Responsabilità del legale rappresentante di una s.n.c. per lesioni colpose gravi in danno di un lavoratore precipitato da un parapetto.

I giudici di merito hanno ritenuto accertato che l'imputato si fosse reso responsabile del reato contestatogli perchè, avendo avuto in appalto l'esecuzione di lavori di coibentazione dei balconi di un edificio poi subappaltati alla persona offesa, aveva omesso la valutazione del rischio di caduta e aveva dotato il terrazzo di un parapetto inidoneo perchè dotato di un solo corrente intermedio e sprovvisto di tavola fermapiede.

Condannato dunque in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione -  Ricorso inammissibile.

Il ricorrente contesta, in particolare, sotto vari profili, anche fattuali, deducendo sia vizi di violazione di legge che vizi attinenti alla motivazione, l'esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con la persona offesa e l'affermazione del conseguente obbligo, da parte sua, di porre in atto tutte le misure di protezione idonee ad evitare il verificarsi di eventi del tipo di quello in concreto avvenuto.

Ma si tratta di censura infondata. Non corrisponde al vero, infatti, che la Corte di merito si sia sottratta al compito di fornire la dimostrazione della natura subordinata del rapporto con la persona offesa.

Aggiunge la Corte: "Ma se anche potesse ritenersi accertato che D. prestava la propria opera in esecuzione di un contratto d'appalto (ma sembra più appropriato parlare di contratto d'opera) non per questo sarebbero venuti meno gli obblighi del committente di assicurare che la prestazione di lavoro avvenisse in luogo protetto e privo di pericoli per la sicurezza.
Risulta infatti dalle sentenze di merito che ci si troverebbe comunque in presenza di un contratto il cui oggetto era costituito dai lavori di impermeabilizzazione dei balconi.
Se l'oggetto del contratto d'opera era questo - nè risulta, dagli accertamenti svolti dal giudice di merito, che il regolamento contrattuale prevedesse anche la predisposizione delle misure di prevenzione nei luoghi di lavoro - ne consegue che competeva al committente tale predisposizione per garantire la sicurezza di chi, in questo luogo, si trovasse a prestare la propria attività, qualunque fosse il titolo in base al quale ciò avveniva.
E anche se il contratto dovesse essere qualificato come appalto ne conseguirebbe l'applicazione al caso di specie della disciplina prevista
dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, comma 2 che prevede un obbligo di cooperazione e coordinamento tra appaltante e appaltatore nell'attuazione delle misure di prevenzione e protezione.
Anzi, per il comma 3 di questa norma, incombe sul datore di lavoro committente promuovere la cooperazione e il coordinamento.
E questo obbligo deve ritenersi escluso soltanto nel caso previsto dall'art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l'obbligo per il datore di lavoro committente per i "rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi");
esclusione che va riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine.
Come è ovvio non può quindi considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze."


 

 


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente -
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere -
Dott. BRUSCO Carlo Giusepp - Consigliere -
Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
1) G.V. N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 05/07/2005 CORTE APPELLO di BOLOGNA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. BRUSCO CARLO GIUSEPPE;
sentito il Procuratore Generale, in persona del Dott. DELEHAYE Enrico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte:

FattoDiritto



1) La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza 5 luglio 2005, ha rigettato l'appello proposto contro la sentenza 22 gennaio 2003 del Tribunale di Forlì, sez. dist. di Cesena, che aveva condannato G.V. (legale rappresentante della s.n.c. Fratelli G.) alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di lesioni colpose gravi in danno di D.M. - che il 12 giugno 2001 aveva subito un infortunio sul lavoro in Cesena - e per le contravvenzioni di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27.


I giudici di merito hanno ritenuto accertato che l'imputato si fosse reso responsabile del reato contestatogli perchè, avendo avuto in appalto l'esecuzione di lavori di coibentazione dei balconi di un edificio poi subappaltati alla persona offesa, aveva omesso la valutazione del rischio di caduta e aveva dotato il terrazzo di un parapetto inidoneo perchè dotato di un solo corrente intermedio e sprovvisto di tavola fermapiede.


