Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 febbraio 2011, n. 3376 - Dispositivi di protezione individuali


 

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LA TERZA Maura - Presidente

Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere

Dott. CURZIO Pietro - Consigliere

Dott. BERRINO Umberto - Consigliere

Dott. TRICOMI Irene - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
 

sentenza

 

sul ricorso 11678-2007 proposto da:

O. DI M. GIACOMO & ROBERTO SNC, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 6, presso lo studio dell'avvocato GRAZIANI ALESSANDRO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato OLIVETTI MAURIZIO, giusta delega in atti;
- ricorrente - contro S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO VALESIO N 1, presso lo studio dell'avvocato PACE EUGENIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato REGAZZO GIANLUCA, giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza n. 412/2006 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 24/10/2006, R.G.N. 757/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/12/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE
udito l'Avvocato STEFANIA MAGGINI per delega ALESSANDRO GRAZIANI;

udito l'Avvocato EUGENIO PACE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.
 

 

 

Fatto

 

 


Con ricorso del 9-7-1999 S.C. conveniva in giudizio la O.. di M. Giacomo e Roberto s.n.c, alle cui dipendenze lavorava come operaio apprendista nel 1995, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, biologico - permanente e temporaneo -e morale, nonchè al rimborso delle spese mediche documentate e per assistenza, viaggi e simili, per un totale di L. 173.620.000 oltre accessori, il tutto a causa dell'infortunio sul lavoro occorsogli in data (OMISSIS).

A fondamento della domanda il ricorrente esponeva che l'infortunio si era verificato mentre stava raccogliendo dalla vaschetta raccoglitrice della macchina raddrizzatrice il filo di ferro già tagliato quando uno spezzone di filo veniva proiettato dalla macchina stessa nel suo occhio sinistro e lamentava che la macchina era al tempo sfornita di idoneo dispositivo di blocco e di schermo di protezione e che esso deducente era sfornito di dispositivi di protezione personali, in violazione del D.P.R. n. 547 del 1995, art. 72 e art. 2087 c.c..


La società convenuta si costituiva in giudizio contestando il fondamento del ricorso e chiedendo la sospensione del giudizio in attesa della sentenza penale irrevocabile ex art. 75 c.p.p..
In particolare la società faceva presente che M.G. e R. erano stati assolti dal Pretore di Venezia, sez. dist. di S. Donà di Piave dal reato di cui al D.P.R. n. 547 del 1995, art. 590, commi 2 e 3 e art. 72 per non aver commesso il fatto e che erano stati trasmessi gli atti alla Procura della Repubblica per il reato di calunnia e falsa testimonianza nei confronti di S.C. e per il reato di falsa testimonianza nei confronti di Z. F.. La convenuta affermava, quindi, che il ricorrente aveva simulato l'infortunio e chiedeva la condanna dello stesso per lite temeraria.
Sospeso il giudizio ai sensi dell'art. 75 c.p.p., comma 3 e art. 295 c.p.c., seguiva la riassunzione a seguito del passaggio in giudicato della sentenza d'appello con cui veniva confermata la sentenza di primo grado e il Giudice del lavoro del Tribunale di Venezia, preso atto del giudicato penale, con sentenza n. 484/2003, rigettava la domanda e compensava le spese.


Lo S. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l'accoglimento della domanda.
La società appellata si costituiva e resisteva al gravame riportandosi alle conclusioni ed alle istanze tutte formulate in sede di difesa in primo grado.
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza depositata il 24-10-2006, in accoglimento dell'appello, accertata l'esclusiva responsabilità della convenuta nell'infortunio di cui è causa, condannava la stessa a corrispondere allo S. la complessiva somma di Euro 105.216,58 oltre accessori di legge, come specificato in motivazione, e compensava per metà le spese di entrambi i gradi condannando la società al pagamento della residua metà.
In sintesi la Corte territoriale, a differenza del primo giudice, escludeva il valore preclusivo del giudicato penale e, sulla base delle risultanze istruttorie, affermava la responsabilità della società datrice di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. con le violazioni delle norme antinfortunistiche dichiarate prescritte in sede penale (ed in specie dell'art. 72 del d.P.R. 547/1995), condannando la appellata al risarcimento del danno come specificato in motivazione.


Per la cassazione di tale sentenza la O.. s.n.c. di M. Giacomo e Roberto ha proposto ricorso con quattro motivi, corredati dai quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis.

Lo S. ha resistito con controricorso.

