Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 25 febbraio 2011, n. 4656 - Controllo sull'utilizzo dei DPI


 

 

"Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, sicchè il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, salvo che la condotta di questi non presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (così Cass. 3786/2009, Cass. 11622/2007, Cass. 19559/2006, Cass. 5493/2006, Cass. 3213/2004, Cass. 6377/2003, Cass. 7454/2002, Cass. 5024/2002).
Con l'ulteriore precisazione (cfr. Cass. 16253/2004) che, per ritenere la sussistenza del carattere di abnormità del comportamento del lavoratore, è necessaria una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza della condotta del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato rispetto a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere.

La decisione della Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, osservando, da un lato, che, anche a voler ritenere provato che il lavoratore fosse stato dotato delle prescritte calzature di sicurezza e le avesse tolte prima di terminare il suo turno di lavoro, sarebbe residuata comunque una responsabilità del datore di lavoro per aver omesso di predisporre controlli idonei a garantire che i lavoratori utilizzassero effettivamente i mezzi di protezione loro forniti, e non mancando di attribuire rilievo, dall'altro, al fatto che, nel caso all'esame, il controllo avrebbe dovuto essere ancora più rigoroso, tenuto conto del fatto che il lavoratore per la prima volta era stato addetto a mansioni diverse da quelle di assunzione e in un ambiente di lavoro nuovo rispetto a quello abituale."


 

 

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio - Presidente

Dott. DE RENZIS Alessandro - Consigliere

Dott. STILE Paolo - Consigliere

Dott. CURCURUTO Filippo - Consigliere

Dott. FILABOZZI Antonio - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

 

sul ricorso 23381-2007 proposto da: GRANDE ALBERGO E- V. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI, 57, presso lo studio dell'avvocato DE CURTIS CLAUDIA, rappresentata e difesa dall'avvocato MARESCA ANTONIO, giusta delega in atti;
- ricorrente -

contro D.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell'avvocato LAURO MASSIMO, rappresentato e difeso dall'avvocato CIOFFI PASQUALE, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 8527/2006 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI,  depositata il 08/02/2007 r.g.n. 3267/05; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/12/2010 dal Consigliere Dott. FILABOZZI Antonio;
udito l'Avvocato MARESCA ANTONIO; udito l'Avvocato CIOFFI PASQUALE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

 

 
Con sentenza del 2.2.2005 il Tribunale di Torre Annunziata ha respinto la domanda proposta in data 22.6.2001 da D. F., volta ad ottenere l'accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto dalla società Grande Albergo E. V. spa con lettera in data 4.11.2000, con condanna della società alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, oltre che al risarcimento del danno biologico causato dall'infortunio sul lavoro subito il (OMISSIS), mentre era intento ad effettuare il lavaggio della cucina.
La sentenza del Tribunale è stata riformata dalla Corte d'Appello di Napoli, che ha ritenuto fondato il motivo di gravame relativo alla non computabilità ai fini della determinazione del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) dei periodi di assenza determinati dall'infortunio sul lavoro -ritenendo che tale ultimo evento fosse ascrivibile a violazione dell'art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro - ed ha dichiarato la illegittimità del licenziamento ordinando la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro.

 

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Grande Albergo E. V. spa, affidandosi a sei motivi cui resiste con controricorso D.F..
Quest'ultimo ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

 

Diritto

 

 

1.- Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. "in relazione sia all'art. 360 c.p.c.,
n. 3 che all'art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, per violazione di legge, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione" nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che il ricorrente avesse specificamente e tempestivamente allegato gli elementi costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio, per quanto riguarda in particolare la non computabilità nel periodo di comporto delle assenze determinate dall'infortunio sul lavoro e conseguenti a responsabilità del datore di lavoro.

 

2.- Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 434 e 437 c.p.c., dell'art. 115 c.p.c. e art. 1421 c.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con la quale è stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento sotto il profilo della non computabilità delle assenze perchè imputabili a responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c..

 

3.- Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 41 Cost., artt. 2087, 1375, 1218 e 2697 c.c., art. 115 c.p.c., nonchè omessa contraddittoria e insufficiente motivazione in ordine alla statuizione con la quale i giudici di appello hanno ritenuto che fosse stato provato il rapporto di derivazione causale tra l'infortunio e l'ambiente di lavoro, nonchè la responsabilità del datore di lavoro relativamente allo stesso infortunio.

