Cassazione Penale, Sez. 6, 20 dicembre 2010, n. 44644 - Individuazione del datore di lavoro nella P.A.


 

D.G.M., imputato del reato di cui all'art. 314 c.p., nella sua qualità di dipendente pubblico in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo (successivamente trasferito d'ufficio presso il Tribunale di Rovigo con qualifica di ausiliario) e rinviato a giudizio per tale fatto innanzi al Tribunale di Rovigo, presieduto dal Dott. D., ha presentato istanza di ricusazione nei confronti di detto magistrato, in quanto, a suo avviso, il Dott. D., Presidente del Tribunale e del Collegio chiamato a giudicarlo, quale capo dell'ufficio, doveva considerarsi figura assimilata al datore di lavoro, ricorrendo pertanto l'ipotesi di cui all'art. 36 c.p.p., lett. b), e art. 37 c.p.p..

 

La Corte afferma che "al di là di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge, l'equiparazione del capo dell'ufficio giudiziario al datore di lavoro nei confronti del personale amministrativo rappresentava una evidente forzatura del dato normativo, trattandosi con tutta evidenza di rapporto regolamentato in via pubblicistica e svolto in maniera impersonale e obiettiva, oltre che mediato da altre figure professionali. D'altra parte il fatto che nel caso in esame, per ragioni contingenti, era mancante il dirigente amministrativo, pur comportando il temporaneo svolgimento da parte del capo dell'ufficio giudiziario di talune competenze normalmente riservate al primo, era circostanza che non spostava in alcun modo i termini della questione, posto che comunque si trattava di competenze che non incidevano sulla titolarità del potere disciplinare nei casi più gravi, quale quello di specie.
Questa Corte ha già chiarito che "l'interesse nel procedimento", cui fa riferimento l'art. 36 c.p.p., comma 1, lett. a), è quello per il quale il giudice ha la possibilità di rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l'attività giurisdizionale che è stato chiamato a svolgere nel processo oppure che si è venuta a creare sulla base di rapporti personali svoltisi al di fuori del processo".


 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO' Antonio - Presidente -
Dott. SERPICO Francesco - Consigliere -
Dott. MILO Nicola - Consigliere -
Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere -
Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
 

sentenza

 

                 
sul ricorso proposto da:
D.G.M., nato a (OMISSIS);
avverso  l'ordinanza  in  data 24-5-10  della  Corte  di  Appello  di Venezia, sezione 1^ penale;
Visti gli atti, l'ordinanza impugnata ed il ricorso;
Udita la relazione fatta dal Consigliere, Dott. Vincenzo Rotundo;
Lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sost. Proc. Gen.,  Dott.  SELVAGGI Eugenio, con le quali,  in  data  23-9-10,  si conclude per il rigetto del ricorso. 
                

Fatto

 

 

1. D.G.M., imputato del reato di cui all'art. 314 c.p., commesso in data (OMISSIS) nella sua qualità di dipendente pubblico in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo (successivamente trasferito d'ufficio presso il Tribunale di Rovigo con qualifica di ausiliario) e rinviato a giudizio per tale fatto innanzi al Tribunale di Rovigo, presieduto dal Dott. D., ha presentato istanza di ricusazione nei confronti di detto magistrato, in quanto, a suo avviso, il Dott. D., Presidente del Tribunale e del Collegio chiamato a giudicarlo, quale capo dell'ufficio, doveva considerarsi figura assimilata al datore di lavoro, ricorrendo pertanto l'ipotesi di cui all'art. 36 c.p.p., lett. b), e art. 37 c.p.p..

