Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA

Sezione Controversie del Lavoro

Composta dai Signori Magistrati:

dott. Vincenzo Castiglione - Presidente

dott. Daniela Migliorati - Consigliere

dott. Stefano Brusati - Consigliere Rel.

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

(...omissis...)
 


 

 

 

 

Fatto 

 

 

Con ricorso al Tribunale di Forlì quale Giudice del Lavoro M.G. esponeva di essere dipendente della Banca Nazionale dell'Agricoltura, inquadrato a fare tempo dal mese di novembre 1993, come Quadro Super (IV Area Professionale, 2° Livello retributivo).

Deduceva che il suo rapporto di lavoro con B.N.A. nell'anno 1996, in coincidenza con il mutamento dei vertici della BNA Gruppo di Forlì (giugno dello stesso anno, con l'assunzione della Direzione da parte del dott. Palombo e della Vicedirezione da parte del dott. Consogni), mutava completamente in quanto gli venivano progressivamente tolte tutte le attività di responsabilità che avevano caratterizzato le sua mansioni di Quadro Super.

Ricordato che a fare tempo dal 1 dicembre 1994 gli era stata assegnata la titolarità della Agenzia n. 1 di Forlì, deduceva che nel mese di gennaio 1996 era ritornato a fare il Capo ufficio Sviluppo di Forlì con la mansione di specialista di prodotto del para Bancario e dei Crediti Speciali ma non era più (come in passato) il titolare dell'Ufficio in quanto il collega Piero M. aveva ricevuto la promozione a titolare dell'Ufficio Sviluppo, svolgendo la mansione di Coadiutore.

A fare tempo dal mese di gennaio 1997 veniva adibito solamente alla funzione di consegna a domicilio di assegni circolari INPS alla clientela; gli venivano sottratte le mansioni proprie di sviluppo alle imprese (clienti e non) di diverso target; di specialista di prodotti bancari; di accaloramento della clientela (già acquisita e non).

In data 14 novembre 1997 gli venivano tolte le chiavi di accesso al garage nonché il permesso di entrare nel parcheggio della Banca in macchina nei giorni di mercato.

Nel mese di settembre dello stesso anno veniva assegnato all'Ufficio Titoli (ufficio nei cui organico non era previsto alcun impiegato con la mansione di Quadro Super) senza alcuna mansione lavorativa specifica.

Con lettera 5 ottobre 1998 veniva disposto il suo trasferimento presso la Succursale di Rimini a fare tempo dal 9 novembre e provvisoriamente veniva assegnato all'Ufficio Portafoglio, senza alcuna mansione lavorativa specifica ed in assenza di qualunque esigenza organizzativa.

Anche all'interno di tale Ufficio non era previsto alcun impiegato con la qualifica di Quadro Super.

Contemporaneamente da Rimini a Cesena veniva trasferita la sig.ra F., precedentemente assegnata all'Ufficio Fidi - Funzione Supporto Gestore con grado di Vice Capo Ufficio e, quindi, sostanzialmente esso ricorrente era stato mandato al posto della stessa.

 

A Rimini aveva svolto mansioni di impiegato di 1° Categoria in aiuto al Gestore, con compilazione di lettere e fotocopie.

 

Con lettera 13 ottobre 1998 aveva contestato sia la dequalificazione professionale sia il trasferimento.

Lamentava che a seguito dei fatti come sopra enunciati aveva subiti gravi danni alla sua immagine e professionalità ed alla salute (sindrome ansioso depressiva somatizzata a livello cardiocircolatorio su base conflittuale lavorativa).

 

Chiedeva, quindi,

a) che venisse accertata e dichiarata la nullità degli ordini di servizio che dal mese di gennaio 1996 lo avevano sollevato dall'incarico di Titolare di Agenzia adibendolo a mansioni inferiori, con successivo trasferimento all'Ufficio Portafoglio di Rimini, per contrasto con l'art. 2103.c. con conseguente condanna di BNA a reintegrarlo nelle mansioni svolte precedentemente o a mansioni equivalenti

b) la condanna di BNA al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della illegittima dequalificazione ed emarginazione con specifico riferimento:

b1) danno professionale, all'immagine, alla carriera ed alla dignità personale nell'importo di allora L. 96.423.000 o nella diversa somma accertata in causa

b2) danno alla salute determinato nell'importo di allora L. 80.000.000 o nella diversa somma accertata in causa

b3) danno per perdita di chance di promozione di dirigente, determinato nella somma di allora L. 40.000.000 o nella diversa somma accertata in causa.

La causa veniva interrotta all'udienza del 6 ottobre 2000 a seguito della avvenuta fusione per incorporazione della BNA nella BA.A.P.V..

Il ricorrente provvedeva alla riassunzione del processo riproponendo le medesime domande e conclusioni.

Si costituiva ritualmente in giudizio la BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA soc. coop. per azioni a r.l. (di seguito la Banca o A.V.) che contestava la fondatezza di tutte le domande proposte nei suoi confronti concludendo per il rigetto del ricorso di controparte.

 

 

Il Tribunale di Forlì, quale Giudice del Lavoro, con sentenza n. n. 84/2001

- ha dichiarato non legittimo il trasferimento del ricorrente da Forlì a M., così dichiarando che la sede di lavoro del ricorrente era Forlì, con condanna della convenuta Banca a reintegrare il M. nelle mansioni svolte prima del mese di gennaio 1997 o in mansioni equivalenti riferite alla qualifica di Quadro Super

-  ha ravvisato nella condotta posta in essere dalla convenuta Banca gli estremi del c.d. mobbing con conseguente responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c..

Ha così affermato che la Banca convenuta " non ha fornito alcun utile elemento rivolto a dimostrare di avere posto in essere attività tese a tutelare il lavoratore da comportamenti discriminatori dei diretti superiori dello stesso senza ricercare le ragioni...", specificando che " relativamente al profilo dell'onere probatorio del lavoratore i richiami precisi e puntuali offerti nella consulenza d'ufficio, corroborati dalla attività della neuropsichiatria, hanno rilevato indiscutibilmente un collegamento tra sofferenze patite e conseguenza patologiche delle stesse con il contesto lavorativo del M. e da questo punto di vista si può dire che il nesso causale tra danno e lavoro è incontrovertibile nella sua dinamica e nelle sue conseguenze negative sul ricorrente...

In conclusione sull'aspetto dell'onere probatorio si può dire che il ricorrente ha dimostrato pienamente il nesso causale che aveva l'onere di dimostrare mentre, al contrario, la banca non ha provato in alcun modo di avere posto in essere le dovute cautele per evitare la realizzazione del processo di mobbizzazione nei confronti del M.. Le regole del giudizio non possono che essere consequenziali al risultato dell'onere probatorio e, quindi, il ricorso deve essere accolto."

- ha ricordato che a partire dal mese di gennaio del 1997 il ricorrente era stato demansionato dalla Banca datrice di lavoro e tale demansionamento si era protratto nel tempo perdurando anche dopo il trasferimento (operativo del novembre 1998) del M. a Rimini e continuato fino al momento di tale decisione (febbraio 2001)

Il Giudice di primo grado ha poi affermato che tale condotta non legittima della Banca aveva provocato al ricorrente un danno definito in sentenza come " danno esistenziale".

Relativamente alla liquidazione di tale danno ha fatto ricorso al dato medio della retribuzione mensile del M. " rendendo per altro attuali i risultati che non necessiteranno di ulteriori calcoli di rivalutazione o interessi".

Ha, quindi, distinto due periodi, utilizzando sostanzialmente come discrimine il trasferimento del M. da Forlì a Rimini:

a) quello dal gennaio 1997 al mese di ottobre 1998

b) quello dal novembre 1998 al febbraio 2001.

 

Relativamente al primo periodo il Giudice di primo grado ha stimato equa una valutazione del danno rapportata al 20% della retribuzione mensile (allora un milione di lire) moltiplicata per il numero dei mesi (22)

Relativamente al secondo periodo ha aumentato al 30% tale percentuale (" per l'ulteriore elemento ingiustificato del trasferimento"), moltiplicandola per il numero dei mesi.

Ha, quindi, condannato la Banca convenuta al pagamento della somma complessiva di allora L. 64.000.000, oltre interessi legali dalla sentenza al saldo.

 

 

Avverso tale decisione ha proposto appello principale la BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA soc. coop. per azioni a r.l. articolando motivi di appello che possono così riassumersi:

 

1) erroneità della sentenza nel punto in cui aveva dichiarato la illegittimità di trasferimento del M. da Forlì a Rimini.

La Banca appellante ha lamentato che il giudice di primo grado non aveva esaminato le ragioni addotte da essa Banca alla base di tale provvedimento di trasferimento da ricondurre alla situazione creatasi nella allora BNA nell'ambito della prima fase della procedura di esodo avviata con gli Accordi del 20 marzo 1998 in particolare ricordando che gli esodi volontari registrati in tale periodo avevano comportato la scopertura di personale anche nell'ambito della Filiale Capo Area di Bologna alla quale facevano capo la Filiale leggera di Forlì e la Succursale di Rimini e che, tra l'altro, aveva determinato la esigenza di coprire presso la Succursale di Rimini la posizione di " supporto gestore clientela imprese" ed così individuando il M. come persona da trasferire a Rimini, anche tenendo conto dei suoi carichi familiari e della distanza fra il nuovo luogo di lavorio e l'abitazione del lavoratore.

 

2) erroneità della sentenza di primo grado nel punto in cui aveva accolto la richiesta del M. con riferimento alla presunta dequalificazione subita.

Ha dedotto che controparte non aveva adempiuto all'onere probatorio sulla stessa incombente; che il Giudice di primo grado non aveva ritenuto opportuno svolgere apposita istruzione probatoria nella fase di merito del giudizio e ciò contrariamente a quanto si leggeva in tale sentenza nella parte relativa allo svolgimento del processo dove si afferma che " venivano, inoltre, escussi i testi richiesti dalle parti"; che il Giudice di primo grado nemmeno aveva svolto alcuna indagine in merito alle mansioni svolte dal M. prima del predetto trasferimento relativamente alla attività svolta presso l'Ufficio Sviluppo della Filiale di Forlì e, successivamente, presso il Settore Amministrativo, Sezione Segreteria e supporto operativo del Comparto Titoli.

 

3) erroneità della sentenza di primo grado nel punto in cui aveva ritenuto esistente una condotta mobbizzante di essa Banca ai danni del ricorrente.

 

Ha eccepito, preliminarmente, il vizio di ultrapetizione in cui era incorso il Giudice di primo grado atteso che il ricorrente aveva chiesto esclusivamente il risarcimento del danno professionale, biologico e per perdita di chance in relazione alla asserita violazione da parte della Banca dell'art. 2103 c.c., senza nulla allegare e dedurre in ordine alla condotta mobbizzante della Banca datrice di lavoro.

Al contrario il Giudice di primo grado aveva condannato al Banca per violazione dell'art. 2087 c.c. per non avere " fornito alcun elemento utile rivolto a dimostrare di avere posto in essere attività tese a tutelare il lavoratore da comportamenti discriminatori dei diretti superiori della stessa senza ricercarne le ragioni".

Ha, ulteriormente, eccepito che, in ogni caso la violazione dell'art. 2087 c.c. non esimeva il ricorrente dall'onere di provare in causa la fondatezza delle sue pretese.

Ha, quindi, dedotto la totale assenza di prova precisa e puntuale in ordine agli elementi sufficienti per integrare la fattispecie del c.d. mobbing.

 

4) Ha eccepito la nullità della CTU svolta in primo grado in quanto il CTU, dopo avere accettato l'incarico con formulazione del relativo quesito all'udienza del giorno 13 gennaio 2000, il giorno 23 marzo 2000 aveva convocato presso il suo studio il sig. M. con lo scopo di verificare "la riferibilità delle sue conoscenze professionali con la materia oggetto del procedimento", effettuando tale esame senza aveva preventivamente avvisato il CTP designato da BNA dott. Renato A..