 

 

Diritto

 


Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 652 c.p.p. in relazione all'art. 530 c.p.p. e vizio di motivazione, in sostanza deduce che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che la sentenza penale di secondo grado non contenesse alcun accertamento preclusivo sull'impossibilità oggettiva di attribuire il fatto agli imputati ed all'uopo sostiene che "la circostanza che la formula assolutoria utilizzata facesse riferimento all'art. 530 c.p.p., comma 2 anzichè del primo comma, non muti gli effetti del vincolo derivante dal giudicato penale i quali si producono sia nel caso in cui in sede penale vi sia stato un positivo accertamento circa l'insussistenza del fatto, sia nel caso in cui in quella sede sia emersa l'impossibilità di quel positivo accertamento".
Peraltro la ricorrente evidenzia che nella motivazione della detta sentenza penale si affermava anche: che non vi erano irregolarità nel funzionamento della macchina; che non vi erano modalità del funzionamento della macchina stessa che potessero produrre la fuoriuscita dei pezzi di ferro del cestello; che le dichiarazioni dell'infortunato S. erano obiettivamente generiche.

Il motivo è infondato.

 

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui nuovamente enunciato, "ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili), il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche quando l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2" (v. Cass. 9-3-2010 n. 5676, Cass. 30-10-2007 n. 22883).

Legittimamente, quindi, la Corte territoriale, dopo aver rilevato che la sentenza penale (in parte assolutoria e in parte dichiarativa della prescrizione) non conteneva alcun accertamento preclusivo, ha proceduto in base all'istruttoria ammessa ed espletata ad un autonomo accertamento dei fatti, affermando la responsabilità ex art. 2087 c.c., sulla base di accertate violazioni di norme antinfortunistiche (peraltro dichiarate prescritte nel procedimento penale).

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 436 in relazione all'art. 346 c.p.c. e vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto inammissibili le istanze istruttorie di parte appellata per non essere state le stesse espressamente riproposte nella memoria difensiva di costituzione in appello (nella quale la società si era semplicemente "riportata alle conclusioni e alle istanze tutte formulate in sede di difesa di primo grado").

Anche tale motivo è infondato.


Come è stato affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato, anche "nel rito di lavoro l'appellante che impugna in toto la sentenza di primo grado, insistendo per l'accoglimento delle domande, non ha l'onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a dette domande, ritualmente proposte in primo grado, in quanto detta riproposizione è insita nella istanza di accoglimento delle domande; diversamente, la parte appellata, vittoriosa in primo grado, poichè, ovviamente, non ripropone alcuna richiesta di riesame della sentenza ad essa favorevole, deve espressamente chiedere al giudice del gravame il riesame delle proprie istanze istruttorie" (v. Cass. 22-8-2003 n. 12366, cfr. Cass. 23-3-1999 n. 2756).
Pertanto, seppure, anche nel rito del lavoro, la presunzione di rinunzi a prevista dall'art. 346 c.p.c. riguarda le domande e le eccezioni e non si estende anche alle istanze istruttorie (v. fra le altre Cass. 28-8-2002 n. 12629), tuttavia, così come affermato ripetutamente riguardo al rito ordinario con riferimento al richiamo operato dall'art. 349 c.p.c. (v. Cass. 26-10-2000 n. 14135, Cass. 15- 11-2002 n. 16573, Cass. 4-4-2003 n. 5308, Cass. 25-11-2003 n. 17904), va, parimenti, enunciato che "nel rito del lavoro, le istanze istruttorie non accolte dal giudice di primo grado non possono ritenersi implicitamente riproposte in appello con le domande e le eccezioni a sostegno delle quali erano state formulate, ma devono essere riproposte, laddove non sia necessario uno specifico mezzo di gravame, nelle forme e nei termini previsti per il giudizio di primo grado, in virtù del richiamo operato dall'art. 436 c.p.c., u.c.".

In tale quadro, quindi, l'appellato ben può all'uopo anche richiamare le proprie difese di primo grado, ma tale richiamo deve essere specifico, in modo da far ritenere in modo inequivocabile che sia stata riproposta l'istanza di ammissione della prova de qua (cfr. Cass. 27-10-2009 n. 22687).

Nella fattispecie la Corte territoriale, attenendosi a tali principi, legittimamente, e con congrua motivazione, ha ritenuto che la riproposizione delle istanze istruttorie, seppure libera da forme, deve essere fatta in modo specifico, non essendo all'uopo sufficiente un generico richiamo "alle conclusioni e alle istanze tutte formulate in sede di difesa di primo grado".

