Cassazione Penale, Sez. 4, 09 settembre 2011, n. 33450 - Piattaforma di smaltimento rifiuti tossici e infortunio


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GALBIATI Ruggero - Presidente
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
Dott. D'ISA Claudio - rel. Consigliere
Dott. IZZO Fausto - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) A.C.E. N. IL (OMISSIS);
2) N.C. N. IL (OMISSIS);
3) F.R. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 64/2010 CORTE APPELLO di CAGLIARI, del 04/05/2010;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/06/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. D'ISA Claudio; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. DELEHAYE Enrico che ha concluso per il rigetto dei ricorsi in subordine applicazione della prescrizione; Udito il difensore Avv. Melone Rodolfo per il F. che insiste per l'accoglimento del ricorso in subordine applicazione della prescrizione.

 

Fatto

 


F.R., A.C.E.P. e N.C. ricorrono in cassazione avverso la sentenza, in data 4.05.2010, della Corte di Appello di Cagliari che, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa il 2.11.2009 dal Tribunale dello stesso capoluogo nei loro confronti in ordine al delitto di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti all'aggravante contestato, ha ridotto la pena per ciascun imputato.

Una breve esposizione dei fatti di causa per una migliore intelligenza dei motivi posti a base dei ricorsi.
Secondo la ricostruzione del Tribunale, il giorno 7 giugno 2002 mentre il lavoratore C.M., presso l'impianto Casic sito nella zona industriale di (OMISSIS), nell'ambito di lavori di completamento della piattaforma di smaltimento dei rifiuti speciali tossici e nocivi, stava provvedendo ad un'operazione di pulizia volta a rimuovere del materiale che aveva intasato il meccanismo elicoidale di una coclea, impedendone il normale funzionamento, il lavoratore F.R. mise, del tutto inaspettatamente, in moto il macchinario agendo sulla pulsantiera posta nelle immediate vicinanze.


In conseguenza di tale condotta, il braccio sinistro del C. rimase impigliato nella coclea messasi in movimento e venne amputato.
Il Tribunale ha ritenuto sussistere il nesso di causalità tra le lesioni personali gravissime riportate dal C. ed il contatto con la coclea azionata dal F., ravvisando una condotta negligente, imprudente ed imperita di quest'ultimo, che aveva azionato -intervenendo sulla pulsantiera -la coclea di trasferimento delle ceneri dopo che il suo collega di lavoro vi aveva introdotto all'interno le braccia senza accertarsi preventivamente di tale circostanza. Si addebitava inoltre la causazione dell'infortunio anche alla mancata concreta adozione delle misure di sicurezza o comunque di sistemi di protezione dei lavoratori per evitare contatti con organi in movimento. Infatti, la pulsantiera di comando era collocata tra le altre due pulsantiere aventi tutte chiavi di sicurezza identiche ed intercambiabili, tant'è che a seguito dell'infortunio la elevazione di specifiche violazioni antinfortunistiche comportò la risistemazione delle pulsantiere e di tutti gli interruttori dell'impianto, che furono corredati di lucchetto e di chiavi diverse di accensione.


Il N.C., in qualità di responsabile operativo per la Ecoitalia, sotto il cui controllo e direzione diretta operava il C., aveva compiti di coordinamento dei lavoratori, ai quali impartiva quotidianamente le disposizioni per l'organizzazione del lavoro; egli quindi, data la qualifica rivestita, avrebbe dovuto accertarsi che l'energia a livello del quadro elettrico della cabina a monte fosse stato disattivato, in maniera tale da consentire l'esecuzione dei lavori di pulizia della coclea in totale sicurezza.
Oltre al N., anche l' A., nella qualità di responsabile tecnico della conduzione dell'impianto per la Ecoitalia, aveva compiti di valutazione dei fattori di rischio potenzialmente ravvisabili nell'attività lavorativa nonchè di informazione e formazione dei lavoratori, ed era, come il coimputato, titolare di obblighi di posizione e destinatario delle norme antinfortunistiche, in particolare di quella di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82, integrante la colpa specifica, la cui violazione era collegata da nesso di causalità con l'evento di lesioni personali gravissime subito dal C., derivante dalla accertata utilizzazione della coclea nonostante non fosse assicurata in maniera assoluta la posizione di fermo tale da impedirne l'azionamento involontario da parte di terzi.


