Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 22 aprile 2011, n. 9291 - Ammanchi in banca, accuse e presunto mobbing


 

 
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico - Presidente

Dott. AMOROSO Giovanni - rel. Consigliere

Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere

Dott. MANCINO Rossana - Consigliere

Dott. TRICOMI Irene - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

 

sul ricorso proposto da: D.R.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 111, presso lo studio dell'avvocato D'AMATO DOMENICO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato MAZZONI GIANLUIGI, giusta delega in atti;
- ricorrente -

contro UNICREDITO ITALIANO S.P.A. (in qualità e veste di BANCA INCORPORANTE LA CASSA RISPARMIO CARPI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO TANGORRA 12, presso lo studio dell'avvocato STUDIO FORMARO CATRICALA', rappresentato e difeso dagli avvocati PINI ELISEO, FORMARO ANTONIO, giusta delega in atti;

- controricorrente -

 

avverso la sentenza n. 141/2005 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 05/09/2006, R.G.N. 873/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/12/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;
udito l'Avvocato MAZZONI GIANLUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

 

 

1. Con ricorso depositato il 24 febbraio 2000, D.R.B. conveniva, dinanzi al Tribunale di Modena, la Cassa di risparmio di Carpi s.p.a. (CRC) ed esponeva: che, nel periodo compreso tra aprile 1995 e giugno 1996, si erano verificati all'interno della Cassa di risparmio di Carpi quattro episodi di ammanco riconducibili a una o più persone che, tenuto conto della dinamica delle sottrazioni, avrebbero dovuto essere ricercate fra coloro che funzionalmente maneggiavano denaro o avevano accesso al caveau; di avere avuto attribuita, del tutto ingiustificatamente, una responsabilità concorsuale nella commissione dei fatti predetti per i quali era stato sottoposto a procedimento penale; di avere subito, sul luogo di lavoro, una serie di offese ai propri diritti consistenti in intimidazioni, aggressioni psicologiche, isolamento morale e sociale, atteggiamenti di grave ostilità e reiezione da parte di superiori e colleghi; di essere caduto, per queste ragioni, in un gravissimo e profondo stato di depressione reattiva con postumi ancora permanenti;
che, dopo nove mesi di indagini, era stato completamente scagionato con provvedimento di archiviazione del 3 luglio 1997 in accoglimento della richiesta del Pubblico Ministero.
Tanto premesso chiedeva, previo accertamento della colpa grave per le accuse ingiustamente formulate contro di lui, condannarsi la convenuta CRC a risarcimento dei danni tutti - patrimoniale, biologico e morale -complessivamente quantificati in un ammontare non inferiore a L. 500.000.000.


La banca convenuta si costituiva, deducendo che l'esposto-denuncia, da essa presentato il 2 settembre 1996 al Procuratore della Repubblica di Modena a seguito degli ammanchi verificatisi nel periodo (OMISSIS), non conteneva alcun sospetto di compartecipazione del lavoratore ricorrente il cui nome era stato indicato solo in relazione ai comportamenti di altro cassiere, il quale si sarebbe servito della cassetta di sicurezza intestata formalmente allo stesso ricorrente; che nè i superiori nè i colleghi avevano additato il ricorrente come autore dell'ammanco; che il D.R., assunto quale invalido civile ex L. n. 482 del 1968, in quanto affetto da "nevrosi ansioso-depressiva", era sempre stato aiutato e sostenuto dai colleghi nonostante i rapporti non fossero mai stati facili nè improntati a una serena collaborazione; che la malattia, dalla quale egli era affetto, era conseguente al fallimento dell'azienda artigianale nel settore della maglieria della quale il D.R. era titolare, fallimento che gli aveva cagionato gravi problemi economici e familiari.

Concludeva, pertanto, per i rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..


Con sentenza n. 279 del 19 giugno 2002, il Tribunale adito di Modena respingeva il ricorso, fondando la propria statuizione sui seguenti rilievi: a) che nell'esposto non vi era una espressa indicazione di possibile responsabilità a carico del D.R., atteso che il suo nome era indicato solo incidentalmente in quanto titolare "formalmente" di una cassetta di sicurezza di cui si sarebbe servito un altro dipendente sul quale invece si erano incentrati i sospetti della Banca; b) che non erano risultati provati i denunciati comportamenti vessatori e di minaccia e, dunque, non era con figurabile la responsabilità extracontrattuale della Banca ex art. 2043 c.c. neanche per condotta dei dipendenti ex art. 2049 c.c.; c) che la Banca non aveva provato i presupposti per la condanna del D. R. alla rifusione delle spese per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. non essendo risultati provati nè l'elemento soggettivo nè quello oggettivo dell'illecito.


2. Avverso la sentenza, proponeva appello D.R.B., deducendo tre motivi, per resistere ai quali si costituiva la Cassa di Risparmio di Carpi spa. Con sentenza del 10 febbraio 2005 - 2 settembre 2006, la Corte d'appello di Bologna rigettava l'appello compensando le spese di lite.

3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l'originario ricorrente con cinque motivi illustrati anche con successiva memoria.

 

Resiste con controricorso la parte intimata.