D., nel corso dell'esecuzione dei lavori, si era appoggiato al parapetto - che non aveva retto il peso - ed era precipitato al suolo subendo lesioni gravi.

In particolare la Corte ha ritenuto che il lavoratore infortunato - già dipendente della società f.lli G. dalla quale si era dimesso il 12 giugno 2001 - non fosse in realtà un lavoratore autonomo ma un lavoratore subordinato;
in ogni caso, secondo i giudici di secondo grado, indipendentemente dalla natura del rapporto, G. era tenuto ad assicurare la sicurezza del luogo di lavoro e a questo obbligo era venuto meno.


2) Contro la sentenza della Corte bolognese ha proposto ricorso G.V. il quale ha dedotto, con il primo motivo, la violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, dell'art. 192 e art. 606, comma 1, lett. c) ed e) del codice di rito nonchè il vizio di motivazione per manifesta illogicità e travisamento del fatto.
Secondo il ricorrente la sentenza impugnata avrebbe immotivatamente ritenuto che il rapporto di lavoro tra la società f.lli G. e il lavoratore infortunato avesse natura subordinata senza indicare da quali elementi si potesse trarre questo convincimento.
Questa affermazione sarebbe comunque in contrasto con tutti gli elementi acquisiti al processo indicativi, al contrario, della completa autonomia delle prestazioni di D.:
questi aveva confermato che si era dimesso per sua esclusiva volontà;
si era rivolto personalmente ad un'organizzazione sindacale di artigiani per il disbrigo delle pratiche necessarie per lo svolgimento di un'attività lavorativa autonoma;
aveva emesso due fatture, una nei confronti della ditta G. e un'altra per un diverso lavoro procurato dalla medesima ditta del ricorrente ma svolto in completa autonomia;
non era affatto provato che avesse continuato a segnare le ore di lavoro e che utilizzasse i mezzi e i materiali della ditta G..

 

Con il secondo motivo di ricorso si deduce invece la violazione dell'art. 521 c.p.p., in relazione all'affermazione della irrilevanza della natura subordinata del rapporto, perchè se fosse ritenuta la responsabilità per un titolo diverso si avrebbe una completa immutazione dei presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento dell'imputazione;
in questo caso, inoltre, non si sarebbe tenuto conto della necessità di svolgere indispensabili accertamenti (chi fosse il proprietario dello stabile, l'individuazione del direttore dei lavori e di chi avesse installato la struttura in questione).

Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per la violazione dell'art. 1656 c.c., artt. 40 e 590 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, art. 5 e si deduce il vizio di motivazione perchè i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del fatto che l'esistenza di un contratto di subappalto rendeva il subappaltatore, dotato di autonomia tecnica ed organizzativa, l'unico soggetto tenuto a garantire l'osservanza delle regole di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, anche perchè il committente alcuna ingerenza aveva svolto nell'esecuzione del lavoro;
tanto più che l'infortunio è ricollegabile all'uso di un parapetto non appartenente alla ditta G. e non montato da questa bensì da altro appaltatore (ditta Z.) come riferito dai testimoni.


Il quarto motivo si riferisce invece alla violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27 perchè queste violazioni sono riferibili soltanto a datori di lavoro, dirigenti e preposti per cui, ove non venisse riconosciuta la natura subordinata del rapporto non potrebbero essere addebitate al subappaltante.

Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell'art. 40 c.p. e degli artt. 192 e 521 c.p.p., nonchè l'errato apprezzamento delle risultanze processuali, con riferimento al mancato accertamento della dinamica del fatto e senza che si fosse tenuto conto che il terrazzo sottostante era dotato di un parapetto regolarmente installato;
inoltre la sentenza impugnata avrebbe modificato il capo d'imputazione - con il quale si contestava di aver installato un solo corrente - ritenendo invece irrilevante che ve ne fossero due.