 

In ogni caso, nella ipotesi di ritenuta validità di tale CTU, la difesa della Banca appellante ha poi dedotto che la stessa - contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza di primo grado - non poteva supplire alla carenza di prova in ordine alle mansioni effettivamente svolte dal M. ed ai suoi reali rapporti con la Banca non essendo tale CTU mezzo di prova e non potendo essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto domanda in giudizio.

Ulteriorermente ha eccepito la inattendibilità ed inesattezza delle conclusioni cui era pervenuto il CTU basate, in modo passivo ed acritico, sulle affermazioni rese dal sig. M. senza effettuare una effettiva indagine sulla possibile genesi psicopatologica di esse, sul punto richiamando le considerazioni svolte dal proprio CTP dott. A..

Ha, quindi, concluso chiedendo la riforma integrale della appellata sentenza con rigetto delle domande tutte proposte da controparte.

Si è costituito in giudizio M.G. che ha contestato integralmente la fondatezza dell'appello principale di controparte.

In particolare ha ricordato di avere, con lettera 13 novembre 1998, richiesto per iscritto ed espressamente i motivi del trasferimento a Rimini disposto con nota 5 ottobre 1998 con efficacia 9 novembre dello stesso anno, senza ricevere risposta e ciò in quanto la Banca, solo con la memoria difensiva del 23 ottobre 1999 aveva enunciato per la prima volta tali motivi, con conseguente violazione di uno dei requisiti formali e procedurali del trasferimento, vale a dire la necessità della motivazione dello stesso e conseguente illegittimità di tale trasferimento.

Ha,poi, ribadito, nel merito, la ingiustificatezza di tale trasferimento anche alla luce della dequalificazione subita da esso lavoratore e tenendo conto che la Banca datrice di lavoro non aveva provato in causa la esistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive poste alla base di tale provvedimento non essendovi alcuna prova circa la vacanza a Rimini di un posto corrispondente alla qualifica di Quadro Super posseduta dal M. e neppure di un posto di " Supporto Gestore".

Ha ribadito la sussistenza della lamentata dequalificazione sia in epoca precedente che in epoca successiva al suo trasferimento a Rimini.

Ha contestato la fondatezza di quanto eccepito nell'atto di appello di A.V. in ordine al vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza di primo grado e ciò in quanto

 

a) il Giudice di primo grado non aveva emesso un provvedimento diverso da quello richiesto, attribuendo un bene della vita diversa da quello richiesto

 

b) circa la causa petendi tale Giudice non aveva alterato né aggiunto o sostituito alcuno dei fatti prospettati dall'attore e costitutivi della sua domanda, valutando l'insieme delle circostanze di fatto prospettate in una prospettiva dinamica e globale, riconducendole ad una fattispecie unitaria nell'ambito del suo potere/ dovere di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il nomen juris al rapporto dedotto in giudizio.

 

Ha poi dedotto la esistenza in atti della prova della sussistenza della fattispecie di cui all'art. 2087 c.c. ribadendo che erano rimasti provati tutti gli elementi essenziali integranti la fattispecie del mobbing e, comunque, insistendo per l'ammissione delle prove articolate nel ricorso di primo grado.

Ha,inoltre, eccepito la infondatezza della eccezione di nullità della CTU espletata in primo grado.

Ha ricordato che l'incarico peritale era stato conferito all'udienza del giorno 13 gennaio 2000.

In tale udienza il nominato CTU dott. E. aveva fissato quale inizio delle operazioni peritali il giorno 10 febbraio 2000, chiedendo termine di 60 per il deposito dell'elaborato peritale.

Dalla sua relazione emergeva che il giorno 23 marzo 2000 aveva sottoposto il M. ad un colloquio psicologico presso il suo studio in via informale e preliminare.

Quindi aveva sottoposto il M. ad un successivo colloquio psicologico il giorno 18 aprile 2000 presenti il CTP di BNA dott. A. ed il CTP M. dott. P., nonché l'ausiliaria del CTU dott.ssa A..

 

La relazione peritale era stata depositata il giorno 2 maggio 2000.

 

All'udienza del giorno 11 maggio 2000 il Giudice aveva rinviato per consentire l'esame della CTU.

Solo alla successiva udienza del 29 giugno 2000 la Banca aveva eccepito la nullità di tale CTU.

Ha, quindi, dedotto la inesistenza della eccepita nullità; in ogni caso tale nullità, di tipo relativo, non era stata eccepita a pena di decadenza nella prima udienza successiva al deposito della relazione per tale intendendosi anche una udienza di mero rinvio.

Ha,poi, ribadito la piena legittimità e fondatezza di tale CTU.

 

Ha, quindi, concluso chiudendo il rigetto integrale dell'appello di controparte.

 

Ha proposto appello incidentale lamentando la erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva disatteso le conclusioni cui era giunto il CTU liquidando il danno esistenziale negli importi sopra ricordati.

 

Ha ricordato che il CTU aveva ritenuto congrua una quantificazione del danno professionale in ragione del 70% della retribuzione percepita dal M. per il periodo gennaio 1996- inizio 2000; per quanto concerne la perdita di chance professionale una quantificazione nella misura del 30% della retribuzione; relativamente al danno biologico lo stesso era stato valutato nella conclusioni della dott.ssa A. nella percentuale del 7-8%.

 

Ha, quindi, concluso chiedendo la condanna della Banca a risarcirgli:

- a titolo di danni subiti dal gennaio 1997 al febbraio 2001 una somma pari al 70% della retribuzione a titolo di danno alla professionalità per il periodo considerato

- una somma pari al 30% della retribuzione a titolo di perdita di chance per il periodo considerato

- un danno biologico del 7-8% assumendo a riferimento a la somma di L. 1.000.000 mensili (euro 516,46) assunta in senza oppure la retribuzione annua del ricorrente pari a circa L. 65.000.000 (euro 33.569,70) come da buste paga allegate.

Assunte le prove orali ammesse ed esperita CTU medico legale, la causa è stata decisa all'udienza del giorno 3 novembre 2009 come da dispositivo.

 

 

Diritto

 

 

Appare opportuno esaminare preliminarmente le due questioni procedurali poste dall'appello principale proposto dalla BANCA.

Nullità della CTU espletata in primo grado.

La eccezione di nullità riproposta dalla Banca appellante (v. motivo sub 4 sopra sintetizzato) è fondata.

Sulla base delle risultanze del fascicolo d'ufficio di primo grado si può affermare che in data 13 gennaio 2000 è stato conferito l'incarico peritale di cui è causa.

In tale udienza il nominato CTU ha fissato quale inizio delle operazioni peritali il giorno 10 febbraio 2000, chiedendo termine di gg. 60 per il deposito dell'elaborato peritale.

Dalla depositata relazione peritale emerge che il CTU, in data 23 marzo 2000, ha sottoposto il M. ad un colloquio psicologico presso il suo studio in via informale e preliminare, con lo scopo di verificare " la riferibilità delle sue conoscenze professionali con la materia oggetto del procedimento", procedendo a tale esame senza la presenza del CTP della Banca dott. A. che non era stato avvisato così come non era stato avvisato il difensore di tale parte.

Quindi ha sottoposto il M. ad un successivo colloquio psicologico il giorno 18 aprile 2000 presenti, in quanto tempestivamente avvisati, il CTP della Banca dott. A., il CTP del M. dott. P. nonché l'ausiliaria del CTU dott.ssa A..

La relazione peritale è stata depositata il giorno 2 maggio 2000.

All'udienza del giorno 11 maggio 2000 il Giudice del lavoro ha disposto un rinvio della causa all'udienza del 29 giugno 2000 per consentire l'esame di tale CTU.

A tale udienza del 29 giugno 2000 la difesa della Banca ha eccepito la nullità di tale CTU per la ragione poi posta alla base del sopra sintetizzato motivo di appello.

Tale ricostruzione dei fatti consente di affermare la fondatezza di tale motivo di appello, con conseguente nullità della predetta relazione peritale, atteso che il colloquio psicologico informale cui è stato sottoposto il M. dal CTU il giorno 22 marzo 2000 è avvenuto senza alcuna comunicazione al CTP della Banca (o al difensore della stessa) e ciò diversamente dal successivo colloquio avvenuto il giorno 18 aprile 2000.

Così facendo, si è verificata una violazione del diritto di difesa della Banca atteso che, ai sensi dell'art. 201, 2° comma c.p.c., il CTP di tale parte aveva il diritto di assistere a norma dell'art. 194 c.p.c. alle operazioni del CTU e, quindi, aveva il diritto di assistere al colloquio psicologico del M. effettuato, sia pure preliminarmente ed in via informale, dal CTU in data 23 marzo 2000.

E tale diritto non è stata esercitato atteso che il CTP della Banca non ha avuto - la circostanza non è contestata in causa- alcuna comunicazione e notizia di tale colloquio informale e preliminare, così come nessuna comunicazione in tale senso è stata fatta al difensore di A.V..

A tale riguardo non si condivide quanto si legge nella sentenza appellata nel punto in cui, per respingere la eccezione della difesa della Banca, si afferma che l'attività preliminare del consulente relativa al colloquio psicologico con il M. non rientra nella attività di consulenza, ricordando anche che "la particolarità della situazione, trattandosi della prima consulenza sul mobbing svolta affrontando il profilo psicologico dell'argomento oltre che delle conseguenze mediche" giustificava adeguatamente la elasticità della condotta del consulente.

Non si condivide tale affermazione atteso che non si riesce a comprendere come il colloquio del giorno 22 marzo 2000, sia pure definito informale e preliminare, possa dirsi essere avvenuto al di fuori della attività di consulenza posto che l'incarico peritale era già stata ovviamente attribuito e l'inizio delle operazioni peritali era già stata fissato per una data (10 febbraio 2000) ben antecedente a tale colloquio, senza poi dimenticare la evidente importanza di tale colloquio, sia pure informale e preliminare e fissato per lo scopo sopra ricordato, atteso che si trattava della prima occasione di contatto (ci sia consentito il termine) tra il nominato CTU e la parte ricorrente.

Né la particolarità di tale incarico peritale come messa in luce nella sentenza appellata risulta sufficiente per respingere il motivo di appello in esame atteso che, in sintesi, le regole processuali (ivi compresa quella - fondamentale- afferente il diritto del CTP di partecipare alle operazioni peritali) non si vede come possano consentire di operare distinzioni di sorta fra incarichi peritali asseritamente caratterizzati dalla " particolarità della situazione" ed incarichi peritali non caratterizzati da tale particolarità.

Tale violazione procedurale determina la nullità della CTU espletata in primo grado essendo principio consolidato quello secondo il quale la consulenza tecnica d'ufficio è nulla se non è stata data alle parti ed al loro difensori comunicazione non solo della data di inizio delle operazioni peritali ma anche della data della prosecuzione di dette operazioni peritali (v., tra le altre, Cass. n. 15133/2001; Cass. n. 3340/1997).

E' certamente vero che si tratta di nullità relativa che (v. le sopra ricordate decisioni) deve essere fatta valere nella prima udienza successiva al deposito della relazione peritale, per tale intendendosi anche la udienza di mero rinvio, non rilevando che il giudice, all'udienza successiva al deposito, abbia rinviato la causa per consentire alle parti l'esame della relazione.

Tale orientamento giurisprudenziale non lo si ritiene applicabile nel caso di specie atteso che tale affermazione giurisprudenziale si fonda sul presupposto che la denuncia dell'inadempimento formale integrato dalla mancata comunicazione alle parti ed ai loro difensori della data di inizio o prosecuzione delle operazioni peritali non richiede la conoscenza del contenuto della relazione (v. espressamente Cass. n. 15133/2001).