 

 

Diritto

 

1. Il ricorso è articolato in cinque motivi.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente la mancata configurazione della fattispecie del "mobbing" peraltro rilevabile per la prima volta in cassazione. In particolare il ricorrente sostiene che il complesso delle condotte della banca - ivi inclusa l'espressione utilizzata "cassetta di sicurezza intestata (formalmente) al Sig. D.R.B." contenuta nell'esposto di denuncia dell'ammanco -e dei dipendenti della stessa permette di configurare l'esistenza dell'illecito di "mobbing". Erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto l'assenza di qualunque responsabilità della Cassa resistente alla luce degli artt. 2043 e 2049 c.c.. Il ricorrente ha quindi formulato il seguente quesito di diritto: "dica la corte se l'ipotesi del mobbing come sopra rappresentata e risultante dagli atti processuali integri la violazione degli artt. 2043 e 2044 c.c. giusto petitum di cui alla domanda".


Col secondo motivo il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; lamenta altresì l'omessa rilevanza delle deposizioni dei testi F. e Da. "circa l'affermazione decisiva dell'uso strumentale doloso della persona del D.R. al fine di individuare il vero colpevole" e circa le dichiarazioni decisive dagli stessi ricevute da altri dipendenti e dai vertici aziendali.

Con il terzo motivo ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente la mancata emanazione dell'ordine di intimazione e di escussione dei testi L. e B.. Indica il seguente quesito di diritto: "dica la Corte se dall'esposizione di cui al presente ricorso e dalle risultanze processuali sia configurabile la violazione da parte del giudice d'appello dell'art. 421 c.p.c., comma 2 per la mancata emanazione dell'ordine di intimazione e di escussione dei testi L. e B.".

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e in particolare lamenta la configurazione della fattispecie di violazione della privacy e la mancata riforma della sentenza di primo grado per l'omessa condanna della banca a causa della rilevata violazione. Formula il seguente quesito di diritto: "dica la Corte se dall'esposizione di cui al presente ricorso e dalle risultanze processuali sia configuratale la mancata configurazione della fattispecie di violazione della privacy e la sentenza impugnata sia cassabile per la mancata riforma della sentenza di primo grado per l'omessa condanna della banca a causa della rilevata violazione".

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per mancato riesame delle questioni oggetto di doglianze nonchè dei fatti e delle argomentazioni a fondamento del secondo e del terzo motivo del ricorso in appello; deduce anche errar in procedendo per erronea interpretazione di quanto esposto nel primo motivo di appello; error in procedendo per aver ritenuto che le dichiarazioni del F. e Da. fossero tutte ed esclusivamente da sussumere nelle due categorie delle testimonianze de relato.

 

2. Il ricorso, che nei suoi cinque motivi contiene sia la denuncia di plurime asserite violazione di legge, sia la doglianza di vizio di motivazione, è da considerarsi inammissibile sotto il primo profilo perchè i motivi di ricorso in tale parte non contengono, nessuno di essi, un idoneo quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.. La sentenza impugnata è stata depositata il 5 settembre 2006 e quindi si applica l'art. 366 bis c.p.c.; disposizione inserita dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 che, per espressa previsione dell'art. 27, comma 2, D.Lgs. cit., si applica - anzi si applicava stante la successiva abrogazione ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 471, lett. d), - ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo (avvenuta il 2 marzo 2006).
In particolare il secondo motivo è del tutto privo del quesito di diritto e gli altri motivi sono dotati ognuno del quesito di diritto sopra trascritto, tutti palesemente generici, non auto sufficienti e privi dell'opzione interpretativa di nonna di legge quale insita nella questione di diritto posta con il ricorso per violazione di legge. Basti pensare che il primo e più diffuso motivo si conclude con il sopra trascritto quesito di diritto: "dica la corte se l'ipotesi del mobbing come sopra rappresentata e risultante dagli atti processuali integri la violazione degli artt. 2043 e 2044 c.c. giusto petitum di cui alla domanda"; proposizione questa che non costituisce affatto una questione di diritto (di interpretazione della legge) posta alla Corte, ma rappresenta null'altro che una formula di rinvio a quanto è esposto in precedenza nel motivo.

 

3. Il ricorso però muove anche censure riferibili al vizio di motivazione per il quale è sufficiente che la formulazione delle censure ex art. 360 c.p.c., n. 5, contenga la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (Cass., sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9477); ciò che nella specie può predicarsi per il ricorso in esame.


4. Nel merito comunque il ricorso è in questa parte infondato.
Con motivazione ampiamente sufficiente e nient'affatto contraddittoria la Corte d'appello ha valutato le risultanze probatorie di causa. In particolare ha considerato che era corretta la valutazione dell'esposto effettuata dal Tribunale, atteso che il nome del D.R. appariva in un unico punto della denuncia, fatta dalla banca, dell'ammanco subito, laddove egli è stato indicato come "formalmente" intestatario della cassetta di sicurezza, di cui si sarebbe avvalso l'altro dipendente per occultare i proventi dell'attività furtiva, mentre, per contro, è su quest'ultimo che si erano incentrati i sospetti della Banca, come risultava dal contenuto complessivo dell'esposto medesimo, dal fatto che l'ufficio ispettorato della Banca aveva effettuato indagini sullo altro dipendente e accertamenti anche tramite agenzie private investigative. Pertanto, non era stata in alcun modo attribuita una responsabilità a carico dell'attuale ricorrente, dovendosi quindi escludere la responsabilità extracontrattuale della banca.
A fronte di questa motivata valutazione di merito delle risultanze probatorie di causa il ricorrente finisce in realtà per esprime un mero, quanto inammissibile, dissenso valutativo.

5. Il ricorso va quindi rigettato.
Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.


LA CORTE rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 25,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorario d'avvocato ed oltre IVA, CPA e spese generali.