 

4.- Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, anche in riferimento agli artt. 2697, 2087 e 1218 c.c., e in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5 per erronea valutazione delle prove e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonchè error in indicando, sull'assunto che la Corte d'Appello avrebbe formato il proprio convincimento in ordine ai punti sopra indicati sulla scorta di elementi fattuali incerti e non suffragati da riscontri oggettivi, mal governando le risultanze della prova testimoniale e di quella documentale e sopperendo alle carenze espositive dell'atto introduttivo in tema di identificazione del tipo di attività al quale il lavoratore era addetto, delle mansioni effettivamente espletate, dell'effettiva portata del rischio espositivo e delle carenze dei sistemi di controllo posti in essere dal datore di lavoro per evitare il verificarsi dell'incidente.

 

5.-Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost., artt. 134, 421 e 437 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sul rilievo che i giudici di appello avrebbero omesso di esporre le ragioni per le quali non avevano provveduto d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale probatorio acquisito nel permanere dell'incertezza della prova in ordine ai fatti costituivi controversi, ed in particolare in ordine alla circostanza che il lavoratore fosse stato dotato dei prescritti stivali di gomma e che, dopo averli utilizzati, li avesse tuttavia dismessi anzitempo, quando cioè il pavimento della cucina era ancora bagnato.


 

6.-Con il sesto motivo di gravame la società lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 424 e 437 c.p.c., ed anche dell'art. 115
c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con vizio di omessa e/o insufficiente motivazione, sull'assunto che la Corte territoriale avrebbe ammesso una consulenza tecnica d'ufficio diretta ad un accertamento che non aveva mai formato oggetto di richiesta da parte del lavoratore, e così in violazione del principio della domanda e di quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ed avrebbe poi utilizzato l'esito della consulenza tecnica d'ufficio travalicando i principi di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. e mal governando le risultanze dell'accertamento peritale.


 

7.- Preliminarmente, va rilevato che tutti i motivi di ricorso sono caratterizzati dalla formulazione di quesiti di diritto del tutto inadeguati rispetto alla decisione delle questioni proposte e alla soluzione della controversia, e così non rispondenti ai requisiti richiesti dall'art. 366 bis c.p.c..

8.- Ai sensi di quest'ultima disposizione, applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d'inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l'illustrazione del motivo deve contenere, a pena d'inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione".

Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis Cass. 8555/2010, Cass. sez. unite 4908/2010, Cass. 16528/2008, Cass. 8897/2008, Cass. 16002/2007).

 

9.-Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell'art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente - perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione - la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall'esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell'art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell'esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. 5208/2010, Cass. 20409/2008).

E' stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l'individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura o alla sussistenza o meno della violazione di una determinata disposizione di legge, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. 6951/2010, Cass. sez. unite 27368/2009, Cass. 20685/2009, Cass. 19769/2008).


10.-Nella specie, nessuno dei quesiti formulati a conclusione dell'illustrazione dei motivi di ricorso risponde ai requisiti sopra indicati, risolvendosi gli stessi quesiti nella mera richiesta di stabilire se siano state violate o meno determinate norme o principi di diritto, ovvero in una generica istanza di decisione sulla esistenza dei vizi denunciati.

 

11.- Anche le dedotte carenze motivazionali non appaiono sufficientemente individuate e precisate con i singoli motivi di impugnazione nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell'illustrazione dello stesso motivo.

12.- In ogni caso, tali carenze non sussistono. Va ribadito al riguardo che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, senza essere tenuto ad un'esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti.
Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. ex plurimis Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass. 16499/2009, Cass. 13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 42/2009, Cass. 17477/2007, Cass. 15489/2007, Cass. 7065/2007, Cass. 1754/2007, Cass. 14972/2006, Cass. 17145/2006, Cass. 12362/2006, Cass. 24589/2005, Cass. 16087/2003, Cass. 7058/2003, Cass. 5434/2003, Cass. 13045/97, Cass. 3205/95). Anche l'interpretazione della domanda implica un giudizio di fatto demandato al giudice del merito, insindacabile in cassazione, salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto, nel senso ed entro i limiti già sopra precisati (Cass. 20373/2008, Cass. 15603/2006, Cass. 16596/2005, Cass. 11755/2004, Cass. 14003/2004, Cass. 13426/2004, Cass. 12909/2004, Cass. 10840/2003).

