Responsabilità del responsabile di uno stabilimento per omicidio colposo in danno di un dipendente della sua società: quest'ultimo infatti aveva contratto una malattia professionale (epatopatia cirrogena da sostanze tossiche) che lo aveva portato alla morte.

 

"Secondo la tesi d'accusa, condivisa dal tribunale, l'imputato, violando le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e relative all'igiene del lavoro (D.P.R. n. 303 del 1956, artt. 4 e 20, e D.P.R. n. 547 del 1955, art. 387), aveva consentito, ovvero non aveva impedito, che il D.C., assunto nel 1982 senza la preventiva visita medica, e riconosciuto, qualche tempo dopo, non idoneo a lavori che lo esponessero ad epatotossici, fosse adibito a lavori di vulcanizzazione ed operasse, almeno sino alla fine dell'anno 1989, senza i prescritti mezzi di protezione (maschere respiratorie di gomma con filtro intercambiabile), benchè nel luogo di lavoro non vi fosse impianto di captazione e smaltimento dei vapori."
 

Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Rigetto.

 

Il ricorrente lamentava che in altro procedimento egli fosse stato assolto per il reato di lesione personale colposa per il medesimo fatto quando la vittima era ancora in vita e invoca a tal proposito l'art. 649 c.p.p. in forza del divieto di nuovo giudizio.

La Corte afferma invece che: "In realtà, la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. (che riproduce, sostanzialmente, il disposto dell'art. 90 del codice previgente) deve ritenersi operativa solo allorchè, contro lo stesso imputato, si proceda "per il medesimo fatto", situazione riconoscibile solo con riguardo ai casi in cui sia possibile riscontrare completa identità di tutti gli elementi di cui i fatti, oggetto di diversi procedimenti penali, si compongono, e cioè, la condotta, il nesso causale e l'evento.

La norma richiamata, dunque, non può trovare applicazione nei casi in cui la condotta dell'imputato, già valutata rispetto ad un determinato evento, in relazione a specifica violazione di legge, venga riesaminata, per l'insorgere di un successivo e diverso evento, con riguardo ad altra violazione di legge" come nel caso in questione. 


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROMIS Vincenzo - Presidente -

Dott. FOTI Giacomo - Consigliere -

Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -

Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza


 sul ricorso proposto da:
 1) S.S., N. IL (OMISSIS);
 avverso SENTENZA del 15/06/2006 CORTE APPELLO LECCE SEZ. DIST. di TARANTO;
 visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
 udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. FOTI GIACOMO;
 Udito il Procuratore Generale in persona della Dott.ssa DE SANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
 udito, per la parte civile, l'Avv. MORAFIATI, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
 udito il difensore dell'imputato e del responsabile civile, Avv.to Castronovo, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.        

 

FattoDiritto

 


1. Con sentenza dell'8 giugno 2004, il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, ha dichiarato S.S. - in qualità di responsabile dello stabilimento di (OMISSIS) della "N. R. S. s.r.l." e, in precedenza, della "R. S. s.r.l."- colpevole del delitto di omicidio colposo, commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per avere cagionato, per colpa, la morte di D.C.V., dipendente della società, e lo ha condannato alla pena di un anno di reclusione nonchè, in solido con il responsabile civile, al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

 

Secondo la tesi d'accusa, condivisa dal tribunale, l'imputato, violando le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e relative all'igiene del lavoro (D.P.R. n. 303 del 1956, artt. 4 e 20, e D.P.R. n. 547 del 1955, art. 387), aveva consentito, ovvero non aveva impedito, che il D.C., assunto nel 1982 senza la preventiva visita medica, e riconosciuto, qualche tempo dopo, non idoneo a lavori che lo esponessero ad epatotossici, fosse adibito a lavori di vulcanizzazione ed operasse, almeno sino alla fine dell'anno 1989, senza i prescritti mezzi di protezione (maschere respiratorie di gomma con filtro intercambiabile), benchè nel luogo di lavoro non vi fosse impianto di captazione e smaltimento dei vapori.
Tale condotta aveva determinato l'insorgenza di una malattia professionale (epatopatia cirrogena da sostanze tossiche) che aveva condotto il D.C. a morte, sopraggiunta il (OMISSIS) per shock emorragico da sanguinamento di varici esofagee correlato a una grave condizione di cirrosi epatica.
 

 

Avverso tale sentenza ha proposto appello l'imputato che, in via principale, ha chiesto dichiararsi improcedibile l'azione penale per precedente giudicato, in relazione alla sentenza irrevocabile emessa il 17.4.2000 dalla corte d'Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che aveva assolto il S. dal reato di lesioni colpose ai danni dello stesso D.C..
I due procedimenti, ha sostenuto l'appellante, avevano ad oggetto lo stesso fatto, pur se oggetto del presente procedimento è il decesso del D.C., posto che, in ambedue i casi, identici sarebbero la condotta, l'effetto ed il nesso causale.

