentre costituisce ulteriore argomento di prova l’insussistenza delle ragioni di parte ricorrente la circostanza del rigetto, da parte del TAR, della richiesta di sospensiva formulata dal L.P. e la conferma di tale pronuncia da parte del C.d.S..
Quanto alle lamentele del ricorrente circa la situazione di forzata inattività alla quale egli ha sostenuto di essere stato costretto, dopo la revoca della sua nomina di responsabile del servizio Tributi, appaiono pertinenti le seguenti considerazioni. La revoca della responsabilità di servizio non implica alcuna sostanziale modifica dei compiti in precedenza rientranti nelle normali attribuzioni del dipendente incaricato poiché essa determina, in buona sostanza il venir meno della possibilità di adottare atti a rilevanza esterna ossia di manifestare all’esterno la volontà nell’esercizio della potestà di gestione attribuita al soggetto legittimato di adottarli. La circostanza dallo stesso ricorrente evidenziata nell’atto introduttivo del giudizio, di aver lavorato sempre nell’ambito del servizio Tributi (provvedendo all’organizzazione stessa del servizio e alla sua gestione), rende verosimile che, in conseguenza della revoca della posizione organizzativa non conoscesse più le mansioni da svolgere e che avesse quindi una necessità di ricevere specifici ordini di servizio scritti (cosa che spesso sollecitava).
A parere di questo giudice, tuttavia, essere svolte considerazioni di carattere diverso quanto al provvedimento di mobilità interna n. 219 del 12.01.2000, con il quale è stato disposto il trasferimento del ricorrente dal servizio Tributi al servizio Elettorale. Ed invero, sebbene siano state evidenziate le esigenze organizzative interne, sottese al provvedimento in questione, rappresentate sia dalla necessità (come da Circolare Ministeriale n. 3/1993) di destinare al servizio ICI un dipendente in possesso del diploma di ragioniere (nel caso in esame in possesso dell’altro dipendente L.P. Eg. e non del ricorrente), sia dalle richieste del responsabile della area finanziaria, A. C., il quale, in sede di conferenza dei responsabili delle aree e dei servizi del 13.07.1999 aveva reso edotto il Direttore Generale del cattivo funzionamento del servizio tributi, l’istruttoria svolta ha palesato il demansionamento e la conseguente dequalificazione professionale subiti dal ricorrente in ragione del comportamento dei convenuti.
Al riguardo deve essere osservato come, benché nel pubblico impiego sia operante la previsione contenuta nell’ad. 2103 c.c. - con l’unica limitazione della impossibilità di inquadramento automatico in una qualifica superiore in virtù dell’esercizio di fatto di mansioni superiori - , costituendo il divieto di reformatio in pejus principio applicabile anche nei confronti del pubblico dipendente, l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001, preveda, al comma 1, che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive”. La nuova disciplina degli inquadramenti determina, quindi, il principio della c.d. contrattualità delle mansioni, valorizzandole secondo quanto già previsto nel rapporto di lavoro privato. Il contratto di assunzione individua le mansioni e circoscrive l’oggetto dell’obbligazione lavorativa, in modo che il consenso delle parti si forma su quanto previsto dal contratto individuale e dai contratti collettivi a cui viene fatto rinvio. Anche l’esercizio dello jus variandi del datore di lavoro tende ad omologarsi con la disciplina vigente per il settore privato, con l’espressa attribuzione del rilievo sia alle mansioni di assunzione che al concetto di equivalenza. Lo jus variandi, pertanto, viene ammesso se vi sia equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle individuate dalla classificazione professionale prevista dai contratti collettivi. Manca nella normativa applicabile al caso in esame ogni riferimento alle mansioni “ultime effettivamente svolte”. E’ stato frutto di elaborazione giurisprudenziale il ricondurre il concetto di equivalenza a quello di mansioni svolte in precedenza, riconoscendo la sussistenza di tale requisito quando le nuove mansioni consentano l’utilizzo ed il perfezionamento del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto e, di conseguenza, ammettendo lo jus variandi esclusivamente in assenza di uno stravolgimento o depauperamento del patrimonio professionale del lavoratore. E’, comunque, onere del prestatore di lavoro allegare l’impossibilità di utilizzare la professionalità acquisita in relazione al particolare tipo di specializzazione conseguito (v. Trib. Catanzaro, ord. 1.6.2001 e Trib. Trieste 13.8.99).