Tale conclusione, ad avviso dell'istante, era rafforzata dal fatto che presso il Tribunale di Rovigo era vacante il ruolo di dirigente amministrativo, sicchè i compiti di controllo sul personale dovevano ritenersi attribuiti al capo dell'ufficio giudiziario.
Infine, ad avviso del D.G., il Presidente del Tribunale, quale capo dell'ufficio giudiziario, era portatore di un interesse all'esito del giudizio penale in questione, che riguardava fatti posti in essere da esso D.G. quale dipendente della amministrazione giudiziaria.
Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Venezia ha rigettato la predetta istanza di ricusazione avanzata da D. G.M., osservando che la equiparazione del capo dell'ufficio giudiziario al datore di lavoro del personale amministrativo rappresentava una evidente forzatura del dato normativo e che l'interesse al procedimento rilevante ai sensi dell'art. 36 c.p.p., comma 1, lett. a), consiste nella possibilità per il Giudice di rivolgere a proprio vantaggio l'attività giurisdizionale che è chiamato a svolgere nel processo, cosa che certamente non ricorreva nel caso di specie.

 

2. Avverso la suindicata ordinanza della Corte di Appello di Venezia ha proposto ricorso per cassazione il D.G., tramite il suo difensore, chiedendone l'annullamento.
Il ricorrente ricorda che chiamato a presiedere il Collegio che doveva giudicarlo era lo stesso capo dell'ufficio giudiziario al quale egli era stato assegnato e ribadisce che, inoltre, presso il Tribunale di Rovigo, mancava la figura del dirigente amministrativo, di modo che le funzioni di quest'ultimo soggetto erano di fatto attratte alla stessa figura del Presidente del Tribunale. In particolare la mancanza della figura del dirigente amministrativo avrebbe determinato il venir meno di quella sorta di isolamento ordinariamente interposto tra il capo dell'ufficio giudiziario ed il personale in servizio presso l'ufficio medesimo.
Quanto al secondo profilo prospettato, il ricorrente sottolinea che il procedimento disciplinare a carico del D.G. per gli stessi fatti per cui egli era imputato era attualmente sospeso in attesa proprio del processo penale. Nessun rilievo avrebbe dovuto, infine, attribuirsi alla circostanza che i fatti oggetto della imputazione penale erano maturati durante il periodo in cui il D.G. era impiegato presso gli uffici della Procura della Repubblica, in quanto ciò che avrebbe dovuto rilevare era soltanto che attualmente il D. G. si trovava alle dipendenze dell'Ufficio Giudiziario diretto dallo stesso Presidente del Collegio chiamato a giudicarlo.

3. Il ricorso è infondato.


Correttamente la Corte di Appello di Venezia ha ritenuto che, al di là di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge, l'equiparazione del capo dell'ufficio giudiziario al datore di lavoro nei confronti del personale amministrativo rappresentava una evidente forzatura del dato normativo, trattandosi con tutta evidenza di rapporto regolamentato in via pubblicistica e svolto in maniera impersonale e obiettiva, oltre che mediato da altre figure professionali. D'altra parte il fatto che nel caso in esame, per ragioni contingenti, era mancante il dirigente amministrativo, pur comportando il temporaneo svolgimento da parte del capo dell'ufficio giudiziario di talune competenze normalmente riservate al primo, era circostanza che non spostava in alcun modo i termini della questione, posto che comunque si trattava di competenze che non incidevano sulla titolarità del potere disciplinare nei casi più gravi, quale quello di specie.
Questa Corte ha già chiarito che "l'interesse nel procedimento", cui fa riferimento l'art. 36 c.p.p., comma 1, lett. a), è quello per il quale il giudice ha la possibilità di rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l'attività giurisdizionale che è stato chiamato a svolgere nel processo oppure che si è venuta a creare sulla base di rapporti personali svoltisi al di fuori del processo (Sez. 6^, Sentenza n. 4452 del 14/11/1997, Rv. 210839, Strazzullo).
In applicazione di questi principi anche il secondo motivo di ricorso è stato ineccepibilmente considerato privo di fondamento dalla Corte di merito, che ha rilevato che il capo dell'ufficio giudiziario non aveva, in quanto tale, alcun interesse ad un determinato esito del procedimento, ma agiva unicamente al fine di correttamente esercitare il potere disciplinare.

 

4. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2010