A giudizio dell'appellante, la tesi del primo giudice, secondo cui l'evento morte era ricollegabile non solo all'insorgenza della patologia, ma soprattutto alla complessiva condotta dell'imputato, anche con riferimento all'aggravamento della malattia, non poteva essere condivisa, posto che nel capo d'imputazione espressamente si richiama "l'insorgenza di una malattia" che aveva portato il lavoratore alla morte".

Detta tematica, ha soggiunto l'appellante, era già stata oggetto d'esame nel precedente procedimento, in esito al quale quel giudice aveva assolto l'imputato per non avere commesso il fatto, di guisa che, l'ulteriore pronuncia sul punto, costituirebbe violazione del principio di cui all'art. 649 c.p.p..
Nel merito, il S. ha rilevato la totale assenza di profili di colpa a suo carico, posto che lo stabilimento di cui egli era responsabile era stato dotato di mezzi di protezione collettivi (macchine aspiratrici) ed i singoli dipendenti di protezioni individuali (mascherine protettive); ha segnalato, altresì, che nessun altro compito avrebbe potuto affidarsi al D.C..

In tema di nesso causale, l'appellante ha rilevato che l'affezione epatica di cui era affetta la vittima, non aveva origine tossica, bensì virale, contratta in data antecedente la sua assunzione.

Il prof. St., perito nel procedimento per lesioni colpose, e teste nel presente processo, ha sostenuto, ancora, l'appellante, era giunto a conclusioni del tutto diverse rispetto a quelle dei consulenti di parte nominati dal PM nel presente giudizio, quanto all'insorgenza della patologia tossica, alla sua natura primaria (virale o tossica) ed al nesso eziologico tra l'attività lavorativa ed il decesso del D.C.; nel senso che non avrebbe potuto affermarsi con certezza quando e per quale causa la malattia era insorta.

Alla stregua di tali valutazioni, quindi, non era possibile, a giudizio dell'appellante, qualificare l'incidenza causale della condotta colposa attribuita all'imputato rispetto all'evento. Egli ha, quindi, formulato ulteriori e subordinati motivi di censura con riguardo alla pena ed all'esigenza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale al fine di procedere a nuova perizia che sanasse il contrasto tra le opposte tesi formulate dagli esperti diversamente e variamente intervenuti.
 

Con sentenza del 15 giugno 2006, la Corte d'Appello di Taranto, sezione distaccata della Corte d'Appello di Lecce ha confermato, in punto di responsabilità, la sentenza di primo grado, sol riducendo ad otto mesi di reclusione la pena inflitta dal primo giudice, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante contestata.
 

Quanto al principale motivo di doglianza, ha rilevato la corte territoriale l'inapplicabilità al caso di specie del divieto di cui all'art. 649 c.p.p. posto che la richiamata sentenza, della stessa Corte, del 17.4.2000, non aveva ad oggetto il "medesimo fatto", essendo diverso l'evento oggetto del presente procedimento, costituito non più dalle lesioni cagionate al D.C. dalla precedente condotta ascritta all'imputato, bensì dal decesso dello stesso, causato, secondo la predetta Corte, dall'ulteriore colpevole condotta dello stesso imputato che aveva provocato un aggravamento delle condizioni di salute del dipendente, che ne aveva cagionato la morte.
I due procedimenti, quindi, non avevano ad oggetto lo "stesso fatto" nè sotto il profilo della condotta, nè sotto quello dell'evento.

Mentre nel procedimento per le lesioni, il S. era stato assolto con riferimento all'insorgenza della malattia, non già in relazione alle condotte che avevano determinato l'aggravamento della stessa (epatopatia cirrogena), e solo per il decorso del tempo era stata dichiarata l'improcedibilità dell'azione penale per intervenuta prescrizione in sede di gravame; sicchè, sul punto, ha sostenuto ancora il giudice dell'impugnazione, si era affermata la responsabilità dell'imputato quanto all'aggravamento delle condizioni di salute del D.C..
Le condotte penalmente rilevanti di cui l'imputato si era reso responsabile non si erano esaurite, a giudizio della Corte territoriale, con i comportamenti accertati nel precedente giudizio, posto che per un lungo periodo il S. - pur consapevole della grave patologia di cui era affetto il lavoratore, giudicato non idoneo ai lavori che lo esponevano ad epatotossici - aveva continuato ad assegnarlo alle medesime pericolose mansioni.