Nel caso in esame, non può non ritenersi che con il provvedimento di mobilità n. 219 del gennaio 2000 si sia attuato un demansionamento ai danni del ricorrente.
Mentre, infatti, quanto al diverso collocamento logistico, si sono rivelate prive di fondamento le affermazioni circa l’inidoneità del locale, anche dal punto vista igienico (trattandosi del medesimo ambiente occupato, già in precedenza, da tutti i dipendenti degli uffici demografici del Comune), appaiono, invece, supportate da idoneo riscontro le lamentele del ricorrente circa la situazione di “forzata inattività” e, comunque, di sottoutilizzazione alla quale egli ha sostenuto di essere stato costretto.
Il provvedimento in questione risulta adottato all’esito della conferenza dei responsabili delle aree e dei servizi del 13.7.99, nella quale erano emerse le difficoltà di funzionamento del servizio Tributi e la necessità di potenziare il servizio Elettorale in considerazione dell’aggravio di lavoro determinato dall’ampliamento delle competenze della sottocommissione elettorale mandamentale.
Dalle testimonianze raccolte, tuttavia, è emerso che in seguito al trasferimento all’ufficio Elettorale il ricorrente è stato, in un periodo iniziale, addetto al servizio protocollo di tale ufficio e, successivamente, spogliato di qualunque attività. La responsabilità dell’ufficio Elettorale era affidata ad altro dipendente, M. M., dal quale (nonostante la minore anzianità di servizio) il L.P. avrebbe dovuto essere diretto e controllato. Tale situazione è stata evidenziata, in maniera sostanzialmente uniforme , dai testi T.F., N.L., V.E., C.C.. Tutti hanno riferito di aver notato l’inattività del ricorrente, il quale, dopo essere stato adibito, per un breve periodo, ad un’attività di carattere meramente esecutivo (protocollare la posta in arrivo), non era più stato destinatario dell’assegnazione di compiti inerenti le attività proprie dell’ufficio Elettorale, rimanendo totalmente inutilizzato. Tali affermazioni appaiono credibili, poiché provengono da un rilevante numero di testimoni (tutti dipendenti dell’Ente convenuto in giudizio), i quali, ad eccezione di N.L., non risultano aver intentato analoghe azioni giudiziarie. In particolare il teste V.E. (responsabile dell’ufficio manutenzione) ha riferito che la vicenda per cui è processo aveva avuto inizio con il passaggio dall’amministrazione precedente a quella attualmente in carica, la quale aveva annullato vari concorsi interni, comportanti il passaggio di diversi dipendenti (fra cui il ricorrente) a livelli superiori, con conseguente revoca della responsabilità degli uffici loro riconosciuta. La reazione a tale situazione era stata diversa, tanto da indurre alcuni di tali dipendenti, come il L.P., ad intentare un giudizio, ponendo in essere un atteggiamento ostile nei confronti della nuova amministrazione. Lo stesso teste, tuttavia, ha evidenziato come effettivamente, in virtù del provvedimento di mobilità interna del gennaio 2000, il ricorrente non era stato adibito a mansioni inerenti la qualifica rivestita ed, anzi, era rimasto totalmente inutilizzato. Negli stessi termini si è espresso il teste C. C., responsabile dell’area amministrativa dal 5.3.2001, il quale ha dichiarato che il L.P. aveva segnalato di non essere utilizzato in compiti e funzioni relativi al servizio Elettorale e che, inoltre, lo stesso responsabile (o funzionario apicale di tale ufficio) M. M. aveva evidenziato (per iscritto) che non era più necessaria la presenza di un altro dipendente. Effettivamente fra la documentazione in atti vi è la nota a firma del M. datata 17.12.2003, nella quale quest’ultimo ribadisce (come già avvenuto con nota del 28.3.2003) che a seguito della meccanizzazione del servizio e della soppressione della sottocommissione elettorale mandamentale (avutasi già con decreto del Presidente della Corte d’Appello di Catanzaro n. 200 del 7.02.2001) il lavoro si era ridotto ed egli poteva da solo svolgere i relativi adempimenti. Dalla documentazione in atti e dalle dichiarazioni testimoniali emerge, inoltre, che il ricorrente ha continuato a lamentare, anche dopo la proposizione del ricorso, di essere utilizzato solo sporadicamente per lavori di carattere elementare e di essere estromesso in pratica dal servizio, anche in ragione della mancanza di un computer in sua dotazione e della sua esclusione da corsi di formazione (quale