REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio
Dott. LA TERZA Maura 
Dott. CURCURUTO Filippo
Dott. IANNIELLO Antonio
Dott. FILABOZZI Antonio

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere 
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BASSANO DEL GRAPPA 24, presso lo studio dell'avvocato CALAPRICE DONATELLO, rappresentata e difesa dall'avvocato MANNISE PARDUCCI ENZA, giusta delega in atti;
- ricorrente -

contro

I.B.M.R. &. C. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI 27, presso lo studio dell'avvocato NICOLAIS LUCIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DEL RE ANDREA, giusta delega in atti;
- controricorrente -

avverso la sentenza n. 858/2006 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 23/06/2006 R.G.N. 797/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;
udito l'Avvocato CIUFFO CLAUDIO per delega PARDUCCI ENZA MANNISE;
udito l'Avvocato NICOLAIS LUCIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO



La Corte di Appello di Firenze ha confermato al sentenza del Tribunale della stessa città, che ha respinto la domanda di G.M.P. volta ad ottenere la condanna della M. e. C. Società I.B. spa al risarcimento del danno per l'infortunio sul lavoro del ***. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta ritenendo che l'episodio nel quale era stata coinvolta la ricorrente - che aveva riportato una violenta reazione allergica a causa della fuoriuscita del prodotto di una confezione di profumo della quale era stata forzata l'apertura, a mezzo di una pinza, ad opera di altro dipendente con qualifica di capo reparto, al quale si era rivolta una collega della G., che aveva acquistato la confezione fuori dallo stabilimento nel quale si svolgeva l'attività lavorativa - esorbitava dalle mansioni lavorative delle persone coinvolte nell'incidente e, in ogni caso, non presentava aspetti lesivi che l'azienda avesse il dovere di prevenire secondo il criterio della normale diligenza. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.M.P. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società M.. La controricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE



1.- Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2087-2094 c.c., anche in relazione al disposto dell'articolo 2697 c.c., per non avere il giudice del merito debitamente considerato, valutato e qualificato correttamente la nozione di c.d. occasionalità necessaria, chiedendo a questa Corte di stabilire se "al fine di determinare la responsabilità indiretta del datore di lavoro sia sufficiente l'esistenza di un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l'incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo agli ordini ricevuti, purché sempre nell'ambito delle proprie mansioni".

2.- Con il secondo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 2049 e 2087 c.c., in relazione al Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 17 e segg. e articolo 2697 c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire "se incorra in responsabilità indiretta ex articoli 2049 e 2087 c.c. in combinato disposto con il Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 17 e segg. il datore di lavoro che ometta, scientemente o per colpa, di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore che abbia patito lesione a causa e/o in occasione dell'attività lavorativa".

3.- Il primo motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la responsabilità per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, derivante dall'articolo 2087 c.c., impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. Tale responsabilità, tuttavia, è esclusa allorquando il rischio sia stato generato da una attività che non abbia alcun rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa o che esorbiti del tutto dai limiti di essa (cfr. ex plurimis Cass. n. 2930/2005). In tema di responsabilità indiretta del committente per il danno arrecato dal fatto illecito del commesso, ai sensi dell'articolo 2049 c.c., questa Corte ha più volte ribadito il principio secondo cui, ai fini dell'applicabilità della norma in questione, è sufficiente che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra l'illecito stesso ed il rapporto che lega detti soggetti, nel senso che le mansioni o le incombenze affidate al secondo abbiano reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che tale comportamento si sia posto in modo autonomo nell'ambito dell'incarico o abbia ecceduto dai limiti di esso, anche se in trasgressione degli ordini ricevuti, sempre che il commesso abbia operato nell'ambito dell'incarico affidatogli, così da non configurare un condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro, ovvero abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate, e non finalità proprie alle quali il committente non sia neppure mediatamente interessato o compartecipe (cfr. ex plurimis Cass. 1516/2007, Cass. n. 22343/2006, Cass. n. 14096/2001, Cass. n. 12417/98).
Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l'affermazione che l'episodio - provocato dalla forzata apertura di una confezione di profumo ad opera di un collega di lavoro della G., al quale si era rivolta, per aprirla, un'altra sua collega, che aveva acquistato tale confezione fuori dello stabilimento nel quale si svolgeva l'attività lavorativa - esorbitava palesemente dalle mansioni affidate a ciascuna delle persone coinvolte nello stesso episodio, e doveva considerarsi, dunque, del tutto estraneo allo svolgimento di tali mansioni, non potendo, del resto, ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica della lavoratrice rispetto ad un evento del tutto imprevisto ed imprevedibile, anche in relazione alla specificità delle mansioni svolte dalla dipendente, al suo stato di salute ed all'ambiente nel quale veniva svolta l'attività lavorativa.
Le contrarie affermazioni della ricorrente, secondo cui le argomentazioni della Corte d'appello non rispetterebbero i principi stabiliti dalla giurisprudenza in materia e "sconterebbero" inevitabilmente una contraddittoria ed errata ricostruzione dei fatti di causa, si risolvono in realtà nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito - giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra detto, sia alla estraneità dell'evento dannoso rispetto al rapporto di lavoro sia alla imprevedibilità del suddetto evento rispetto alle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa - e rimangono pertanto confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d'appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di legittimità di quest'ultima. Il primo motivo va, dunque, rigettato.

4.- Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall'articolo 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

5.- Ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d'inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell'esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l'accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010). Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l'illustrazione del motivo deve contenere, a pena d'inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione". Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

6.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell'articolo 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente - perché possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione - la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall'esposizione del motivo di ricorso, né che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell'articolo 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell'esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al Decreto Legislativo n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). È stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l'individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009); per gli stessi motivi, il quesito di diritto non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla S.C. di stabilire se sia stata violata o meno una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell'omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 1285/2010, Cass. n. 4044/2009).

7.- Nella specie, il quesito formulato da parte ricorrente a chiusura del secondo motivo, come sopra riportato, non risulta in alcun modo adeguato a recepire l'iter argomentativo che supporta le relative censure, in quanto non individua in alcun modo il principio di diritto posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato, né propone un principio diverso e alternativo rispetto a quello applicato dal giudice di merito, ma si limita inammissibilmente ad una generica richiesta rivolta a questa Corte, rispetto alla quale dovrebbe seguire una risposta affermativa, che si risolverebbe solo nella riproduzione astratta di un principio generale applicabile in tutti i casi di accertata responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore. Di qui l'inammissibilità del secondo motivo.

8.- Il ricorso deve quindi essere respinto.

9.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in euro oltre euro 2.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.