I giudici del merito hanno ricordato, altresì, l'assenza ovvero l'insufficienza, fino al 1988, dei sistemi di aspirazione dei fumi e delle polveri, provocati dalla lavorazione, fortemente nocivi alla salute; ed ancora, la fornitura ai lavoratori solo a partire dal 1989 delle mascherine individuali protettive. In realtà, le prime misure precauzionali, hanno sostenuto quei giudici, erano state adottate solo dopo i controlli svolti nel 1987/88, di guisa che per diversi anni il D.C. era stato esposto ai fumi ed alle polveri particolarmente dannosi per un soggetto affetto da patologia epatica.

Quanto al nesso causale, la predetta corte ha richiamato le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti del PM che hanno evidenziato la presenza di due fattori in grado di determinare la cirrosi epatica di cui il D.C. era affetto, cioè i solventi, sostanze epatotossiche, e l'infezione da virus dell'epatite B e C, alla stregua della documentazione sanitaria in atti che aveva rivelato la positività ai virus dell'epatite B e C ed una epatopatia da tossici. Secondo i consulenti, il lavoratore era stato colpito prima da quest'ultima malattia, sulla quale si era poi innestata la malattia virale; ciò perchè nel 1985, cioè tre anni dopo l'assunzione alla R.S., egli era stato ricoverato in ospedale e sottoposto ad analisi cliniche che avevano escluso la positività al virus dell'epatite B e C ed avevano evidenziato una "epatite cronica moderatamente attiva da tossici"; solo nel 1994, in occasione di altro ricovero ospedaliero, era stata accertata la positività al virus dell'epatite B e C.

E dunque, a giudizio dei consulenti, sull'epatopatia tossica di partenza, si era in seguito instaurata un'epatite da virus B e C post trasfusionale che certamente aveva contribuito all'evoluzione sfavorevole in cirrosi.

La diagnosi di epatopatia da tossici, risalente al 1985, avrebbe dunque dovuto determinare l'inidoneità del D.C. alle mansioni cui era stato assegnato e la sua destinazione ad altro tipo di lavorazione che non comportasse l'esposizione a sostanze tossiche, anche perchè gli strumenti di protezione, collettivi ed individuali, avrebbero solo potuto ridurre i rischi, ma non garantire un'assoluta protezione al lavoratore.
I giudici del merito non hanno omesso di valutare le diverse conclusioni cui era pervenuto il prof. St., perito nel procedimento per le lesioni, secondo cui non poteva esservi certezza alcuna circa il momento di insorgenza delle patologie virali e tossiche, ed hanno affermato che, in ogni caso, doveva ritenersi rilevante e significativa ai fini della responsabilità dell'imputato, l'omessa predisposizione, da parte dello stesso, di idonee misure precauzionali volte alla tutela della salute del lavoratore che si sapeva, fin dal 1985, affetto da patologie che ne vietavano la destinazione a mansioni che, esponendolo all'esalazione di sostanze altamente tossiche, avrebbero certamente provocato l'aggravarsi delle già precarie condizioni di salute. In particolare, la sentenza ha ricordato che il lavoratore aveva continuato ad espletare mansioni di vulcanizzatore fino al 1995, benchè fosse stato giudicato non idoneo a tali mansioni fin dal 1992.
Di qui la conferma della responsabilità dell'imputato.


Avverso tale sentenza ricorre, per il tramite del difensore, il S. che deduce:
 

a) vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione all'art. 649 c.p.p., e agli artt. 590 e 589 c.p.; sotto tale profilo il ricorrente rileva che la corte territoriale ha ritenuto non operante il divieto di cui all'art. 649 c.p.p., senza tuttavia argomentare in ordine alla segnalata coincidenza tra la contestazione per cui è processo e quella per la quale il S. era stato assolto dal reato di lesioni colpose; detto giudice ha, invero, addebitato all'imputato di avere, con la propria condotta, aggravato la malattia di cui era affetto il lavoratore, senza considerare che la condotta contestata riguardava "l'insorgenza", non l'aggravamento della malattia, ed il successivo decesso; condotta, quella relativa all'insorgenza, già ritenuta insussistente con la richiamata sentenza assolutoria; la sequenza temporale dei fatti, così come contestati, prevede, quindi, soggiunge il ricorrente: la condotta illecita del S., l'insorgenza della malattia ed il decesso, e quindi sia la condotta contestata, sia l'effetto della stessa, sia il nesso causale sarebbero del tutto identici nei due giudizi, donde la violazione del divieto di cui all'art. 649 c.p.p.;
 

b) mancata assunzione di prova decisiva, costituita dal mancato espletamento di perizia medico - legale, previa rinnovazione del dibattimento, diretta a dirimere i contrasti insorti tra i consulenti del PM ed il perito prof. St. circa la individuazione del momento dell'insorgenza della patologia tossica, della sua natura e del nesso eziologico tra l'attività lavorativa ed il decesso del D.C.. In vista di tali contrasti, non si può ancora affermare, con ragionevole certezza, a giudizio del ricorrente, quando e perchè la malattia è insorta, nè è possibile determinare l'incidenza causale della condotta contestata all'imputato rispetto all'evento morte. Incertezze e dubbi che avrebbero potuto essere superati solo da una perizia, che assumerebbe, nel caso di specie, la connotazione di "prova decisiva", in relazione alla quale è consentito il ricorso per Cassazione, ex art. 606 c.p.p., lett. d);
 

c) vizio di motivazione, in relazione alla richiesta di sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria.
Conclude, quindi, il ricorrente, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.
Le parti civili, ritualmente costituitesi, chiedono dichiararsi inammissibile il ricorso.
 