quello anagrafe Aire — programma e trasmissione dati, tenutosi nel novembre 2001, al quale risultano ammessi a partecipare tutti i dipendenti degli uffici Demografici del Comune convenuto ad eccezione del ricorrente). Tale situazione è quella in sostanza segnalata anche dal teste C.C., il quale ha esposto di aver anche verificato, dopo aver controllato la dotazione organica, la possibilità di collocare il L.P. in altro ufficio e di avervi provveduto con un provvedimento di trasferimento presso la biblioteca comunale. Il provvedimento in questione, tuttavia, è stato posto nel nulla dall’intervento del segretario generale, S.P., il quale evidenziava l’incompetenza del C. in merito (v. documentazione in atti), senza, tuttavia, provvedere direttamente. Né può fondatamente sostenersi che tale omissione sia stata determinata dalla nota prot. n. 9023 del 6.10.2003, con la quale il L.P., solo dopo l’intervenuta revoca del proprio trasferimento presso la biblioteca civica, ha revocato a sua volta e nella qualità di rappresentante sindacale, la disponibilità “a lasciare la sede comunale”. Non risulta, quindi, che, nonostante l’intervenuta conoscenza da parte del sindaco e, soprattutto, dello stesso S. della situazione di inerzia lavorativa del ricorrente, siano stati adottati appositi provvedimenti, nè relativi all’assegnazione di compiti e mansioni, né di assegnazione ad altro ufficio (non necessariamente presso sedi distaccate ma presso la medesima sede principale dell’Ente) o di contestazione di violazioni disciplinari ricollegabili alla inattività del L.P..
Lo stesso M.M., escusso in qualità di testimone, ha riferito che sin dal febbraio 2001 (epoca della soppressione della sottocommissione elettorale mandamentale) egli era tornato ad occuparsi direttamente dell’ufficio Elettorale, aggiungendo che aveva fatto in precedenza richiesta di assegnazione di un altro dipendente, poiché doveva andare in pensione un lavoratore di pubblica utilità, D.B.D., le cui mansioni erano state poi affidate al L.P. Vi è in atti una attestazione relativa alla composizione dell’ufficio elettorale, alla data del provvedimento di mobilità interna del 13.01.2000, dalla quale risulta che al M. era affidata la responsabilità dell’ufficio, che egli gestiva “con la collaborazione” del L.P.U. D.B.D. Lo stesso documento (prodotto da parte resistente) testualmente recita, riguardo al L.P., che quest’ultimo “con provvedimento del 13.01.2000, era stato assegnato, sotto il diretto controllo del dipendente M., all’ufficio Elettorale”.
Fra la copiosa documentazione in atti, tuttavia, non si rinviene alcun provvedimento indicativo delle mansioni (o di specifici compiti) affidate al ricorrente, le quali, sebbene non “equivalenti alle ultime effettivamente svolte” avrebbero dovuto, comunque, rispettare l’equivalenza con le mansioni rientranti nel profilo di appartenenza (ovvero nella categoria contrattuale di riferimento). Né su tali circostanze hanno fornito elementi indicativi i testimoni di parte resistente (i rapporti di alcuni dei quali con il L.P. non possono ritenersi buoni, in considerazione dell’esistenza di denunce penali ed esposti presentate nei loro confronti dal ricorrente stesso, v. in atti denunce nei confronti di A.C., F.V., A.V.). Lo stesso M. si è limitato a riferire che il ricorrente evadeva le pratiche affidategli con lentezza, senza, tuttavia, fornire alcun più preciso elemento sulla consistenza del lavoro affidatogli e, comunque, non facendo alcun riferimento ad un suo “rifiuto” di svolgere i compiti eventualmente attribuitigli (si legga al riguardo anche la nota n. prot. 11536 del 17.12.2003 a firma del M.). In realtà, dalla deposizione del teste C.C. emerge che, fra il M. e il ricorrente, sin dall’inizio, non si era instaurato un clima di collaborazione, perché il primo “svolge direttamente il lavoro del servizio elettorale, omettendo di passare, per il loro espletamento, pratiche inerenti a quell’ufficio e di un certo rilievo al ricorrente”. Né la sola circostanza della partecipazione del ricorrente alle attività inerenti alla costituzione dell’ufficio elettorale per il referendum del 2000, per le consultazioni politiche del 13.5.2001 e le elezioni amministrative del 26.5.2002 appare sufficiente a dimostrare l’infondatezza dell’assunto di parte ricorrente e la sua piena utilizzazione, in mansioni proprie della qualifica rivestita.