Tale presupposto non lo si ravvisa nel caso oggetto del presente giudizio atteso che all'udienza immediatamente successiva al deposito della relazione peritale (vale a dire l'udienza del giorno 11 maggio 2000) la difesa della Banca (in tale espressione comprendendo anche il suo CTP) nulla sapeva del precitato colloquio informale e preliminare del 23 marzo 2000 anche perché la relazione peritale era stata depositata solo da pochi giorni (esattamente in data 2 maggio 2000 e, quindi, dopo la scadenza del termine di sessanta giorni concesso per il deposito di tale relazione, con decorrenza dall'inizio delle operazioni peritali, vale a dire 10 febbraio 2000).

L' esistenza di tale colloquio CTU/ M. è stata dalla difesa della Banca appellante appresa solo dopo la udienza del giorno 11 maggio 2000 che si era risolta, appunto e con il consenso di tutte le difese, in un rinvio della causa per consentire alle difese stesse l'esame della relazione peritale non solo tenendo conto della indubbia complessità di tale relazione ma anche tenendo conto del fatto che tale relazione peritale era stata depositata da pochissimi giorni.

Quindi, alla successiva udienza del 29 giugno 2000, la difesa della Banca, esaminata la relazione peritale dopo l'udienza del giorno 11 maggio 2000 ed appresa l'esistenza del più volte citato colloquio preliminare ed informale, ha prontamente eccepito la nullità di tale relazione peritale per il motivo sopra illustrato.

Ritiene, quindi, questa Corte di Appello che nel caso di specie non si sia verificata quella sanatoria della sopra ricordata nullità relativa cui fanno riferimento le sentenza sopra ricordate atteso che tale sanatoria presuppone che la difesa della Banca appellante fosse già in grado all'udienza del giorno 11 maggio 2000 di fare valere tale nullità, essendo già a conoscenza del fatto posto alla base di tale eccezione. Il che non era atteso che, come detto, solo dopo tale udienza ed a seguito dell'esame della relazione peritale è venuta a conoscenza del più volte citato colloquio preliminare ed informale CTU/ M..

 

Pertanto, in accoglimento del motivo di appello in esame, occorre dichiarare la nullità della CTU espletata nel giudizio di primo grado.

 

In ogni caso, impregiudicato e ribadito quanto detto sopra, si deve aggiungere - in subordine e per completezza argomentativa- che comunque ed in ogni caso la, solo in ipotesi, ritenuta validità della CTU di primo grado non risulta essere questione rilevante e decisiva ai fini di causa e ciò per due ragioni:

a) le considerazioni (v.oltre) relative alla circostanza che la fattispecie integrante il c.d. mobbing non è mai stata dedotta nel ricorso di primo grado proposto dal M., con la conseguenza che risulta essere sostanzialmente irrilevante, nel presente giudizio, quanto affermato in tale relazione peritale in ordine al mobbing di cui il sig. M. è stato vittima ed alle conseguenze allo stesso derivate a seguito di tale condotta mobbizzante

b) le risultanze della CTU espletata nel presente grado di giudizio che vengono (v. oltre) integralmente fatte proprie da questa Corte di Appello.

 

 

Mobbing

Il Giudice di primo grado ha accolto il ricorso proposto dalla difesa del sig. M. anche e soprattutto perché ha ravvisato nella condotta posta in essere dalla convenuta Banca gli estremi del c.d. mobbing con conseguente responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c.

La difesa della Banca appellante ha eccepito preliminarmente (v. motivo di appello più sopra sintetizzato sub 3) il vizio di ultrapetizione in cui, così decidendo, è incorso il Giudice di primo grado atteso che, in sintesi, la difesa del M., con il ricorso di primo grado, non aveva mai proposto alcuna domanda in tale senso, avendo il ricorrente chiesto esclusivamente il risarcimento del danno professionale, biologico e per perdita di chance in relazione alla dedotta violazione da parte della convenuta Banca del disposto dell'art. 2103 c.c.

Ritiene questa Corte di Appello che anche tale eccezione sia fondata e ciò in quanto il ricorso di primo grado (indipendentemente dalla mancanza di ogni riferimento espresso alla fattispecie del mobbing) in ogni caso, nella allegazione dei fatti ed articolazione delle conseguenti domande, ha fatto riferimento solo ed esclusivamente al demansionamento subito dal M. a fare tempo dal gennaio 1996 in avanti ed alla illegittimità del trasferimento a Rimini disposto dalla Banca con provvedimento 5 ottobre 1998, così deducendo la violazione, in entrambi i casi, della fattispecie di cui all'art. 2103 c.c.


Vale a dire manca in tale atto introduttivo di giudizio non solo ogni riferimento espresso alla condotta mobbizzante tenuta (secondo la sentenza impugnata) dalla Banca datrice di lavoro ma anche e soprattutto ogni allegazione in ordine ai fatti costitutivi di tale fattispecie come individuati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, vale a dire (e detto in estrema sintesi, anche per evitare il rimprovero di fare una sorta di trattatello in materia o anche solo un più semplice mini cahier du mobbing) pluralità di fatti, in sè legittimi o non legittimi, protratti nel tempo unificati (se così si può dire) dalla loro finalità illecita (id est l'intento persecutorio di cui parla la sentenza n. 3785/2009 della Corte di Cassazione o la volontà di perseguire ed emarginare il dipendente stesso di cui si legge nella sentenza n. 22858/2008 o la finalità di persecuzione o di discriminazione con condotta emulativa o pretestuosa di cui si parla nella sentenza n. 21028/2008), con conseguente evento lesivo della salute o della personalità del dipendente e la esistenza di un nesso eziologico fra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio alla integrità psico- fisica del lavoratore (cfr. sempre la precitata giurisprudenza; v. anche nello stesso senso Corte Appello Bologna, Sez. lav. 11 aprile 2009).

 

In particolare il ricorso di primo grado non contiene alcuna allegazione fattuale in ordine all'elemento finalistico che rappresenta - come visto- uno degli elementi essenziali del c.d. mobbing.

 

Al contrario sono allegati singoli inadempimenti (demansionamento, trasferimento illegittimo, episodio del novembre 1997 circa il ritiro delle chiavi di accesso al garage ed al parcheggio della Banca) senza che però tali singoli asseriti inadempimenti datoriali siano per così dire collegati ed unificati tra di loro ed allegati ed assunti come espressioni e manifestazione di quella pluralità di atti e comportamenti posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con l'intento vessatorio e persecutorio di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione (v., ulteriormente, Cass. n. 22893/2008), tanto è vero che - significativamente- nel ricorso di 1° grado si fa riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2103 c.c., senza, però, nulla dire in ordine alla violazione (ritenuta nella sentenza di 1° grado) dell'art. 2087 c.c.


E' vero che in alcuni punti del ricorso si parla di emarginazione ma tale espressione viene correlata non all'elemento psicologico finalistico ed unificante che deve caratterizzare la condotta mobbizzante ma, al contrario, viene correlata esclusivamente alla dequalificazione che il M. ha allegato avere subito dal 1996, con conseguente effetto rappresentato dalla sua emarginazione, a seguito di tale dequalificazione, nell'ambiente di lavoro anche in termini di interrotte prospettive di carriera tanto è vero che, tra l'altro, ha chiesto il risarcimento del danno anche per perdita di chance.

Quindi, il Giudice di primo grado ravvisando nella condotta posta in essere dalla Banca gli estremi del c.d. mobbing ha, ad avviso di questa Corte, violato il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato atteso che certamente il Giudice può dare alla domanda della parte una qualificazione giuridica diversa da quella data da tale parte; può interpretare il titolo su cui si fonda la controversia; può applicare norme di legge diverse da quelle invocate, fermi però restando i fatti allegati a fondamento di tale domanda e ciò in quanto (ci sia consentita l'espressione) l'allegazione di tali fatti è monopolio esclusivo della parte.

E' stato, infatti, affermato che cade nel difetto di ultrapetizione la decisione con la quale il Giudice finisce con il sostituire i fatti costitutivi della pretesa di parte attrice (v. Cass. n. 6476/1997) e ciò in quanto il potere di dare alla domanda una qualificazione giuridica diversa deve avvenire tenendo fermi i fatti allegati (cfr. sul punto anche Cass. n. 9176/1996, Cass. n. 3936/2002).

E' stato così coerentemente affermato che il Giudice non può introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatti, essendogli vietato sostituire i fatti costitutivi della pretesa azionata in causa (v. ad esempio Cass. n. 17610/2004).

E' stato ricordato che non è possibile sostituire una domanda con un'altra che presuppone la introduzione nel tema controverso di nuovi elementi di fatto (v., ad esempio, Cass. n. 8519/2006; Cass. n. 10922/2005; Cass. n. 17610/2004).

E' stato ribadito (v. ad esempio Cass. n. 15053/2007) che la qualificazione della domanda proposta in causa deve essere, comunque ed in ogni caso, corrispondente alla prospettazione ed allegazione degli elementi di fatto operata dalla parte attrice/ ricorrente (v. Cass. n. 15053/2007).

E' stato affermato che per evitare il c.d. vizio di ultrapetizione non è sufficiente che si eviti la attribuzione altresì necessario che non si introducano nella decisione adottata nuovi elementi di fatto nel tema controverso (v. ad esempio Cass. n. 12402/2007).

E' stato ribadito che il potere di qualificazione giuridica della domanda non può portare alla modifica dei fatti costitutivi allegati dalla parte attrice/ ricorrente o fondandosi su di una realtà fattuale non dedotta e allegata dalla parte (v. Cass. n. 15925/2007).

 

Tutto questo è dato ravvisare nella sentenza di primo grado atteso che accertando la esistenza di una condotta mobbizzante posta in essere dalla Banca datrice di lavoro ai danni del lavoratore/ ricorrente ha finito con il porre a fondamento di tale decisione i fatti costitutivi di tale condotta mobbizzante (e come sopra sintetizzati sulla base delle sopra ricordate decisioni della Corte di Cassazione) che non erano mai stati allegati nel proposto ricorso che, al contrario, conteneva solo una allegazione, con relativa domanda, afferente la dedotta violazione della fattispecie di cui all'art. 2103 c.c. sia per l'illegittimo trasferimento del sig. M. in quel di Rimini sia per il demansionamento dallo stesso sofferto a fare tempo dall'anno 1996, così - ulteriormente- finendo con l'impedire il pieno esplicarsi del diritto di difesa della Banca convenuta/ appellante principale atteso che tale diritto di difesa - con relativo onere probatorio- si atteggia diversamente a seconda che sia dedotta la specifica violazione della fattispecie dell'art. 2103 c.c. o la violazione (sub specie di condotta mobbizzzante) dell'art. 2087 c.c..


Del resto la stessa giurisprudenza di legittimità sopra richiamata in materia di qualificazione giuridica del c.d. mobbing contiene affermazioni, condivise da queste Corte di Appello, che si ritiene confermino quanto detto sopra e, quindi, la fondatezza del motivo dell'appello della Banca in esame.

Si intende, in particolare, fare riferimento alla decisione n. 22858 del 2008 della Corte di Cassazione che, dopo avere affermato che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico, attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi) sorretti dalla volontà di perseguire o emarginare il dipendente stesso, ha specificato che lo specifico intento che caratterizza la condotta mobbizzante e la sua protrazione nel tempo lo distinguono dai singoli atti illegittimi, quali la mera dequalificazione ex art. 2103 c.c. ed il fondamento della sua illegittimità è costituito dall'obbligo datoriale ex art. 2087 c.c. di adottare le misure necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Proprio sulla base di tale condivisibile distinzione si può, quindi, affermare che la domanda proposta dal ricorrente M., diretta ad ottenere il risarcimento del danno sofferto a seguito dell'allegato sofferto demansionamento nonché la dichiarazione di illegittimità del trasferimento 5 novembre 1998 in quel di Rimini, si fonda su di una causa petendi ben diversa da quella di una domanda diretta ad ottenere il risarcimento del danno sofferto a seguito ed a causa del verificarsi dei quella violazione dell'art. 2087 c.c. integrata dalla condotta mobbizzante del datore di lavoro od ai superiori gerarchici.

