Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 febbraio 2011, n. 3865 - Rapine e risarcimento del danno biologico di un dipendente delle Poste


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAMORGESE Antonio - rel. Presidente
Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella - Consigliere
Dott. LA TERZA Maura - Consigliere
Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere
Dott. FILABOZZI Antonio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza

 

 sul ricorso proposto da:
POSTE ITALIANE SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175, presso la DIREZIONE AFFARI LEGALI POSTE ITALIANE, rappresentata e difesa dall'avvocato ZUCCARINO LUIGI GIACOMO TOMMASO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
V.M., rappresentato e difeso dall'avvocato IPPOLITO UMBERTO NICOLA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E. TAZZOLI 2, presso lo studio dell'avvocato DI GIOIA ANTONELLA, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 181/2009 della CORTE D'APPELLO di BARI, depositata il 20/01/2009, R.G.N. 1039/04;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/01/2011 dal Presidente Dott. ANTONIO LAMORGESE
 

 

 


 
Fatto

 

La società Poste Italiane ha proposto ricorso per la cassazione della decisione depositata il 20 gennaio 2009, con la quale la Corte di appello di Bari, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto la domanda di V.M., già dipendente di quella società, diretta ad ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico derivante da tre rapine subite, tra il 1989 e il 1991, mentre espletava l'attività lavorativa nell'Ufficio postale di San Severo, ove era stato addetto.
La Corte territoriale ha condannato la datrice di lavoro al pagamento della somma di Euro 125.000,00.
In ordine al danno lamentato, il giudice del gravame ha affermato la responsabilità della società per la mancata predisposizione nel posto di lavoro di adeguate misure di sicurezza e, sulla base della consulenza tecnica di ufficio, rinnovata nel grado, ha ritenuto che i postumi residuati della malattia - per la quale era stata in precedenza riconosciuta sia la causa di servizio che una rendita dell'INAIL - comportano una lesione dell'integrità psico - fisica del lavoratore nella misura del quarantacinque per cento.

Il lavoratore ha resistito con controricorso.

Ravvisati i presupposti per la decisione del ricorso in camera di consiglio, è stata redatta relazione ai sensi dell'art. 380 bis cod. proc. civ., poi ritualmente notificata alle parti e comunicata al Procuratore Generale.
A questa relazione la società ha replicato con memoria.

 

Diritto

 

Il ricorso è articolato in due motivi. Con il primo la ricorrente denuncia difetto di giurisdizione, in quanto i fatti lamentati dal lavoratori quali causa del danno subito si erano verificati quando il regime del rapporto di lavoro era di diritto pubblico, e considerata la responsabilità della società, da ritenersi di natura contrattuale, la fattispecie rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Con il secondo motivo la società denuncia falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. e vizio di motivazione, e con riferimento alla ritenuta natura della responsabilità, sostiene che non è configurabile una condanna in base alla norma denunciata senza individuazione di provvedimenti amministrativi illegittimi o di specifiche prescrizioni di sicurezza all'epoca vigenti; d'altra parte, il giudice del merito non ha compiuto alcuna indagine in ordine alla tecnologia all'epoca in uso per escludere i rischi derivanti da rapine, non potendosi di certo considerare pericolosa, a termini dell'art. 2050 cod. civ., l'attività bancaria.

 

Il ricorso è inammissibile.


Nella relazione ai sensi dell'art. 380 bis cod. proc. civ., si è infatti osservato che trattandosi di impugnazione proposta contro una sentenza pubblicata il 20 gennaio 2009, si devono applicare le modifiche al processo di cassazione introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e in particolare la disposizione dettata dall'art. 366 bis cod. proc. civ., alla stregua della quale l'illustrazione di ciascun motivo di ricorso, nei casi di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), stesso codice, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, e nel caso previsto dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, sempre a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Qui, però, nessuno dei due motivi enuncia con riferimento alle denunciate violazioni di legge alcun quesito di diritto, ed il secondo motivo neppure presenta, con riguardo al vizio riconducibile all'ipotesi di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, quella indicazione riassuntiva e sintetica, che circoscrivendo puntualmente i limiti delle censure, consenta al giudice di valutare immediatamente l'ammissibilità delle doglianze allorchè si lamentino vizi di motivazione, indicazione qui tanto più necessaria considerati i diversi profili di censura esposti.
Il Collegio condivide le argomentazioni ora richiamate, le quali non possono ritenersi adeguatamente confutate dalle deduzioni svolte dalla società in memoria, laddove sostiene che il quesito di diritto per il primo motivo è stato enunciato nella esposizione del mezzo di annullamento, e quello afferente la responsabilità è da ravvisarsi nel richiamo alla normativa da applicarsi nel caso concreto, cioè all'art. 2087 cod. civ.

A questo riguardo va rilevato che l'adempimento della prescrizione imposta dal citato art. 366 bis cod. proc. civ. con riferimento al quesito di diritto non si può ritenere assolto per la possibilità di desumere il quesito dalla esposizione della censura, non essendo in tal modo integrato lo schema legale stabilito dalla medesima norma per la formulazione dei motivi del ricorso per cassazione. Si è infatti sottolineato che a tal fine non può considerarsi sufficiente una formulazione implicita del quesito dalla esposizione del motivo di ricorso, perchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell'abrogazione tacita della norma di cui all'art. 366 bis cod. proc. civ. che ha introdotto il rispetto del requisito formale, il quale deve esprimersi nella enunciazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronunzia del giudice nei limiti di un accoglimento o di un rigetto del quesito formulato dalla parte (Cass. sez. unit e 26 marzo 2007 n. 7258, Cass. 7 novembre 2007 n. 23153, Cass. 20 giugno 2008 n. 16941).
Nè, infine, a nulla rileva che la disposizione dettata dall'art. 366 bis cod. proc. civ. sia stata abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, poichè l'abrogazione ha effetto soltanto con riferimento alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione, sia stato pubblicato successivamente alla data di entrata in vigore della legge (art. 58, comma 5, della medesima normativa).
Va dunque dichiarata l'inammissibilità del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

 

LA CORTE dichiara il ricorso inammissibile e condanna la società Poste Italiane al pagamento, in favore del resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 18,00 per esborsi e in Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a.