A parere di questo giudice, l’esito dell’istruttoria svolta ha evidenziato l’intervenuto demansionamento del L.P., sin dalla sua assegnazione all’ufficio Elettorale. E’ evidente, infatti, che non può ritenersi sussistente alcuna equivalenza fra le mansioni proprie di istruttore amministrativo, categoria C1, e quelle, sporadiche, alle quali il ricorrente risulta essere stato adibito, quali la protocollazione della posta in arrivo e, comunque, la “collaborazione” nelle attività dell’ufficio elettorale, in sostituzione di lavoratore di pubblica utilità e in posizione sottordinata rispetto ad un dipendente appartenente alla medesima Categoria C.
L’analisi del comportamento dei convenuti nel periodo successivo alla proposizione del ricorso, inoltre, ha lasciato intendere in tutta la sua evidenza la consapevolezza e la piena volontarietà della condotta per cui è causa. Vi è anzi, da rilevare come, anche successivamente all’interessamento di C. C., nessun intervento di contenuto positivo sia stato posto in essere dai resistenti. Si è provveduto, al contrario, ad eliminare dalla piante organica un posto di categoria C1 dall’ufficio Elettorale (il cui rimanente posto della medesima categoria deve intendersi ricoperto da M.M., responsabile o apicale dell’ufficio), mentre, pur essendo stata prevista l’istituzione di un posto di categoria C1 presso la delegazione municipale, non è stato adottato alcun formale e concreto provvedimento di trasferimento (o alcuna proposta di trasferimento) del L.P. nel diverso ufficio (v. delibere in atti e risposta alla richiesta del c.t.u. da parte di C. C. prot. n. 6202 del 27.6.2005). Non vi è dubbio che nel corso del presente giudizio il ricorrente è addirittura rimasto privo di una formale collocazione lavorativa, poiché, nonostante la vacanza, in organico, di altri posti di categoria C (come, fra l’altro, sostenuto da parte resistente nelle note in atti), ad alcuno di essi egli risulta formalmente adibito. Tanto è emerso da tutta la documentazione acquisita. Se tale situazione non può direttamente costituire oggetto di causa, essa, tuttavia, può fornire validi elementi di prova in merito alla veridicità delle asserzioni di parte ricorrente e, come si è già detto, costituire elemento di valutazione del complessivo comportamento delle parti.
La protrazione del periodo di sottoutilizzazione e di inattività del ricorrente non può non aver comportato, inoltre, anche una vera e propria dequalificazione professionale, in conseguenza della perdita delle capacità, cognizioni e competenze legate all’attività svolta in precedenza ed al sostanziale stravolgimento e depauperamento del patrimonio professionale acquisito.
Al riguardo è opportuno porre attenzione alla certificazione (in atti), datata 9.4.98, a firma di S. P., relativa alle mansioni espletate dal L.P. fino a quella data, dal tenore del quale è possibile evincere, oltre alla specifica preparazione del dipendente, il notevole grado di impegno nello svolgimento dell’attività lavorativa. Tutto ciò difficilmente si concilia con il successivo stato di inattività del ricorrente, che non può essere unicamente ricondotto ad una scelta volontaria, quanto, piuttosto al decadimento dei rapporti fra le parti e all’inadempimento del datore di lavoro (e, per esso, del direttore generale dell’Ente) al proprio obbligo di non adibire il lavoratore a mansioni dequalificanti o costringerlo a forzata inattività. Un atteggiamento ostile del dipendente o il suo impegno in qualità di rappresentante sindacale non possono certamente incidere fino al punto di vanificare tale obbligo che il datore di lavoro è comunque tenuto a provare di avere assolto.