Proprio tale diversità di causa petendi (con conseguente diversità sostanziale di fatti costitutivi), ad avviso di questa Corte di Appello, doveva impedire al Giudice di primo grado di qualificare in termini di mobbing la ben diversa domanda (demansionamento; illegittimità del disposto trasferimento, con richiesta di risarcimento danni) proposta dalla difesa del M..

Una conferma, sia pure indiretta trattandosi di decisione avente per oggetto una diversa fattispecie, la si può desumere anche da quanto deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.  22893 del 2008  con la quale, in sintesi, la Corte ha affermato (condivisibilmente) che la condotta vessatoria consapevolmente posta in essere da datore di lavoro finalizzata ad isolare o espellere il dipendente dal contesto lavorativo (c.d. mobbing) si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali, richiedendosi nel primo caso una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionale alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità in sé in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere dall'intento di emarginazione con la conseguenza che le due predette domande si devono considerare domande del tutto distinte e diverse l'una dall'altra, fondate come sono su di una ben di versa causa pretendi, con conseguente novità e non ammissibilità della domanda afferente il c.d. mobbing fondata come era su fatti del tutti diversi rispetto a quelli allegati a fondamento della originaria domanda con cui veniva dedotta una condotta discriminatoria del datore di lavoro per motivi sindacali ex art. 15 legge n. 300 del 1970.

 

E' vero che sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6326 del 2005, ha affermato che qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chiede anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sia dall'atto introduttivo la lesione della propria integrità psico- fisica in relazione non solo al demansionamento ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come mobbing del suddetto comportamento non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del mobbing e della sua riconduzione alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto ai sensi dell'art. 2087 c.c., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.

Si ritiene, però che le affermazioni contenute in tale decisione non possano applicarsi al caso in esame non solo per le ragioni sopra illustrate ma anche perchè nel ricorso introduttivo del presente contenzioso manca del tutto la deduzione di quella lesione della integrità psico-fisica del ricorrente in relazione non solo al lamentato demansionamento ed illegittimo trasferimento ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, vale a dire manca quell'elemento essenziale così fortemente valorizzato in tale sentenza per escludere che quella afferente il mobbing fosse domanda nuova e come tale non ammissibile.

Occorre, quindi, dichiarare il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado nel punto in cui ha accertato e dichiarato la esistenza di una condotta mobbizzante posta in essere dalla Banca nei confronti del suo dipendente sig. M.G. e ciò in quanto la domanda di quest'ultimo non aveva assolutamente per oggetto il c.d. mobbing ma era diretta unicamente ad accertare la illegittimità del trasferimento a Rimini e del lamentato demansionamento con conseguente violazione dell'art. 2103 c.c. e, conseguentemente, ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di tali condotte illegittime della datrice di lavoro e ciò con specifico riferimento al predetto demansionamento.

 

Si possono quindi, passare, ad esaminare i motivi articolati nell'appello principale della Banca e volti a censurare,appunto, la sentenza di primo grado sia nel punto in cui ha dichiarato la illegittimità del trasferimento 5 ottobre 1998 (con efficacia dal 9 novembre stesso anno) del M. da Forlì a Rimini (v. motivo piu" sopra sintetizzato sub 1) sia nel punto in cui - problematica del mobbing a parte- ha comunque accertato il demansionamento subito dal M. a fare tempo dal gennaio 1997 fino al momento di emissione di tale decisione (v. motivo piu" sopra sintetizzato sub 2).

Trasferimento 5 ottobre 1998 a fare data dal 9 novembre 1998 del sig. M.G. da Forlì a Rimini

Il Giudice di primo grado ha dichiarato la illegittimità di tale trasferimento così dichiarando che la sede di lavoro del sig. M. era Forlì.

Ciò precisato, occorre, preliminarmente, respingere la eccezione sollevata nella memoria di costituzione in appello dalla difesa del M. e volta ad ottenere la conferma di tale decisione, con conseguente rigetto dell'appello principale proposto da A.V. sulla base della dedotta illegittimità di tale trasferimento per mancata comunicazione dei motivi da parte della Banca datrice di lavoro, pur in presenza di espressa richiesta in tale senso avanzata dal lavoratore con lettera 13 novembre 1998.

Si tratta di eccezione che va respinta perché del tutto nuova, e quindi come tale non ammissibile, ai sensi dell'art. 437 c.p.c. e ciò in quanto di tale eccezione non si è trovato alcuna riferimento ed allegazione nel ricorso di primo grado dove la difesa del M. ha eccepito unicamente la illegittimità per così dire sostanziale e nel merito di tale trasferimento per insussistenza delle ragioni di cui all'art. 2103 c.c.
Una riprova in tale senso la si può desumere dalla semplice lettura della pag. 4 di tale ricorso dove si parla del trasferimento in esame ma nulla si allega in ordine al vizio formale dedotto in appello al punto che neppure viene indicato l'atto con cui il M. ha (avrebbe) chiesto alla Banca la enunciazione delle ragioni di tale trasferimento.

In ogni caso, per completezza argomentativa, tale eccezione è infondata nel merito atteso che il lavoratore non ha mai richiesto alla Banca, specificatamente ed in maniera chiara ed inequivoca la enunciazione di tali motivi.

A tale proposito appare sufficiente ricordare che il M., ricevuta la lettera della Banca 5 ottobre 1998 con cui veniva disposto il suo trasferimento a Rimini a fare tempo dal 9 novembre 1998 (v. doc. 11 produzioni M.) ha inviato alla banca la lettera 13 ottobre 1998 con cui ha chiesto solo la reintegrazione ed il risarcimento del danno, senza che in alcuna parte di tale lettera compaia alcuna richiesta a tale Banca di esplicitare i motivi del predetto trasferimento.

Né tale richiesta compare nella lettera 3 novembre 1998 (v. doc. 15 produzioni M.) trattandosi di lettera con cui il M. chiedeva l'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

 

Il rigetto di tale eccezione della difesa M. impone, quindi, l'esame dell'appello principale proposto al riguardo dalla difesa di A.V..

 

Come sopra ricordato in parte espositiva, la difesa della Banca, con il primo motivo di appello, ha dedotto la erroneità della sentenza nel punto in cui aveva dichiarato la illegittimità di trasferimento del M. da Forlì a Rimini.

La Banca appellante ha lamentato che il giudice di primo grado non aveva esaminato le ragioni addotte da essa Banca alla base di tale provvedimento di trasferimento da ricondurre alla situazione creatasi nella allora BNA nell'ambito della prima fase della procedura di esodo avviata con gli Accordi del 20 marzo 1998 in particolare ricordando che gli esodi volontari registrati in tale periodo avevano comportato la scopertura di personale anche nell'ambito della Filiale Capo Area di Bologna alla quale facevano capo la Filiale leggera di Forlì e la Succursale di Rimini e che, tra l'altro, aveva determinato la esigenza di coprire presso la Succursale di Rimini la posizione di " supporto gestore clientela imprese" ed così individuando il M. come persona da trasferire a Rimini, anche tenendo conto dei suoi carichi familiari e della distanza fra il nuovo luogo di lavorio e l'abitazione del lavoratore.

 

Tale articolato motivo di appello non è fondato e va respinto.

 

La Banca appellante principale ha dedotto che il trasferimento del sig. M. presso la Succursale di Rimini con provvedimento 5 novembre 1998 è stato motivato dalla esigenza di " coprire" presso tale Succursale la posizione di "supporto gestore clientela imprese".

Si può anche convenire con la difesa della Banca appellante quando mette in luce la circostanza che effettivamente presso la Succursale di Rimini vi fosse la predetta esigenza, ciò potendosi affermare sulla base delle dichiarazioni testimoniali rese dal teste F. (funzionario in servizio presso la Succursale di Rimini) il quale, detto in sintesi, ha riferito di come presso la Succursale di Rimini operassero tre gestori clientela imprese (il predetto F., il C., lo Z.) che potevano - prima dell'arrivo del M.- contare (ci sia consentito il termine) come "supporto gestore" solo sul dipendente della Banca a nome P. (all'epoca inquadrato come Vice Capo Ufficio, v. dichiarazioni di quest'ultimo), pure in servizio presso tale Succursale.

 

Tutto questo, però, non è sufficiente per accogliere il motivo di appello in esame atteso che la istruttoria ha permesso di appurare (v. specificatamente oltre quando si tratterà della questione afferente il demansionamento del M. iniziato a Forlì e proseguito anche dopo il suo trasferimento a Rimini) che quello di " supporto gestore clientela impresa" non era certamente un compito che rientrava nella mansioni di un dipendente della Banca inquadrato - come il M.- come Quadro Super, risultando, al contrario, essere un compito caratterizzato da professionalità ben inferiore a quella propria di tale inquadramento.

 

Pertanto le predette esigenze organizzative,tecniche e produttive non potevano dalla Banca essere affrontate e risolte con il trasferimento di chi, come il M., aveva un inquadramento ben superiore a quello richiesto per lo svolgimento dei compiti di supporto gestori clientela imprese e ciò in quanto il trasferimento del dipendente per le ragioni di cui all'ultima parte del primo comma dell'art. 2103 c.c. deve avvenire nel pieno rispetto di quanto previsto dalla prima parte di tale comma in tema di obbligo del datore di lavoro di assegnare il lavoratore alle mansioni corrispondenti all'inquadramento acquisito nel corso della sua carriera professionale o equivalenti a quelle da ultimo effettivamente svolte, il che equivale a dire che il trasferimento del dipendente pure giustificato di per sé da effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive non può tradursi in un non legittimo demansionamento di tale lavoratore, come appunto (v. subito oltre) è accaduto con riferimento al M. atteso che il demansionamento dallo stesso già subito in precedenza in quel di Forlì è poi proseguito anche dopo il suo trasferimento a Rimini.

 

Pertanto il motivo dell'appello principale della Banca in esame deve essere respinto, con integrale conferma della sentenza di primo grado nella statuizione in cui, appunto, ha dichiarato la illegittimità di tale trasferimento, così accertando che la sede di lavoro del M. doveva essere ritenuta quella di " partenza", vale a dire Forlì.

 

 

Demansionamento sofferto da M.G.

 

Con il secondo motivo di appello la difesa di A.V. ha dedotto la erroneità della sentenza di primo grado nel punto in cui ha accolto la domanda del M. con riferimento alla dequalificazione subita.

Ha dedotto, in particolare, che controparte non aveva adempiuto all'onere probatorio sulla stessa incombente; che il Giudice di primo grado non aveva ritenuto opportuno svolgere apposita istruzione probatoria nella fase di merito del giudizio e ciò contrariamente a quanto si leggeva in tale sentenza nella parte relativa allo svolgimento del processo dove si afferma che " venivano, inoltre, escussi i testi richiesti dalle parti"; che il Giudice di primo grado nemmeno aveva svolto alcuna indagine in merito alle mansioni svolte dal M. prima del predetto trasferimento relativamente alla attività svolta presso l'Ufficio Sviluppo della Filiale di Forlì e, successivamente, presso il Settore Amministrativo, Sezione Segreteria e supporto operativo del Comparto Titoli.

 

Anche tale articolato motivo di appello deve essere respinto siccome infondato.

 

E' certamente vero che nel corso del giudizio di primo grado non si è proceduto alla assunzione di alcun teste, contrariamente a quanto si legge a pag. 8 della appellata sentenza.

Ma tutto questo non è certo sufficiente per accogliere il motivo di appello in esame atteso che la difesa M. ha puntualmente riproposto in appello la richiesta di prove orali già tempestivamente articolata nel ricorso di primo grado e diretta, appunto, a fornire la prova - come da onere sulla stessa incombente- del lamentato demansionamento.