 

13. Alla stregua dei principi sopra indicati, le doglianze espresse dalla ricorrente con riguardo ai pretesi vizi motivazionali si rivelano prive di fondamento. E così quelle di cui al primo motivo, in quanto, come rilevato dalla Corte territoriale sulla base di una corretta e adeguata interpretazione del contenuto e dell'ampiezza dell'originaria domanda, il lavoratore aveva dedotto già con il ricorso introduttivo che l'infortunio era
da ascrivere a gravi omissioni del datore di lavoro, tali da determinare non solo la responsabilità del datore di lavoro per i postumi invalidanti residuati a carico del dipendente, ma anche l'ulteriore conseguenza che "l'infortunio e le assenze del lavoro che ne seguirono nel 2000 furono causate dall'illecito comportamento del datore di lavoro", restando così individuati tutti gli elementi oggettivi della fattispecie sulla quale si fondano la responsabilità contrattuale del datore di lavoro e la conseguente esclusione dal computo del comporto delle assenze per malattia che sia derivata da condizioni del lavoro di cui il datore debba rispondere ex art. 2087 c.c. (secondo principi costantemente affermati dalla S.C.: cfr. ex multis, Cass. 4959/2005, Cass. 5413/2003, Cass. 5066/2000).

 

14.- Le considerazioni che precedono portano ad escludere l'esistenza di qualsiasi violazione del principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.), e così la fondatezza del secondo motivo, che, come detto, al pari degli altri motivi, non risulta comunque sorretto da un quesito di diritto adeguato e rispondente ai requisiti richiesti dall'art. 366 bis c.p.c..

 

15.-Anche le carenze motivazionali dedotte con il terzo e il quarto motivo devono ritenersi insussistenti, avendo i giudici di appello dato sufficiente e adeguata motivazione del proprio convincimento e fatto corretta applicazione del principio secondo cui le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, sicchè il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, salvo che la condotta di questi non presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (così Cass. 3786/2009, Cass. 11622/2007, Cass. 19559/2006, Cass. 5493/2006, Cass. 3213/2004, Cass. 6377/2003, Cass. 7454/2002, Cass. 5024/2002).
Con l'ulteriore precisazione (cfr. Cass. 16253/2004) che, per ritenere la sussistenza del carattere di abnormità del comportamento del lavoratore, è necessaria una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza della condotta del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato rispetto a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere.

La decisione della Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, osservando, da un lato, che, anche a voler ritenere provato che il lavoratore fosse stato dotato delle prescritte calzature di sicurezza e le avesse tolte prima di terminare il suo turno di lavoro, sarebbe residuata comunque una responsabilità del datore di lavoro per aver omesso di predisporre controlli idonei a garantire che i lavoratori utilizzassero effettivamente i mezzi di protezione loro forniti, e non mancando di attribuire rilievo, dall'altro, al fatto che, nel caso all'esame, il controllo avrebbe dovuto essere ancora più rigoroso, tenuto conto del fatto che il lavoratore per la prima volta era stato addetto a mansioni diverse da quelle di assunzione e in un ambiente di lavoro nuovo rispetto a quello abituale.


 

16.-La sentenza impugnata, per essere adeguatamente motivata, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi in precedenza enunciati, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in sede di legittimità. Al riguardo, va rimarcato che la valutazione delle prove, così come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, la cui decisione, se sorretta da un motivazione corretta sul versante logico e giuridico, non è ricorribile davanti al giudice di legittimità.

 

17.- Ferme restando le considerazioni già espresse in ordine alla inadeguatezza del quesito di diritto, le censure esposte con il quinto motivo risultano comunque assorbite dalle argomentazioni espresse ai punti immediatamente precedenti (ed in particolare da quelle con cui è stato evidenziato il rilievo dell'omesso controllo da parte del datore di lavoro circa l'effettivo utilizzo delle calzature di sicurezza da parte del lavoratore).

 

18.- Il sesto motivo è parimenti infondato, risolvendosi nella richiesta alla Corte circa la sussistenza o meno della violazione di alcune disposizioni di legge e nella critica del provvedimento con cui la Corte di merito ha ammesso la consulenza tecnica d'ufficio, sull'assunto, come visto infondato, che il ricorrente in primo grado non avesse richiesto di accertare se ed in quale misura l'infortunio avesse avuto incidenza causale sulle successive assenze dal lavoro del dipendente. Nè le deduzioni della società ricorrente appaiono idonee ad evidenziare una obiettiva carenza o una contraddittorietà del criterio logico che ha condotto il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento in ordine alla valutazione delle risultanze della consulenza tecnica ed al giudizio sulla sussistenza di un effettivo collegamento causale tra i postumi del trauma cranico subito dal lavoratore a seguito dell'infortunio sul lavoro e le assenze verificatesi nel tempo successivo.

 

19.-Il ricorso va dunque respinto con la conferma della sentenza impugnata, dovendo ritenersi assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.

 

20.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 27,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.