Ne può riconoscersi alcuna influenza alla circostanza delle assenze del ricorrente per malattia pur protratte, a volte, per diversi giorni poiché ciò non elide di certo l’obbligo del datore di lavoro di utilizzare (se non valorizzare) le energie lavorative del dipendente, nei periodi di presenza nel posto di lavoro.
Infine, dal tenore delle contestazioni disciplinari rivolte al dipendente, sebbene non emerga che i relativi procedimenti siano stati posti in essere solo a fini persecutori, si evince un atteggiamento di particolare rigore (e, a volte, di zelo veramente eccessivo). Appare indicativo, al riguardo, il procedimento disciplinare per violazione dei doveri di comportamento di cui agli art. 23 comma 2 e 25 comma 5 lett. g, l ed m del CCNEL 1995, sorto a seguito della richiesta, inviata al sindaco p.t. e al segretario generale, dal L.P., quale r.s.u. FADEL in data 12.5.99, di porre essere gli adempimenti di legge in seguito alla emissione di sentenza dichiarativa di fallimento nei confronti di un consigliere comunale, ove ciò fosse motivo di decadenza.
Sulla scorta del quadro probatorio descritto non può non essere riconosciuto, in favore del ricorrente, il diritto al risarcimento del danno, di carattere non patrimoniale, alla professionalità. Tale danno attiene, infatti, alla lesione (sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale) di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione ed ha ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e qualifica spettategli per legge o per contratto. I provvedimenti del datore che illegittimamente ledono tale diritto hanno quale conseguenza la lesione dell’immagine professionale, della dignità personale e della vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima ed eterostima nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare sia in termini di perdita di chances per lavori di pari livello (Cass. sez. lav n. 10157/2004). La valutazione di siffatto pregiudizio, che, come già evidenziato, è privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata in via equitativa. Orbene, in considerazione della protrazione nel tempo del subito demansionamento, della consistenza (in termini di pianta organica) dell’ambiente lavorativo e del tipo di relazioni, con i colleghi di lavoro e con il pubblico, sulle quali tale situazione ha negativamente inciso, appare equo quantificare il danno subito dal ricorrente in una somma pari a n. 24 retribuzioni, da commisurarsi all’ultima retribuzione globale di fatto (utilizzata quale mero riferimento della valutazione equitativa).
Nel corso del giudizio è stata, inoltre espletata consulenza tecnica d’ufficio, al fine di accertare se il ricorrente avesse anche subito un danno biologico quale conseguenza del suddetto demansionamento. In atti, inoltre, è stata versata la certificazione medica relativa a patologie insorte successivamente all’inizio delle condotte sopra esaminate e prima dell’instaurazione del presente giudizio. Il consulente tecnico, sulla scorta di un’analisi della documentazione in atti e di quella ulteriore acquisita dalle parti, nonché attraverso l’esame diretto del ricorrente, ha evidenziato (negli elaborati peritali, ai quali per completezza integralmente si rimanda) che il ricorrente è affetto da “disturbo post traumatico da stress protratto, grave, in soggetto con preesistenti tratti di personalità, per alcuni aspetti, poco adattativi”. A parere del consulente fa specifica condizione di sofferenza si è risolta in una vera e propria lesione della sfera psichica, valutabile come un danno incidente, a titolo indicativo, nella misura del 20-25%.
Vi è da rilevare al riguardo che il c.t.u. ha ritenuto di diminuire la quantificazione del danno (riducendola nella misura del 15%) in considerazione della personalità del ricorrente e di situazioni, preesistenti o concomitanti, attinenti alla sua sfera personale, alle quali ha riconosciuto valore di concausa naturale nella determinazione del danno. Ritiene il giudice di non poter aderire a tale impostazione, poiché, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., applicabili in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, “qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità” (Cass. sez. lav. n. 5539/2003). Non è possibile, pertanto, una volta accertata l’effettiva operatività del nesso causale fra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato, effettuare alcuna graduazione in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, dovendo ritenersi il danneggiante responsabile per l’intero dei danni cagionati.
Individuato il danno biologico subito dal ricorrente nella percentuale del 20%, deve, pertanto, procedersi alla sua quantificazione in termini risarcitori.