Tali prove orali sono state ammesse ed escusse nel presente grado di giudizio ed è proprio l'esito di tali prove a confermare il demansionamento di cui il ricorrente/ appellato è rimasto vittima nel periodo di tempo accertato dalla decisione di primo grado, con conseguente rigetto dell'appello proposto dalla Banca e conferma, sul punto, della impugnata sentenza che - problematica del mobbing a parte- ha, comunque, accertato che il M. era stato demansionato dalla Banca datrice di lavoro, con demansionamento iniziato nel gennaio 1997 e poi protrattosi nel tempo, anche dopo il trasferimento a Rimini, e ciò fino al momento di emissione di tale sentenza.

A dire il vero nel ricorso di primo grado l'inizio del lamentato demansionamento viene collocato nell'anno 1996 in coincidenza con l'arrivo a Forlì del dott. P. (nuovo Direttore della Filiale della Banca).

Ma tale periodo di tempo non verrà preso in considerazione nella presente decisione atteso che la difesa del M., (v. memoria di costituzione in appello, con proposizione di appello incidentale) ha chiesto (le conclusioni di pag. 57 di tale atto sono chiare ed in equivoche) il risarcimento dei danni subiti con riferimento al periodo gennaio 1997/ febbraio 2001.

 

Tutto ciò precisato, il motivo di appello al riguardo proposto dalla Banca è,come sopra anticipato,infondato e deve essere respinto.

 

In punto di fatto la istruttoria orale esperita nel presente grado di giudizio nonché le produzioni documentali ritualmente effettuate nel corso del giudizio di primo grado consentono di affermare, prima di tutto, che il M., dopo essere stato assegnato nel mese di dicembre 1994 alla Agenzia 1 di Forlì quale titolare di tale Agenzia, è stato successivamente trasferito all'Ufficio Sviluppo di Forlì dove, all'inizio dell'anno 1997, continuava a prestare la sua attività di lavoro.

La circostanza in quanto tale non è stata neppure espressamente contestata dalla difesa della banca e, comunque, risulta dalle dichiarazioni dei testi escussi (v. ad esempio e per tutti teste M., responsabile in tale periodo di tale Ufficio Sviluppo).

Ciò precisato si può affermare, sempre sulla base delle risultanze istruttorie, che effettivamente a fare tempo dal gennaio 1997 i compiti lavorativi via via espletati dal M. non erano propri del suo non basso inquadramento di Quadro Super.

Il teste L. ha confermato, con riferimento all'anno 1997 per tutto il periodo di assegnazione del M. al c.d. ufficio Sviluppo, quanto allegato dalla difesa M. (v. cap. 5 note istruttorie difesa M. circa la sottrazione delle mansioni proprie del c.d. sviluppo imprese di clientela primaria, di specialista di prodotti bancari; di accaloramento di clientela già acquisita; di privazione della firma di rappresentanza).

Ha confermato la circostanza che in tale periodo al M. venivano affidati compiti puramente esecutivi quali la consegna al domicilio dei clienti di assegni circolari, precisando di avere personalmente visto il M. " partire con " gli assegni in mano".

Le circostanze del predetto cap. 5 sono state confermate anche dalle dichiarazioni del teste Santuzzi il quale ha confermato anche la circostanza che il M. " portava la borsa con gli assegni".

Una conferma in tale senso può essere desunta dalle dichiarazioni del teste M. (già responsabile dell'Ufficio Sviluppo di Forlì nell'anno 1997).

Il teste, tra l'altro, ha confermato che c'è stato un periodo in cui il M. provvedeva alla consegna di assegni di importi modesti confermando anche un'altra circostanza allegata dalla difesa M. e che si ritiene non poco rilevante ai fini del presente giudizio.

Ci si riferisce al fatto che il M., nel periodo in cui era addetto all'Ufficio Sviluppo, " dipendeva" dal M. essendo quest'ultimo (come detto) il responsabile di tale Ufficio mentre in precedenza (primi anni 1990) tale rapporto gerarchico era esattamente rovesciato.

Tale situazione per il M. non è certo migliorata con il suo "passaggio" nel mese di settembre 1997 all'Ufficio Titoli di Forlì.

Il teste L. ha confermato il capitolo 8 note istruttorie difesa M., con in quale, in buona sostanza, è stato allegato che il M., una volta trasferito a tale Ufficio Titoli, non si era visto assegnati compiti specifici, anche perché - il teste L. ha espressamente confermato anche tale circostanza- nell'organico di tale Ufficio Titoli non era previsto alcun Quadro Super.

Le circostanze di cui al precitato capitolo 8 sono state pienamente confermate anche dal teste S. che ha pure confermato (come visto) la circostanza della consegna degli assegni da parte del M..

Il teste M., a sua volta, ha riferito la circostanza che, all'interno dell'Ufficio Titoli, il M. dipendeva dalla persona preposta a tale ufficio, vale a dire il sig. C..

Ha specificato, sempre con riferimento alla attività lavorativa del M. che " io non vedevo che facesse qualche cosa di particolare " al punto che il M. " mi chiese se poteva aiutarmi perché non aveva da fare niente. Io ero oberato in periodo di dichiarazione dei redditi".

Che le predette dichiarazioni siano attendibili e corrispondenti al vero lo si può bene desumere dalle dichiarazioni rilasciate dal proprio teste C., Capo Ufficio Titoli a Forlì dal 1989 al 2000.

Lo stesso è stato estremamente chiaro nel riferire, in buona sostanza, che quando il M. fu adibito a tale Ufficio Titoli "venne il funzionario con il M. dicendomi che era addetto all'ufficio ma non mi disse i compiti" assegnati allo stesso, cosa già di per sé rivelativa del come il M., come dallo stesso sempre allegato, fu assegnato tale Ufficio senza l'attribuzione di specifiche mansioni.

Il teste, poi, ha specificato (e tale specificazione è assolutamente rilevante di per sé e risulta essere perfettamente coerente con quanto sopra ricordato) che il M., sulla base delle disposizioni date da esso teste, " dava una mano" all'interno di tale Ufficio Titoli che erano gravato da un considerevole arretrato.

Non solo ma il C. ha anche confermato che il M. ovviamente dipendeva, per la sua ridotta e generica attività svolta presso l'Ufficio Titoli, gerarchicamente da tale teste (quale Capo di tale Ufficio Titoli) e ciò malgrado il M. avesse un inquadramento superiore (Quadro Super) a quello attribuito ad esso C. (Capo ufficio) al punto che il teste ha espressamente (ad ulteriore riprova della piena attendibilità delle sue dichiarazioni) riconosciuto la difficoltà che provava per tale situazione.

I testi L. e B., a loro volta, hanno poi riferito dei difficili rapporti (giusto per usare un eufemismo) che si erano instaurati tra il M. ed il dott. P. dopo l'arrivo di quest'ultimo (giugno 1996) alla Direzione della Filiale di Forlì, parlando entrambi i testi della " caduta in disgrazia" del M. in coincidenza di tale arrivo.

La situazione lavorativa del M. non è certo migliorata dopo il suo trasferimento a Rimini presso l'Ufficio Fidi dove - come detto- gli furono assegnati, i compiti di " supporto gestori clientela imprese".

Quindi a Rimini, per stessa ammissione della Banca appellante principale e per quanto riferito dai testi sentiti sul punto (v. dichiarazioni Panseca e Forasassi), il M. andò a svolgere una funzione di mero supporto, di semplice collaborazione prestata ai gestori clientela impresa che lavoravano presso la Succursale di Rimini.

Si trattava (come già ricordato) dei sigg.ri F., C. e Z. (v. dichiarazioni F.) che erano coordinati dal predetto F. (funzionario della Banca) mentre il C. era inquadrato come Quadro Super ed lo Z. quale Quadro " non so se Super o meno" (v. sempre dichiarazioni F.).

In realtà Z. (v. capitolo 18 note istruttorie 27 aprile 2006 depositate dalla difesa della Banca) era inquadrato in III Area, 4° Livello e, quindi, aveva un inquadramento inferiore a quello attribuito al M..

Il F.i ha specificato che il M., arrivato a Rimini, aveva qualche volta lavorato con il C. prima che il M. stesso venisse assegnato ad esso teste specificando che i rapporti diretti con la clientela erano, comunque, tenuti dal teste che dava al M. le disposizioni sul lavoro da svolgere (" io dicevo al M. cosa doveva fare").

Il che consente di affermare che al M., a tutto concedere, vennero affidati compiti sostanzialmente identici a quelli in quel periodo assegnati e svolti dal P.M., che pure svolgeva compiti di supporto gestore risultando, però inquadrato come Vice Capo Ufficio.

Una conferma in tale senso la si può desumere proprio dalla dichiarazioni testimoniali rese dal predetto P. il quale, in buona sostanza ed in sintesi, dopo avere confermato che il M. non aveva (come i gestori F.,C. e Z.) un proprio sia pure ridotto portafoglio clienti, ha espressamente riconosciuto che il M. " come me svolgeva compiti su incarico di un gestore, si trattava di compiti ausiliari".

Il che equivale a dire che il M. svolgeva compiti propri di chi (P.) aveva un inquadramento ben inferiore al suo e nello svolgimento di tali compiti era subordinato ai veri e propri gestori clientela impresa pur avendo tali gestori (un inquadramento pari (C.) al suo o addirittura inferiore (Z.).

 

E' proprio la ricostruzione dei fatti come sopra operata che consente di respingere il motivo di appello in esame.

 

E' circostanza pacifica ed incontestata in causa che il M. nel mese di novembre 1993 aveva ottenuto la qualifica di Quadro Super (IV Area professionale, 2° livello retributivo).

 

L'art. 17 del CCNL 19 dicembre 1994 (v. allegato 10 produzioni difesa M. primo grado) definisce la declaratoria dei quadri della IV Area Professionale nel seguente modo:

"appartengono a questa area i lavoratori che - in posizione superiore agli appartenenti alla III Area professionale- sono stabilmente incaricati di svolgere attività che comportano particolari responsabilità nel coordinamento e/o controllo di altri lavoratori, ovvero elevata responsabilità funzionale o preparazione professionale, con facoltà decisionale nell'ambito delle direttive ricevute per il conseguimento degli obiettivi aziendali e facoltà di firma sociale compatibili con il relativo grado di autonomia e discrezionalità.

Nell'ambito della predetta declaratoria sono inquadrati nella presente Area i lavoratori stabilmente incaricati di svolgere attività specialistiche caratterizzate generalmente dal possesso di metodologie professionali complesse, da procedure prevalentemente non standard, con input parzialmente definiti ed in contesti sia stabili che innovativi.

Sono altresì inquadrati nella presente Area i lavoratori stabilmente incaricati di svolgere attività comportanti responsabilità nel coordinamento e/o controllo di altri lavoratori appartenenti alla presente e/o alla III Area, nell'ambito di unità operative o nuclei di lavoro (uffici, sezioni, servizi, reparti, sedi, filiali, succursali, agenzie sportelli, comunque denominati) di significative dimensioni".

 

A titolo esemplificativo, si riconducono a detta Area, 1° Livello (ex qualifica Quadro) " i preposti a dipendenza (filiale, agenzia...) qualora nella stessa siano stabilmente addetti quattro elementi" ed al 2° Livello (ex qualifica di Quadro Super) " i preposti a dipendenza (filiale, agenzia..) qualora alla stessa sia stabilmente addetti almeno cinque elementi".

Proprio in coerenza con tale inquadramento nel mese di dicembre al M. era stata assegnata la titolarità della Agenzia n. 1 di Forlì e tale assegnazione non è stata mai certamente contestata dal M. perché perfettamente corrispondente alla declaratoria di Quadro Super dallo stesso posseduta da piu" di un anno.