Con l'ultimo motivo si censura infine la sentenza impugnata per la mancata considerazione che l'infortunato era stato dotato di una cintura di sicurezza (come dal medesimo riconosciuto) e ciò doveva condurre all'esclusione della responsabilità del ricorrente o, quanto meno, al riconoscimento di un concorso di colpa della persona offesa.
Il ricorrente in conclusione chiede l'accoglimento del ricorso e, in particolare, che vengano annullati anche i capi della sentenza impugnata che si riferiscono alle statuizioni civili.

3) Il ricorso, salvo quanto si dirà più avanti in relazione alle contravvenzioni contestate, è infondato e anzi inammissibile nelle parti in cui propone una diversa ricostruzione dei fatti.

I motivi di ricorso possono peraltro essere congiuntamente esaminati per la stretta connessione tra le varie censure proposte.


Va anzitutto premesso che il ricorrente non contesta che il parapetto che recingeva il terrazzo non fosse stato installato in osservanza delle regole indicate nel D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27 anche se lamenta (quinto motivo) il mancato accertamento della dinamica del fatto che, al contrario, risulta essere stata accertata dai giudici di merito (l'infortunato si era appoggiato al parapetto per verificare la correttezza del lavoro svolto e il parapetto aveva ceduto).
Mentre irrilevanti devono ritenersi le circostanza sull'esistenza di uno o due correnti e quella relativa alla correttezza dell'installazione in altri piani.
Ma il ricorrente contesta in particolare sotto vari profili, anche fattuali, deducendo sia vizi di violazione di legge che vizi attinenti alla motivazione, l'esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con la persona offesa e l'affermazione del conseguente obbligo, da parte sua, di porre in atto tutte le misure di protezione idonee ad evitare il verificarsi di eventi del tipo di quello in concreto avvenuto.


Ma si tratta di censura infondata.

 

Non corrisponde al vero, infatti, che la Corte di merito si sia sottratta al compito di fornire la dimostrazione della natura subordinata del rapporto con la persona offesa.
Ha infatti richiamato la circostanza che D., già dipendente della ditta di cui l'imputato era titolare, aveva sostanzialmente proseguito l'attività con le modalità precedenti - pur avendo aperto una ditta artigiana a lui intestata - perchè era privo di autonomia, riceveva ordini dall'imputato di cui utilizzava le attrezzature, il mezzo di trasporto e il materiale.
Del resto la sentenza di primo grado, espressamente richiamata da quella di appello, indica ulteriori elementi significativi della subordinazione del rapporto precisando le relative fonti di prova (per l'es. la circostanza che l'infortunato tenesse una scheda con l'indicazione delle ore lavorate e che, lo stesso giorno dell'infortunio, avesse viaggiato con un documento di accompagnamento intestato non a lui ma alla ditta di G.).
Nè può dirsi che non siano state indicate le fonti di prova perchè è stato proprio un dipendente dell'imputato a riferire che ogni mattina D. si presentava presso la sede della ditta per ricevere istruzioni, prelevava il materiale necessario per il lavoro e veniva avviato ai vari cantieri.
Trattasi di valutazione incensurabile nel giudizio di legittimità perchè adeguatamente motivata sull'esistenza del contestato rapporto di lavoro subordinato ed esente da alcuna illogicità.