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), per il mancato rinvio della discussione a seguito della dichiarata astensione dalle udienze del procuratore dell'appellato, in relazione anche agli artt. 3 e 4 della Regolamentazione provvisoria dell'astensione collettiva degli avvocati dall'attività giudiziaria di cui alla Delib. 4 luglio 2002, n. 137 del 2002 della Commissione di Garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Al riguardo la ricorrente lamenta che la Corte d'Appello, all'udienza del 18-9-2006, nonostante la dichiarazione di astensione formulata dal procuratore dell'appellata, ha comunque invitato alle conclusioni il procuratore dell'appellante e deciso la causa (la quale non rientrava tra i procedimenti nei quali non è consentito che l'avvocato si astenga).
Osserva il Collegio che il motivo non coglie nel segno la impugnata decisione, in quanto la Corte d'Appello nella sentenza impugnata, sul punto, ha espressamente richiamato "i motivi di cui al verbale di udienza" per i quali la causa, stante la dichiarata astensione del procuratore dell'appellata era stata discussa dal solo procuratore dell'appellante e decisa.
Tali motivi, costituenti parte integrante della sentenza stessa (incentrati sulla valutazione "dei due opposti diritti entrambi di rilevanza costituzionale, costituiti dal diritto all'astensione" "e dal diritto della controparte al processo in tempi ragionevoli" e sulla considerazione che "il procedimento proveniva già da un rinvio causa l'astensione dalle udienze e che il ruolo dell'ufficio" non consentiva "un rinvio in tempi brevi") non sono stati oggetto di alcuna specifica censura da parte della ricorrente, che li ha del tutto ignorati.

Infine, con il quarto motivo la società denuncia vizi di motivazione in ordine al punto decisivo della sussistenza o meno della responsabilità in capo alla O.. con riferimento all'infortunio occorso allo S., per omesso e/o insufficiente esame di circostanze decisive per la decisione e incoerenza logico-formale della sentenza impugnata.
In particolare la ricorrente, riproponendo la propria valutazione delle risultanze processuali, deduce che la ricostruzione della dinamica dell'incidente fatta dal solo S., accolta nell'impugnata sentenza, sarebbe stata "contraddetta non solo dalle risultanze della perizia di primo grado penale, ma anche dalle dichiarazioni rese dai testi Zo. e Me." ed aggiunge che la sentenza penale "a prescindere dalla dichiarazione di prescrizione del reato sul punto", ha accertato che "quanto alla mancanza di protezione, perito d'ufficio e teste dello Sp. hanno escluso concordemente la pertinenza con il tipo di infortunio".

A parte quanto già detto con riferimento alla mancanza di preclusioni derivanti dalla sentenza penale e all'autonomo accertamento operato dalla Corte di merito, osserva il Collegio che il motivo risulta inammissibile prima ancora che infondato in quanto si risolve in una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio" e di riesame del merito, non sussumibile nel "controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., n. 5" (v., fra le altre, Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6¬3-2006 n. 4766).

Come ripetutamente affermato da questa Corte, "il disposto dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllar, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. Cass. 20-4-2006 n. 9234 e, fra le altre, Cass. 9-8-2007 n. 17477, Cass. 16-2-2006 n. 3436, Cass. 19-1-2006 n. 1014, Cass. 9-8-2004 n. 15355, Cass. 11-2-2002 n. 1892, Cass. S.U. 11-6-1998 n. 5802).

Nella fattispecie la sentenza impugnata in sostanza ha accertato che le espletate prove testimoniali hanno provato che l'infortunio è avvenuto allorchè lo S. "intento a raccogliere il filo di ferro già tagliato e privo di occhiali protettivi, è stato colpito in un occhio da uno spezzone di filo espulso dalla macchina, priva di dispositivo di blocco (installato il giorno dopo) e che, inoltre, il giorno dopo l'infortunio M.G. si è recato in ospedale per far firmare un documento in cui il ricoverato dichiarava di essersi fatto male in altra macchina (cfr. dichiarazioni di S.R. e O. a verbale udienza istruttoria del 16 gennaio 2006)".


Tanto accertato, la Corte d'Appello ha affermato che "tali circostanze provano indubbiamente una responsabilità ex art. 2087 c.c. con le violazioni delle norme antinfortunistiche dichiarate prescritte nel procedimento penale e, in particolare, della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 72 accertata in sede di ispezione dello SPISAL di S.Donà, come da verbale e conferma dei due ispettori in sede di udienza testimoniale del 16 gennaio 2006".


Tale motivazione, senz'altro sufficiente e priva di vizi logici resiste alla censura della ricorrente.

Il ricorso va, pertanto, respinto e la ricorrente in ragione della soccombenza va condannata a pagare le spese allo S..

 

 

P.Q.M. 


 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare allo S. le spese liquidate in Euro 55,00 oltre Euro 5.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2010.