Se così è, l'attività di lavoro svolta dal M. nel periodo in esame (gennaio 1997 in avanti fino al febbraio 2001) francamente non è dato capire come ed in che modo possa dirsi corrispondente alla predetta declaratoria atteso che le attività di lavoro come sopra ricostruite sulla base delle dichiarazioni dei testi

- non hanno certo comportato alcuna responsabilità nel coordinamento e/o controllo di altri lavoratori appartenenti alla stessa Area e/o alla III Area nell'ambito di unità operative di significative dimensioni e ciò per la semplice ragione che il M. non ha benché minimamente svolto alcuna attività di coordinamento e/o controllo di altri lavoratori con pari qualifica o con qualifica inferiore, nell'ambito di unità operative o nucleo di lavoro di significative dimensioni

- non hanno comportato lo svolgimento di attività caratterizzate da una elevata responsabilità funzionale o preparazione professionale con facoltà decisionale (sia pure nell'ambito della direttive ricevute per il conseguimento degli obiettivi aziendali) e facoltà di firma, compatibili con il relativo grado di autonomia e discrezionalità.

 

Il M. in tale periodo (v. periodo di lavoro presso l'Ufficio Sviluppo) non solo non ha coordinato o controllato altri lavoratori ma addirittura era di fatto subordinato al dipendente della Banca preposto a tale ufficio Sviluppo (il sig. M.) che in precedenza (quando la carriera del ricorrente procedeva del tutto regolarmente e per lui del tutto positivamente) era stato sottoposto gerarchicamente al M..

Nel periodo in esame una delle attività maggiormente caratterizzanti l'impegno lavorativo del M. era quella (cui hanno fatto riferimento altri testi oltre il M.) di consegnare ai clienti della Banca assegni circolari, con lo svolgimento, quindi, di un compito non certo caratterizzato (giusto per usare un eufemismo) da elevata responsabilità funzionale o preparazione professionale,e, nel contempo ed ovviamente, del tutto privo di facoltà decisionale e di poteri di firma.

Considerazioni identiche possono essere fatte con riferimento al lavoro prestato dal M. all'interno dell'Ufficio Titoli dove (come visto) si limitava a "dare una mano" (per usare l'efficace espressione del teste C., Capo dell'Ufficio Titoli), dipendendo dal C. che aveva un inquadramento inferiore a quello del M., senza ovviamente anche qui svolgere alcuna attività comportante il coordinamento o controllo di altri dipendenti della Banca o compiti di elevata responsabilità funzionale o altrettanto elevata preparazione professionale, con facoltà decisionali e potere di firma.

Tali attività non sono state neppure minimamente svolte dal M. una volta (novembre 1998) trasferito a Rimini posto che all'interno dell'Uffici Fidi di tale Succursale il M., quale "supporto gestori clientela imprese", si limitava a svolgere (come dice il termine stesso " supporto" e come è stato confermato dalle dichiarazioni dei testi sopra ricordati) compiti ausiliari rispetto alla attività svolta dai tre gestori ivi operanti (soprattutto con specifico riferimento alla attività svolta dal F.), con lo svolgimento concreto di compiti di supporto che, al piu', erano sostanzialmente identici a quelli svolti dal collega P., che, come Vice Capo Ufficio, aveva un inquadramento ben inferiore a quello del M..

 

Tutto ciò consente di respingere il motivo di appello in esame proprio in applicazione di quel consolidato orientamento giurisprudenziale (v., tra le altre, Cass. n. 10091/2006; Cass. n. 6326/2005) secondo il quale l'equivalenza delle mansioni che, ex art. 2103 c.c., condiziona la legittimità dell'esercizio dello " ius variandi" del datore di lavoro, va verificata sia sotto il profilo oggettivo (e cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione) sia sotto il profilo soggettivo (che implica l'affinità professionale delle mansioni nel senso che le nuove devono armonizzarsi con quelle capacità professionali acquisite dall'interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi).

Nel caso di specie si ravvisa la violazioni di entrambi i predetti profili.

Il profilo c.d. oggettivo è stato violato per le ragioni sopra esposte.

Il profilo soggettivo è stato parimenti violato atteso che non è dato francamente capire come le mansioni attribuite dalla datrice di lavoro al M. (sostanzialmente di ausilio e collaborazione ad altri colleghi, se non di pura e semplice attività esecutiva - leggi consegna assegni-) con riferimento al periodo oggetto di questa decisione possano dirsi professionalmente affini a quelle acquisite dall'interessato durante la pregressa fase del suo rapporto di lavoro (e ciò con specifico riferimento allo svolto incarico di titolare di agenzia) né è dato capire come tali mansioni ausiliarie, di collaborazione e puramente esecutive possono avergli consentito di affinare e sviluppare la professionalità raggiunta in precedenza.

Pertanto, riassumendo, dal gennaio 1997 (come accertato nella sentenza di primo grado) il M. ha svolto all'interno della Banca datrice di lavoro mansioni non corrispondenti, ovviamente per difetto, alla qualifica di Quadro Super ottenuta da alcuni anni, il che integra la lamentata violazione dell'art. 2103 c.c. ed impone il rigetto del motivo di appello in esame, con conseguente conferma della sentenza di primo grado nel punto in cui ha condannato la Banca a reintegrare il M. nelle mansioni svolte prima dell'anno 1997 o in mansioni equivalenti..

 

 

Danni subiti dal ricorrente/ appellante incidentale

Accertato il demansionamento subito dal ricorrente/ appellante incidentale, occorre ora esaminare la domanda risarcitoria dallo stesso ritualmente proposta in primo grado con la quale ha chiesto la condanna di controparte al risarcimento dei danni subiti che ha così individuato e specificato:

1) danno alla professionalità

2) danno per perdita di chance

3) danno biologico permanente.

Il Giudice di primo grado ha sostanzialmente disatteso tale richiesta ritenendo (v. pag. 26 sentenza), con riferimento alla necessità di "quantificare il danno subito per indicare il risarcimento dovuto alla parte ricorrente", che "sul punto specifico questo giudice ritiene che le valutazioni dei consulenti non siano condivisibili perché non ancorate a criteri oggettivi o, nel caso della asserita invalidità, perché riferiti a situazioni che possono risultare non definitive in quanto tendenzialmente con la eliminazione delle cause del mobbing si eliminano o si riducono sensibilmente le conseguenze negative in termini di patologie derivate.

Pure i richiami generici a perdita di chances lavorative o per demansionamento appaiono difficilmente applicabili al caso concreto per la sua riconducibilità ad un altro, più complesso fenomeno che può sostanzialmente ricomprendere tutte le voci indicate. Occorrerà cercare altra strada per valutare l'aspetto del risarcimento dovuto per il già definito sofferto danno esistenziale...."

E quanto affermato in tale parte della impugnata sentenza si deve,poi, leggere alla luce di quanto affermato poche pagine prima di tale sentenza, nel punto in cui (v. pagg. 22 e ss.) il giudice di primo grado ha fatto espresso riferimento alla nozione di danno esistenziale, ritenendo tale danno particolarmente congeniale alla fattispecie del mobbing.

 

 

Ciò fatto il Giudice di primo grado ha individuato due specifici periodi:

 

1) quello dal gennaio 1997 all'ottobre 1998

 

2) quello dal novembre 1998 al febbraio 2001.

 

Prendendo, poi, come punto di riferimento la retribuzione mensile del M. (pari ad allora cinque milioni di lire), per il primo periodo ha stimato equa una valutazione del danno rapportata al 20% della retribuzione mensile, moltiplicato per i mesi di tale fase, per un totale di allora L. 22.000.000.

Per la seconda fase ha aumentato la percentuale al 30% "arrivando così ad un milione e mezzo di lire che moltiplicato per i mesi porta ad una somma di quarantadue milioni".

Ha, quindi, condannato al convenuta Banca al pagamento in favore del ricorrente della complessiva somma di allora L. 64.000.000, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo definitivo.

La difesa del M. ha proposto appello incidentale avverso tale decisione contestando " la sentenza nella parte in cui ha ricondotto tutte le ipotesi di danno prospettate e provate in corso di causa al cosiddetto danno esistenziale senza motivare in ordine a detta scelta che appare arbitraria di fronte alla pure riconosciuta in sentenza dequalificazione ed improvvisa interruzione di carriera, nonché lesione della integrità psico fisica".

 

Ha, quindi, chiesto la condanna di controparte al risarcimento dei danni così specificati e quantificati, tenendo anche conto delle conclusioni cui era giunto il CTU nominato in primo grado:

 

A) somma pari al 70% della retribuzione a titolo di danno alla professionalità per il periodo considerato

 

B) somma pari al 30% della retribuzione a titolo di danno per perdita di chance per il periodo considerato

 

C) danno biologico permanente pari alla percentuale del 7/8% assumendo a riferimento la somma di l. 1.000.000 mensili (euro 516,46) assunta in sentenza, senza corresponsione di interessi e rivalutazione monetaria, se non dalla data della sentenza, oppure la retribuzione annua del ricorrente pari a circa L. 65.000.000 (euro 33.569,70) come da buste paga allegate, in tal caso, oltre interessi e rivalutazione monetaria".

 

Tale appello incidentale è fondato solo nei limiti di cui oltre.

 

E' certamente fondato quando critica, in buona sostanza, la sentenza di primo grado per avere liquidato un danno (il c.d. danno esistenziale) mai richiesto dal ricorrente che ovviamente non ha allegato, nel suo ricorso di primo grado, fatti integranti tale fattispecie di danno.

Il M. (è sufficiente la lettura del suo ricorso e delle conclusioni ivi prese; v. anche le conclusioni prese nella memoria di costituzione in appello con proposizione di appello incidentale) ha sempre ed unicamente chiesto la condanna di controparte al risarcimento dei seguenti, ben specificati ed individuati danni:

- 1) danno alla professionalità

- 2) danno per perdita di chance

- 3) danno biologico permanente.

 

Pertanto, proprio alla luce della chiarezza delle richieste risarcitorie del M. e dei danni come specificatamente allegati e dettagliati (sia nel ricorso di primo grado che nella memoria di costituzione con appello incidentale depositata in appello), non si ritiene rilevante affrontare la questione in ordine alla sussistenza/ insussistenza del c.d. danno esistenziale, anche e soprattutto alla luce delle recenti sentenze della Corte di Cassazione Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. nn. 26972-3-4-5/2008; cfr. Cass. Sez. Unite n. 3677/2009) e delle successive decisioni delle Sezioni semplici (cfr. Cass. Sez. III n. 7875/2009, Cass. Sez. lav. 29832/2008), e ciò per la semplice e preliminare considerazione che il risarcimento di tale danno non è, comunque, mai stato chiesto in causa dal M. che, coerentemente, nulla ha allegato in ordine ai fatti integranti (secondo i sostenitori della autonoma configurabilità di tale danno) la esistenza di tale danno, tanto è vero che - significativamente- nel proposto appello incidentale avverso la sentenza di primo grado nella statuizione afferente la individuazione e la liquidazione del danno subito, ha riproposto pari pari la domanda proposta con il ricorso di primo grado volta ad ottenere il risarcimento del danno professionale, il danno per perdita di chance ed il danno biologico permanente, senza la benché minima allegazione, la benchè minima prova e, coerentemente, la benché minima domanda relativamente al c.d. danno esistenziale.

 

E non sembra revocabile in dubbio che il c.d. danno esistenziale liquidato nella sentenza di primo grado sia danno ben diverso dal danno alla professionalità ed al danno per perdita di chance che sono danni di natura patrimoniale (v. in tale senso Cass. Sez. n. 6527/2006 proprio in tema di demansionamento).

 

Ugualmente non sembra revocabile in dubbio che il c.d. danno esistenziale come liquidato nella sentenza in esame sia danno (anche nella prospettazione di chi lo riteneva/ lo ritiene ancora esistente) che non può essere considerato come un danno per così dire equipollente o sovrapponibile al c.d. danno biologico essendo fondato sulla lesione di beni ben diversi dal c.d. bene salute con conseguente necessità di allegazione e prova di fatti ben diversi da quelli integranti la lesione della integrità psico fisica del danneggiato: allegazione e prova, con relativa domanda, che mancano del tutto nelle richieste risarcitorie avanzate dal M. in primo grado e riproposte integralmente con l'appello incidentale.