4) Ma se anche potesse ritenersi accertato che D. prestava la propria opera in esecuzione di un contratto d'appalto (ma sembra più appropriato parlare di contratto d'opera) non per questo sarebbero venuti meno gli obblighi del committente di assicurare che la prestazione di lavoro avvenisse in luogo protetto e privo di pericoli per la sicurezza.
Risulta infatti dalle sentenze di merito che ci si troverebbe comunque in presenza di un contratto il cui oggetto era costituito dai lavori di impermeabilizzazione dei balconi.
Se l'oggetto del contratto d'opera era questo - nè risulta, dagli accertamenti svolti dal giudice di merito, che il regolamento contrattuale prevedesse anche la predisposizione delle misure di prevenzione nei luoghi di lavoro - ne consegue che competeva al committente tale predisposizione per garantire la sicurezza di chi, in questo luogo, si trovasse a prestare la propria attività, qualunque fosse il titolo in base al quale ciò avveniva.
E anche se il contratto dovesse essere qualificato come appalto ne conseguirebbe l'applicazione al caso di specie della disciplina prevista dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, comma 2 che prevede un obbligo di cooperazione e coordinamento tra appaltante e appaltatore nell'attuazione delle misure di prevenzione e protezione.
Anzi, per il comma 3 di questa norma, incombe sul datore di lavoro committente promuovere la cooperazione e il coordinamento.
E questo obbligo deve ritenersi escluso soltanto nel caso previsto dall'art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l'obbligo per il datore di lavoro committente per i "rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi");
esclusione che va riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine.
Come è ovvio non può quindi considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze.


5) Ma il ricorrente propone un'ulteriore eccezione a questa soluzione nel caso in cui venisse riconosciuta la natura autonoma del rapporto sostenendo che, essendo stata a lui contestata la violazione dei doveri inerenti la natura subordinata del rapporto, ove se ne assumesse invece la natura autonoma si verificherebbe violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di condanna.
Ma anche questa eccezione è infondata e viene esaminata esclusivamente per ragioni di completezza essendo sufficiente a fondare la condanna l'accertamento incensurabile del giudice di merito sulla natura subordinata del rapporto.
Com'è noto la giurisprudenza di legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato lo scostamento indicato, l'esistenza della violazione del principio in questione è costituito dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l'imputato deve avere avuto, in concreto, la possibilità di difendersi dall'addebito contestatogli.
Si ha dunque il rispetto del principio nei casi in cui della violazione poi ritenuta in sentenza si sia trattato nelle varie fasi del processo ovvero in quelli nei quali sia stato lo stesso imputato ad evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa (si vedano in questo senso, da ultimo, Cass., sez. 4^, 15 gennaio 2007 n. 10103, Granata, rv. 236099; sez. 2^, 23 novembre 2005 n. 46242, Mignatta, rv. 232774; sez. 4^, 17 novembre 2005 n. 2393, Tucci, rv. 232973; 10 novembre 2005 n. 47365, Codini, rv. 233182; 25 ottobre 2005 n. 41663, Canonizzo, rv. 232423; 4 maggio 2005 n. 38818, De Bona, rv. 232427; sez. 1^, 10 dicembre 2004 n. 4655, Addis, rv. 230771).
Naturalmente non deve trattarsi di fatto completamente diverso ed eterogeneo in cui l'imputazione venga immutata nei suoi elementi essenziali (v. Cass., sez. 1^, 14 aprile 1999 n. 63 02, Iacovone; sez. 6^, 14 gennaio 1999 n. 2642, Catone).
E' inoltre indiscusso che, se effettivamente verificatasi, la nullità è di ordine generale a regime intermedio e deve essere dedotta nei limiti previsti dagli artt. 180 e 182 c.p.p. (in questo senso v. Cass., sez. 2^, 17 maggio 2006 n. 19585, Antonuccio, rv.234199; sez. 4^, 29 novembre 2005 n. 14180, Pelle, rv. 233952; sez. 5^, 28 settembre 2005 n. 44008, Di Benedetto, rv. 232805).
Nel caso in esame è da escludere che si tratti di fatto completamente diverso ed eterogeneo e neppure viene in considerazione il principio, affermato in numerose decisioni di legittimità (tra le quali quelle già ricordate 2393/2005, 47365/2005, 38818/2005) secondo cui, in materia colposa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa non integra la violazione del principio di correlazione in esame.
Per confermare la correttezza della sentenza impugnata è infatti sufficiente rilevare che già nel giudizio di primo grado (p. 2 ss. della sentenza del Tribunale di Forlì) si è discusso ampiamente della natura del rapporto e che la tesi della natura autonoma di tale rapporto ¨¨ proprio quella sostenuta fin dall'inizio dell'imputato.
Deve quindi concludersi che, se anche dovesse ritenersi verificato lo scostamento avvenuto in concreto non vi sarebbe stata alcuna lesione del diritto di difesa essendosi, di questa violazione, ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado ed avendo avuto l'imputato ampie garanzie e possibilità difensive sul punto in questione relativo ad un inquadramento del rapporto da lui proposto come tesi difensiva.