Tenuto conto del tipo di patologia riportata e dell’età del soggetto leso all’epoca di presentazione del ricorso (54 anni), posto in relazione il concreto evento biologico con il quadro completo delle funzioni vitali in cui poteva e potrà estrinsecarsi l’efficienza psico-fisica del danneggiato (cfr. Cass. n. 2008/93 e n. 4255/95), si ritiene equo liquidare il danno personale patito dal ricorrente nella misura di € 25.320,00, a titolo di risarcimento del danno derivante da lesione permanente dell’integrità psico-fìsica. Si perviene a tale valore opportunamente adattando il valore monetario base del punto di invalidità (secondo la tabella adottata da questo Tribunale) in funzione aritmeticamente decrescente rispetto all’età del danneggiato (54 anni), ed in funzione geometricamente crescente rispetto all’entità dei postumi, nel caso in esame pari al 20% (cfr. elaborato peritale).
Il ricorso sul punto deve, pertanto essere accolto, e i resistenti devono essere condannati al pagamento, in solido, in favore del ricorrente, della somma sopra indicata a titolo di risarcimento del danno biologico.
Su tale somma, già rivalutata, devono essere computati gli interessi c.d. compensativi, che si ritiene equo liquidare nella misura del tasso legale da computarsi sulla predetta somma devalutata sulla base dell’applicazione degli indici ISTAT e successivamente ed annualmente rivalutata, “...solo con riferimento ed a partire da ciascuna annualità” (così Cass. SS.UU. n. 1712/95;. cfr. Cass. n. 5814/85) e per tutto il periodo della sua indisponibilità, con decorrenza dalla data della domanda e sino alla data della pubblicazione della sentenza. Sulla somma così determinata, inoltre, vanno riconosciuti gli interessi legali dal giorno della pubblicazione della sentenza sino al saldo.
Non ritiene, questo giudice che, nel caso esame, sia stata fornita la prova del c.d. danno esistenziale, da considerarsi quale autonoma voce di danno. Sotto tale definizione, appaiono, invero potersi ricomprendere tutte le lesioni di carattere non patrimoniale (lesioni alle attività realizzatrici della persona umana), esulanti dal danno biologico, o dagli aspetti del danno morale. Di tale danno, nella presente sede, non può dirsi raggiunta la prova, a differenza di quanto rilevato ai finì del riconoscimento del danno alla professionalità (ove non lo si ritenesse coincidente, in tutto o in parte, con il danno esistenziale) e del danno biologico, inteso quale lesione dell’integrità psico-fisica.
Inaccoglibile appare anche la richiesta di risarcimento del danno “morale”, pure formulata in ricorso, poiché la domanda è del tutto sfornita di prova.
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo e da distrarsi, seguono la sostanziale soccombenza delle parti resistenti.

P.Q.M.

Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, istanza ed eccezione disattese, così provvede:
- condanna i resistenti, in solido, al pagamento, in favore del ricorrente della somma di € 25.320,00, a titolo di risarcimento del danno biologico da demansionamento e dequalificazione professionale, oltre agli interessi nella misura del tasso legale da computarsi sulla predetta somma devalutata sulla base dell’applicazione degli indici ISTAT e successivamente ed annualmente rivalutata e per tutto il periodo della sua indisponibilità, con decorrenza dalla data della domanda e sino alla data della pubblicazione della sentenza. Sulla somma così determinata, inoltre, vanno riconosciuti gli interessi legali dal giorno della pubblicazione della sentenza sino al saldo;
- condanna i resistenti, in solido, al pagamento, in favore del ricorrente dell’ulteriore somma, pari a n. 24 retribuzioni commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di risarcimento del danno alla professionalità, oltre interessi dalla proposizione della domanda giudiziale al saldo;
- rigetta ogni altra domanda;
- condanna i resistenti, in solido, al pagamento, in favore del ricorrente delle spese processuali che si liquidano in complessivi € 3.100,00, di cui € 2.000,00 per onorari ed € 1.100,00 per diritti, oltre IVA, CPA ed accessori come per legge da distrarsi ai sensi dell’art. 93 cpc.

Castrovillari, 20.4.2006 (letto in udienza alle ore 14,00)

IL GIUDICE
dott.ssa Carmen M.R. Ciarcia