 

A tale riguardo si richiama quanto affermato condivisibilmente (sia pure prima della decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione dalla Corte di Cassazione n. 26972/5 del 2008) con la sentenza n. 2546 del 2007 nel punto in cui ha chiaramente affermato che il c.d. danno esistenziale (qualora lo si ritenga -come fatto dal Giudice di 1° grado- configurabile) è, in ogni caso, autonoma voce di danno da tenere ben distinta dal c.d. danno morale e dal danno biologico.

 

Tutto ciò precisato, le domande risarcitorie del ricorrente/ appellante incidentale afferenti i lamentati danni da perdita di chance e da danno biologico permanente (quantificato nella percentuale pari al 7/8%) sono da respingere perché non provate in causa mentre è fondata la domanda volta ad ottenere il risarcimento del c.d. danno alla professionalità.

 

A tale riguardo questa Corte di Appello, preliminarmente, ritiene opportuno richiamare quell'orientamento (v. per tutte Cass. Sez. Unite n. 6572/2006, ovviamente prescindendo del tutto, perché non rilevante ai fini del decidere, da quanto deciso in tale sentenza in ordine al c.d. danno esistenziale) secondo il quale - in estrema sintesi- il demansionamento ai sensi dell'art. 2103 c.c. può cagionare:

 

a) un danno professionale di natura patrimoniale (inteso come impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e della mancata acquisizione di maggiore capacità oppure come perdita di chance, vale a dire di ulteriori possibilità di guadagno)

 

b) un danno biologico.

 

Tale decisione va richiamata anche nell'ulteriore punto in cui condivisibilmente ha affermato che con riferimento a tali figure di danno esiste a carico del ricorrente uno specifico onere sia di allegazione dei fatti integranti tali danni sia di prova della esistenza di tale danni, non potendosi accogliere la teoria del c.d. danno in re ipsa.

Proprio in applicazione di tali principi l'appello incidentale in esame non è fondato con riferimento alla figura del c.d. danno per perdita di chance e con riferimento al c.d. danno biologico permanente.

Circa il primo tipo di danno, nel ricorso di primo grado l'unica allegazione fatta a suffragio della correlata domanda risarcitoria afferisce (v. pag. 8 ricorso primo grado) alla circostanza che il ricorrente nel marzo 1994 era stato chiamato a frequentare, superandolo, il Corso per Dirigenti, frequentato da 17 dipendenti provenienti da tutta Italia.

Ha allegato che "nella pressi della Azienda a questa chiamata segue la nomina a Dirigente, in caso di disponibilità di posti e naturalmente perdurando le buone note e la qualità della attività lavorativa svolta".

Ha specificato che la condotta illecita della Banca gli aveva precluso l'aspettativa di promozione a Dirigente ricordando altresì che "recentemente (il ricorso è datata 26.2.1999, ndr) è stato nominato il nuovo Dirigente al Gruppo di Ravenna al quale posto il ricorrente ben poteva concorrere".

Poiché la difesa della Banca ha immediatamente contestato la corrispondenza al vero di tale allegazione, onere del M. era quello di fornire, prima di tutto, la prova di tale allegazione che non è stata adempiuto in causa.

Circa i riscontri testimoniali, nessuno dei testi escussi ha rilasciato dichiarazioni che in qualche modo possano confermare quanto affermato dal M. circa il predetto (per altro non meglio specificato) Corso Dirigenti del mese di marzo 1994 ed in ordine alla prassi aziendale affermata in tale allegazione.

Né è dato comprendere come un riscontro in tale senso possa desumersi dal documento prodotto dalla difesa M. in primo grado e contrassegnato dal n. 7 "partecipazione al Seminario avanzato per dirigenti".

La circostanza che il M. poteva concorrere per la nomina del nuovo dirigente al Gruppo di Ravenna è pure essa semplice affermazione di parte priva di ogni riscontro in causa.

Non vi è quindi prova in concreto di quali aspettative del M., che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state in concreto ed effettivamente frustrate dal subito demansionamento e ciò, in applicazione della predetta decisione della Sezioni Unite della Corte di Cassazione, impone il rigetto della domanda risarcitoria del M..

Deve essere respinta anche la domanda del ricorrente/ appellante incidentale diretta ad ottenere il risarcimento del c.d. danno biologico permanente (quantificato in atto di appello nella percentuale del 7/8%).

La prova della esistenza di tale danno non può essere desunta dalla conclusioni cui è giunto il CTU nominato in primo grado, stante la nullità di tale accertamento peritale.

La prova in tale senso non può essere desunta dalle conclusioni cui è pervenuto il CTU nominato nel presente grado di causa che ha concluso il suo accertamento peritale ponendo una doppia diagnosi, una relativa ai tratti stabili di personalità ed una relativa allo scompenso ansioso- depressivo comparso successivamente alla vicenda lavorativa.

Per quanto riguarda la personalità, la intervista clinica libera in presenza dei consulenti di parte, la intervista strutturata SCID-II e la batteria di test psicometrici somministrati dall'ausiliario dott. Ch. concorrono, sempre secondo il CTU, a porre una diagnosi di Disturbo Paranoie di personalità di livello sub-sindromico secondo i criteri del DSM-IVTR.

Per quanto riguarda invece il peggioramento dell'equilibrio psichico e in particolare la sintomatologia ansioso- depressiva e di somatizzazione insorta dopo i fatti di causa si può porre, sempre secondo il CTU, una diagnosi di Disturbo dell'adattamento con aspetti misti ansiosi depressivi, sempre secondo i criteri del DSM-IVTR.

Il CTU ha poi specificato che mentre il disturbo di adattamento è insorto successivamente alle controversie lavorative con la Banca datrice di lavoro, il disturbo sottosoglia di personalità non può ritenersi successivo a tali vicende in quanto i comportamenti del M. nel corso delle vicende lavorative sono stati caratterizzati da difficoltà di adattamento e sintomi indicativi di tale disturbo che, quindi, doveva preesistere all'insorgenza delle problematiche inerenti al suo rapporto di lavoro con la Banca.

Ha affermato il CTU che la sofferenza ed il disagio psichico presentati dal sig. M. possono essere, così, scomposti in due ambiti: un disturbo di adattamento, successivo e reattivo, e un disturbo di personalità sottosoglia riscontrabile durante il periodo del contenzioso e quindi non successivo ad esso.

I due ambiti psicopatologici sono distinguibili tra di loro tanto che la proporzione di patologia pertinente al disturbo dell'adatta,mento è stata quantificata in un periodo di sofferenza psicologica temporalmente limitato della durata di sei mesi, scomponibile in due mesi al 75% della totale; in due mesi al 50% ed in due mesi al 25%.

 

Quindi si può affermare che l'accertamento peritale effettuato nel presente grado giudizio non ha appurato in alcun modo la esistenza del lamentato danno biologico permanente, meno che meno nella pure ridotta percentuale affermata nell'appello incidentale.

 

E tali conclusioni peritali vengono integralmente fatte proprie da questa Corte di Appello essendo il frutto di un lavoro estremamente approfondito, fondato sulla documentazione regolarmente prodotta in atti e sulla intervista clinica libera del M. in presenza dei CTP, sulla c.d. intervista strutturata SCID-II e sulla batteria di test psicometrici somministrati al M. dall'ausiliario del CTU, nonché su di un approfondito confronto dialettico con le valutazioni e conclusioni dei CTP di parte di cui il CTU ha dato abbondante conto sia nella relazione peritale sia nei successivi chiarimenti depositati in risposta ai rilievi critici della difesa e del CTP del M., dando anche debitamente, in maniera approfondita ed argomentata conto non solo delle ragioni che lo hanno portato alle conclusioni sopra ricordate ma anche delle ragioni di dissenso delle osservazioni critiche formulate dalla sua relazione peritale da parte del CTP del M...

 

Con riferimento a tali rilievi critici il CTU (v. chiarimenti depositati in data 21 settembre 2009) ha, infatti, ribattuto in maniera chiara ed esaustiva alle osservazioni critiche del CTP del M. e bene sintetizzate alla pag. 2 di tali chiarimenti, ulteriormente ribadendo ed ancora piu" dettagliatamente illustrando le ragioni delle conclusioni cui era giunto al termine della attività peritale ed illustrate nella originaria relazione peritale e, nel contempo, illustrando in maniera analitica e convincente le ragioni che lo hanno portato a non accogliere, neppure in parte, le predette osservazioni critiche e ciò con specifico riferimento all'accertato disturbo sottosoglia diagnosticato al M. ed alla preesistenza di tale disturbo alla insorgenza dei fatti oggetto del presente giudizio.

 

La difesa del M. ha (v. verbale udienza 3 novembre 2009) eccepito la nullità di tale relazione peritale per grave violazione del principio del contraddittorio rispetto alle modalità di svolgimento della CTU e ciò in quanto la CTU si è fondata su di un esame psicologico al quale non è stata data la possibilità al CTP di partecipare.

 

Se non si è male inteso tale eccezione, la stessa concerne l'attviità svolta dall'ausiliario del CTU dott. Ch. non tanto con riferimento alla somministrazione di test avvenuta nella seduta del 28 luglio 2008 quanto piuttosto ed essenzialmente con riferimento alla successiva seduta del 23 settembre 2009 che, benché anch'essa destinata alla somministrazione di teste (e per questo non prevedeva la partecipazione dei CTP in quanto dei test rimane l'originale documentale e storico da valutare, v. espressamente pag. 2 delle deduzioni difesa M. depositate all'udienza del 3 novembre 2009), in realtà è stata utilizzata per sottoporre il M. ad "intervista clinica strutturata per la diagnosi dei disturbi della personalità" senza la presenza dei CTP (v. sempre pag. 2 di tali deduzioni) con la conseguenza che "i CTP non hanno avuto la possibilità di partecipare ad operazioni (l'indagine psicodinamica mediante colloquio di due ore) non ripetibili né documentabili) sicchè non si è piu" in grado di valutare la correttezza delle conclusioni della CTU e del suo ausiliario (v. sempre le precitate deduzioni difensive).

 

Tale eccezione deve essere preliminarmente respinta perché tardiva e ciò in quanto già dalla relazione del CTU depositata in data 8 ottobre 2008 risulta (v. espressamente pag. 1 parte finale di tale relazione peritale) che "come convenuto con i consulenti di parte, il sig. M. è stato sottoposto a test psicometrici dall'ausiliario dr. Marco Ch. ed in data 23 settembre 2008 è stata sottoposto dallo stesso ad intervista clinica strutturata per la diagnosi dei disturbi di personalità".

 

Quindi tale asserita violazione del diritto di difesa e del diritto di contraddittorio che sarebbe state commessa nell'espletamento delle operazioni peritali doveva (proprio sulla base della giurisprudenza più sopra citata nell'esaminare la problematica della nullità dell CTU espletata in primo grado) essere sollevata dalla difesa del M. nella prima udienza immediatamente successiva al deposito di tale relazione (si tratta della udienza 5 maggio 2009) ed è pacifico (è sufficiente la lettura del verbale di tale udienza) che la difesa M. in tale udienza, pur edotta di quanto sopra dalla lettura della depositata relazione peritale, nulla ha eccepito al riguardo.

La difesa M., infatti, ha depositato rilievi critici alla CTU che non contengono il benché minimo riferimento alla eccezione poi sollevata (tardivamente) all'udienza del 3 novembre 2009.

Tutto questo, sempre sulla base della giurisprudenza sopra ricordata, ha determinato, comunque, la sanatoria della (asserita) violazione in esame.

 

Si dice asserita perché, comunque ed impregiudicato quanto detto sopra, tale violazione non si ravvisa esistente.

 

Dalla relazione dell'ausiliario dott. Ch. risulta che nelle sedute del 28 luglio e del 23 settembre 2008 lo stesso ha proposto al M. alcuni reattivi psicodiagnostica (MSP, ASQ, Rorschach, MMPI- 2, SCID-II) al fine di tracciarne un profilo delle caratteristiche mentali e di personalità.