2. Certamente infondato è il primo motivo di ricorso.
 

In realtà, la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. (che riproduce, sostanzialmente, il disposto dell'art. 90 del codice previgente) deve ritenersi operativa solo allorchè, contro lo stesso imputato, si proceda "per il medesimo fatto", situazione riconoscibile solo con riguardo ai casi in cui sia possibile riscontrare completa identità di tutti gli elementi di cui i fatti, oggetto di diversi procedimenti penali, si compongono, e cioè, la condotta, il nesso causale e l'evento.

La norma richiamata, dunque, non può trovare applicazione nei casi in cui la condotta dell'imputato, già valutata rispetto ad un determinato evento, in relazione a specifica violazione di legge, venga riesaminata, per l'insorgere di un successivo e diverso evento, con riguardo ad altra violazione di legge.

Di guisa che deve ritenersi ammissibile instaurare a carico dello stesso imputato un procedimento per il delitto di omicidio colposo, quando si sia in precedenza già proceduto per il delitto di lesioni colpose che abbiano successivamente determinato la morte.

In tale ipotesi, invero, non ci si trova al cospetto di un "medesimo fatto", in considerazione della diversità degli eventi oggetto dei diversi procedimenti.
La lettera dell'art. 649 c.p.p., del resto, è estremamente chiara nel limitare l'effetto preclusivo del giudicato ai casi in cui il nuovo procedimento ha per oggetto "il medesimo fatto" su cui ha statuito la precedente sentenza irrevocabile; le sentenze di questa Corte che hanno affrontato il tema hanno sempre affermato che l'espressione "medesimo fatto", rispetto al quale ha statuito la precedente sentenza irrevocabile, va riferita a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, rappresentati, appunto, dalla condotta, dall'evento e dal nesso causale e che, in conseguenza, la diversità di taluni di essi determinerebbe la non operatività della preclusione (Cass. n. 2344/95, n. 10097/06, n. 15578/06, SU n. 34655/05).
A tali principi si è correttamente richiamata la Corte territoriale, laddove ha sostenuto che certamente diversi, sotto il profilo dell'evento, erano i "fatti" oggetto dei due procedimenti; del tutto legittima e coerente rispetto agli elementi probatori acquisiti, deve ritenersi la successiva affermazione secondo cui alla diversità dell'evento si è aggiunta, nel caso di specie, anche la diversità delle condotte incriminate, riferite, nel presente procedimento, non all'insorgenza, bensì all'aggravamento della malattia. Legittimamente, inoltre, i giudici dell'impugnazione hanno ricordato che il tema dell'aggravamento delle condizioni di salute del D.C. era stato affrontato anche nel precedente procedimento (che pure aveva escluso la responsabilità del S. quanto all'insorgenza della malattia) che l'aveva risolto in termini di responsabilità dell'imputato per il contestato delitto di lesioni, in appello dichiarato estinto per prescrizione.
Non proponibile in sede di legittimità, neanche alla stregua delle modifiche legislative apportate all'art. 606 c.p.p., con la L. n. 46 del 2006, è il secondo motivo di ricorso, attraverso il quale il ricorrente, in sostanza, propone una rilettura dei fatti, tra l'altro assumendo un insanabile contrasto, in ordine al tema dell'insorgenza della malattia, tra i pareri dei consulenti dell'accusa, pubblica e privata, del presente procedimento ed il parere espresso dal prof. St., perito del precedente processo.

Contrasto irrilevante rispetto alla decisione della causa ed in fatto inesistente, nei termini intesi dal ricorrente, alla stregua di quanto si afferma nella sentenza di primo grado circa l'impossibilità, dichiarata dal prof. St. in dibattimento, di stabilire quali delle due cause (virale o tossica) si fosse presentata per prima.
Infondato è, infine, anche il terzo motivo proposto, in relazione all'evidente infondatezza, a causa dell'entità della pena irrogata, della richiesta di sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria.


Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle pese processuali, nonchè al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge.

 

 

P.Q.M.

 

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, altresì, il ricorrente al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili C.A., D.C.M.G. e D.C.L., che liquida in complessivi Euro 3.000,00, oltre IVA, CPA e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2008