6) E' infine infondato il motivo di ricorso relativo alla mancanza di motivazione sul concorso di colpa dell'infortunato.
Su questo punto va premesso che la censura va intesa in relazione all'esercizio dell'azione civile nel processo penale perchè, per quanto attiene all'accertamento della responsabilità penale, il concorso di colpa della persona offesa è giuridicamente irrilevante, potendo, al più, avere rilievo ai fini della determinazione della pena quando influisca sul grado della colpa dell'imputato.
Per quanto riguarda invece il rilievo del problema ai fini del risarcimento del danno cagionato dall'imputato deve osservarsi che il concorso di colpa del lavoratore non è ipotizzabile in ogni caso in cui egli abbia commesso un errore nell'esecuzione del lavoro.
La funzione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro è infatti principalmente quella di evitare le conseguenze degli errori commessi dai lavoratori - per inesperienza, negligenza, eccessiva sicurezza, disattenzione ecc. - per cui non appare giuridicamente configurabile un concorso di colpa del lavoratore nel caso di violazione, da parte di altre persone, di norme espressamente dirette a prevenire proprio le conseguenze di tali suoi comportamenti colposi.
E ciò anche se il lavoratore abbia acconsentito a prestare la sua attività in situazione di pericolo, in considerazione dell'indisponibilità del diritto alla salute.
Ma poichè gli obblighi di prevenzione gravano anche sui lavoratori (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 6) va comunque sottolineato che soltanto nel caso in cui l'infortunato abbia volontariamente trasgredito alle disposizioni del datore di lavoro, o abbia adottato di sua iniziativa modalità pericolose di esecuzione del lavoro, potrà affermarsi, ai fini civilistici che interessano, l'eventuale suo concorso di colpa.
Nel caso accertato dal giudice di merito non era ipotizzabile una colpa del lavoratore che non aveva l'obbligo di predisporre le misure di prevenzione ma quello di osservare le cautele predisposte dal datore di lavoro il quale, nel caso in esame, per quanto si è detto in precedenza, non aveva a tale obbligo adempiuto.
Nè può dirsi che il lavoratore abbia trasgredito alle disposizioni impartitegli perchè egli si è limitato, e ciò non è da alcuno contestato, ad eseguire i compiti assegnatigli con le modalità prescritte.
D'altro canto il mancato uso delle cinture di sicurezza, nel caso in esame, non consegue ad una volontà inosservante delle disposizioni del datore di lavoro ma all'affidamento sulla solidità delle strutture in cui l'infortunato prestava la sua attività.

 


7) Il ricorso proposto deve dunque essere rigettato quanto all'imputazione relativa al delitto di lesioni colpose.
Dato il tempo trascorso il reato di cui al capo A) d'imputazione (contravvenzioni di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27) è invece da ritenere ormai prescritto essendo ampiamente decorso il termine massimo di anni quattro e mesi sei e non essendo intervenute cause di sospensione del decorso del termine.
Il reato indicato deve dunque essere dichiarato estinto per tale causa e la pena rideterminata come in dispositivo con l'eliminazione dell'aumento determinato dal primo giudice per l'affermazione del concorso formale.


P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo A) della rubrica perchè estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di giorni dieci di reclusione sostituita in Euro 380,00 di multa;
rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2008