Alla pag. 3 di tale relazione si legge sub voce "SCID-II" che " sulla base dei risultati del MMPI-2 è stata effettuata l'intervista clinica strutturata per i disturbi di personalità SCID-II al fine di verificare se i criteri per una diagnosi psicopatologia standardizzata fossero soddisfatti.

I risultati dell'intervista indicano che solo l'indice diagnostico del Disturbo paranoie di personalità si attesta a livello 2 (ai di sotto della soglia) mentre non sono soddisfatti i criteri degli altri disturbi indagati...".

Se così è, pare a questa Corte di Appello che " l'intervista clinica strutturata per la diagnosi dei disturbi della personalità" non sia altro che la sottoposizione del sig. M. ad uno dei reattivi psicogniagnostici previsti, piu" esattamente quello denominato SCID-II, come del resto risulta espressamente dalla stessa relazione dell'ausiliario del CTU dott. Ch. che, a pag. 3 di tale relazione" appunto dedica un paragrafo specifico a " SCID-II" e, significativamente l'incipit di tale paragrado è il seguente"

" sulla base dei risultati del MMPI-2 è stata effettuata l'intervista clinica strutturata per i disturbi della personalità SCID-II al fine di verificare..."

 

Si può, quindi, affermare che anche nella seduta del 23 settembre 2008, contrariamente a quanto si legge nella eccezione in esame, il sig. M. è stato semplicemente sottoposto ad uno dei reattivi psicodignostici previsti, piu" esattamente quello denominato SCID-II, così come era avvenuto esattamente nella precedente seduta del 28 luglio 2008 con riferimento agli altri reattivi psicodiagnostica.

Una conferma in tale senso la si ravvisa nella stessa relazione del nominato CTU nella parte di pag. 1 piu" sopra integralmente riportata dalla quale risulta che sia la sottoposizione del sig. M. da parte dell'ausiliario dott. Ch. sia a test psicometrici (seduta del 28 luglio 2008) sia ad intervista clinica strutturata per la diagnosi dei disturbi della personalità è avvenuta " come convenuto con i consulenti di parte".

Una riprova in tale senso la si può desumere anche dagli stessi chiarimenti forniti dal CTU nel punto in cui (v. pag. 2) dà atto che " il contenuto della relazione del dr. Ch. era ben noto ai consulenti in quanto presentato direttamente ad essi dal suo estensore in precedente incontro tra i periti" e ciò nonostante le pure articolate osservazioni critiche del CTP del sig. M., depositate dalla difesa all'udienza del 5 maggio 2009, nulla eccepiscono in ordine alla procedura seguita dall'ausiliario nelle sedute del 28 luglio e 23 settembre 2008.

 

 

Come detto è,invece, fondata la domanda risarcitoria proposta dal ricorrente/ appellante incidentale e volta ad ottenere il risarcimento del danno alla professionalità lamentata a seguito del subito demansionamento.

 

Circa la prova della esistenza di tale danno (inteso come pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di maggiore capacità) la giurisprudenza di legittimità è consolidata (e tale orientamento viene qui condiviso) nell'affermare che il lavoratore non ha solamente l'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del lamentato demansionamento ma deve anche provare il danno subito/ i danni subiti in conseguenza e per effetto di tale demansionamento, non potendosi accogliere la tesi di coloro i quali affermano la esistenza in re ipsa di tali danni, una volta accertata la esistenza del lamentato demansionamento dovendosi distinguere la esistenza della lesione dalla esistenza del danno con la conseguenza che la esistenza del danno non può essere fatta automaticamente (in re ipsa, appunto) coincidere con la esistenza della provata lesione.

E tale prova può essere fornita con tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione, ivi compresa la prova per presunzioni sulla base di elementi di fatto relativi a qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa; tipo di professionalità colpita; durata del demansionamento; esito finale della dequalificazione; altre circostanze del caso concreto (v. oltre che la piu" volte citate Cass. Sez. Unite n. 6572/2006, anche Cass. n. 21223/2009; Cass. n. 4652/2009).

Proprio applicando tale orientamento giurisprudenziale al caso oggetto di causa si deve concludere per la fondatezza della domanda in esame risultando debitamente allegato e provato, quanto meno con l'utilizzo delle presunzioni di cui sopra, il danno alla professionalità lamentato dal M..

Il demansionamento subito dal M. ha riguardato un lavoratore dotato - sulla base dello stesso inquadramento attribuitogli dalla Banca già nel novembre 1993 di c.d. Quadro Super (id est apice della carriera impiegatizia) - di una indubbia ed elevata professionalità, ritenuto idoneo al coordinamento e/o al controllo di altri lavoratori nell'ambito di unità operative o nuclei di lavoro di significative dimensioni, al punto che - proprio in piena coerenza con tale inquadramento- il M. si è visto assegnare, nel mese di dicembre 1994, una incarico di non certo poco conto quale la titolarità della Agenzia n. 1 di Forlì.

Tale demansionamento non è stato certo di breve durata essendosi protratto per alcuni anni, dapprima in quel di Forlì e poi in quel di Rimini.

 

Tale demansionamento si è caratterizzato, in senso pesantemente negativo, per la attribuzione al M. di mansioni di tipo puramente esecutivo e/o ausiliario non richiedenti, per il loro corretto ed efficace esercizio, elevata preparazione professionale o responsabilità funzionale, senza poi dimenticare che,. a differenza della attività svolta come titolare della Agenzia n. 1 di Forlì, il M. nel periodo sopra ricordato non ha certo avuto ed tanto meno esercitato quelle facoltà decisionali e di firma sociale che pure essere rientrano tra gli elementi fondamentali caratterizzanti l'attività del lavoratore inquadrato come Quadro Super.

 

Men che meno il M. ha in tale arco di tempo coordinato o controllato altri lavoratori nell'ambito di unità operative o nuclei di lavoro di significative dimensioni.

Uno dei testi escussi (si tratta del teste C., Capo Ufficio Titoli a Forlì dal 1989 al 2000) ha utilizzato, al riguardo, una espressione molto significativa quando ha ricordato che "il M. ci dava una mano" e questo sembra essere proprio - sulla base delle risultanze probatorie sopra ricordate- il filo rosso (inteso come semplice attività ausiliaria di supporto e di collaborazione) che ha caratterizzato l'attività del M. dal gennaio 1997 in avanti dapprima all'interno dell'Ufficio Sviluppo, poi all'interno dell'Ufficio Titoli di Forlì e poi ancora presso la Succursale di Rimini.

Circa gli esiti finali di tale demansionamento, si può affermare che le prove sopra ricordate testimoniano di una altrettanto forte marginalizzazione del M. nell'ambiente di lavoro che lo ha portato dalla titolarità della Filiale n. 1 di Forlì a diventare un dipendente della Banca che (v., ad esempio, le dichiarazioni del teste M.) offriva la propria collaborazione ad altri colleghi (sebbene addetti ad altri Settori) che, a loro volta, (v. sempre dichiarazioni M.), benché oberati di lavoro, si sono visti " sconsigliare" da altri dipendenti dall'accettare tale disponibilità del M..

 

Si può quindi ragionevolmente ritenere che una tale situazione di fatto non possa non avere inciso negativamente ed anche in misura decisamente sostanziale ed accentuata sulla preparazione professionale del M. che non solo non si è implementata ma è stata sicuramente impoverita dall'esercizio protratto negli anni delle predette dequalificanti mansioni.

Ugualmente tale situazione di fatto ha inciso negativamente sulle concrete capacità (dimostrate sul campo dal M. quale titolare della Agenzia n.1 di Forlì) di coordinamento e/o controllo del lavoro altrui non essendo state tali capacità mai esercitate nel periodo in esame, senza dimenticare che le responsabilità di coordinamento e/o controllo dei altri lavoratori si accompagnano anche ad una sorta di prestigio personale correlato alla titolarità ed al concreto esercizio di tali responsabilità che non può non essersi fortemente affievolito in un lavoratore come il M. che (come detto) si offre di aiutare altri colleghi (oltretutto addetti ad un Ufficio diverso) perché (v. sempre dich. Marri)" mi disse che non aveva nulla da fare", o che - dopo essere stato il responsabile di una Agenzia della Banca- si vede ordinato di curare con continuità la semplice consegna materiale di assegni circolari.

Circa la concreta ed equitativa quantificazione di tale danno si può utilizzare, come semplice parametro di riferimento, l'importo (non contestato) della retribuzione percepita dal M.,(pari in allora a circa L. 5.000.000 al mese) rapportando e quantificando il danno professionale da quest'ultimo subito ad una determinata percentuale di tale retribuzione (per la correttezza di tale metodo v. la precitata Cass. n. 4652/2009 che ha, appunto, confermato la sentenza di Appello che nel quantificare il danno professionale da demansionamento aveva fatto riferimento dalla retribuzione percepita dai lavoratori demansionati con applicazione di una determinata percentuale).

 

Tale percentuale, proprio sulla base della oggettivamente grave entità qualitativa e quantitativa del demansionamento sofferto, appare equo determinarla nella misura pari al 40% per il periodo di lavoro svolto dal M. in quel di Forlì e nella percentuale del 60% per il periodo di lavoro svolto in quel di Rimini risultando tale aumento di percentuale essere giustificato sia dal protrarsi nel tempo di tale demansionamento sia anche dal trasferimento non legittimo da Forlì a Rimini che ha inciso negativamente anch'esso sulla professionalità del M. che non solo si è visto confermare l'assegnazione di mansioni inferiori al suo inquadramento ma si è visto, in buona sostanza, anche allontanato da quello che era l'ambiente di lavoro in cui aveva svolto la sua fino a tutto l'anno 1995 brillante carriera, con correlato sviluppo della sua professionalità.

Pertanto, per tale voce di danno, occorre condannare la BA.A.P.V. soc. coop per azioni a r.l., come in atti rappresentata, al pagamento in favore di M.G. della somma di euro 64.000,00 così determinata al momento di emanazione della sentenza di primo grado, oltre interessi legali da tale sentenza al saldo.

La difesa del M., all'udienza del giorno 5 maggio 2009, ha chiesto "ai sensi della emanazione della sentenza della Cassazione 26972/2008, la liquidazione di tutti i danni non patrimoniali, che hanno leso l'immagine del ricorrente e la sua identità personale e che ne hanno determinato la sofferenza psichica per tutto il periodo di comportamento illecito della Banca".

Si tratta di conclusioni che si ritiene non abbiamo alcuna sostanziale rilevanza nel presente giudizio

- sia perché si fa riferimento a danni non patrimoniali per (se non si è male inteso) violazione dell'immagine e della identità personale del ricorrente e per sofferenza psichica protrattasi per tutto il periodo di comportamento illecito di controparte di cui non vi è la benché minima allegazione e domanda nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e nella memoria di costi
 

 

 

P.Q.M.

 

 La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo,

 

in parziale accoglimento sul punto dell'appello principale, dichiara la nullità della sentenza di 1° grado per vizio di ultrapetizione con riferimento alla domanda di mobbing; in parziale accoglimento dell'appello incidentale condanna la BA.A.P.V. soc. coop. per azione a r.l., come in atti rappresentata, al risarcimento del danno alla professionalità subito da M.G. che si determina equitativamente in euro 64.000,00 con determinazione al momento della sentenza di 1° grado, oltre interessi legali da tale sentenza al saldo.

Conferma nel resto la impugnata sentenza.

Compensate in ragione della metà le spese del presente grado di causa, condanna la predetta Banca alla rifusione in favore di M.G. della restante metà che si liquida nell'importo di euro 6.000,000 di cui euro 3.500,00 per onorari oltre Iva e Cpa come per legge.

Pone definitivamente a carico della predetta Banca le somme liquidate al CTU.

Bologna, 3/11/2009.

Dep. in cancelleria il 22/02/2010