La Corte d'Appello, fatto proprio l'impianto motivazionale della sentenza di primo grado, ha ritenuto infondati i motivi del gravame di merito riformando unicamente la pena.


F.R. con un primo motivo denuncia violazione di legge nella specie dell'art. 521 c.p.p. e del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82 in relazione all'art. 590 c.p., commi 3 e 5.
Si deduce che la Corte ha erroneamente fatto riferimento ad una contestazione d'addebito diversa da quella realmente mossa agli imputati N. ed A., rilevandosi che il capo d'imputazione non prevedeva alcuna contestazione all'imputato N. della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82, nè era ipotizzabile la violazione di tale norma da parte dell' A..
Si argomenta che, analizzando il contenuto della norma in questione, essa contiene una disposizione riguardante esclusivamente la struttura della macchina e, quindi, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, l'espressione che caratterizza la norma "devono altresì adottarsi le necessarie misure e cautele affinchè la macchina o le sue parti non siano messe in moto da altri" si riferisce alla struttura della macchina e non alle modalità di funzionamento e organizzazione del lavoro. L'obbligo, la cui violazione è sanzionata, concerne la macchina nella sua struttura e materialità e non le modalità di funzionamento e/o gestione o il suo concreto utilizzo. E' un obbligo che incombe solo su chi aveva progettato, collaudato, acquistato e disposto che la macchina venisse utilizzata, e non certo su chi aveva semplicemente l'obbligo di coordinare e gestire il cantiere ed il personale. In sostanza la contestazione mossa all' A. riguardava una generica imprudenza e negligenza, che in nessun caso poteva integrare la violazione dell'art. 82 richiamato, mentre nessun addebito in tal senso è stato mosso al N.. E' chiaro per il ricorrente che la norma antinfortunistica, che rende il reato perseguibile d'ufficio, fu erroneamente contestato ad A. e non fu contestato a N.. Tutti gli altri imputati e cioè quelli che rappresentavano la figura di "datore di lavoro" o, comunque dei soggetti cui gravava l'obbligo di osservare la disposizione di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82 sono stati assolti. Quindi, l'ipotesi aggravata viene ex se a mancare. Nè è possibile ritenere che l' A. ed il N. possano rispondere ex art. 2087 c.c.. non essendovi stata alcuna contestazione nè esplicita nè implicita di violazione di tale norma che per altro non poteva riguardare i due imputati che non rivestivano la qualifica di "datore di lavoro".


Con un secondo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 82 del D.P.R. cit..
Dal dibattimento e segnatamente all'esito della escussione di periti e consulenti, è rimasto accertato che la coclea fu costruita secondo le norme CEE e con tutti i necessari dispositivi di sicurezza e quindi la violazione della norma di cui all'art. 82 D.P.R. cit. non sussiste. Dunque il problema non riguardò la macchina ma le modalità del suo utilizzo in quel particolare momento. Se l'incidente si verificò ciò dipese da un insieme di cause avulse dalle caratteristiche della macchina e legate al mancato rispetto delle regole di prudenza nella fase di manutenzione. Secondo l'iter procedimentale emerso dall'istruttoria dibattimentale il responsabile doveva staccare l'alimentazione dalla sala controllo e così disattivare la coclea e impedirne l'avviamento; la manutenzione doveva essere effettuata a macchina ferma e disattiva. Come correttamente è stato evidenziato dal C.T. della difesa, chiave e pulsantiera hanno significato solo quando la coclea era in funzione, ma non allorquando la macchina deve essere fermata come in occasione della manutenzione. Il C.T. di parte, dott. Fe., ha evidenziato che l'evento si verificò non perchè la macchina non aveva adeguati dispositivi di sicurezza o questi fossero stati presenti nell'ambito delle lavorazioni e, quindi, con riferimento alla fase di utilizzo delle macchine ma solo perchè quel giorno mancò il dovuto coordinamento nell'ambito dell'organizzazione del lavoro. La macchina era strutturata in modo tale che non poteva essere avviata da terzi involontariamente. Fu la disorganizzazione nella conduzione del lavoro a provocare l'evento e non le deficienze della sicurezza della macchina.

Con un terzo motivo si denunciano violazione di legge, nella specie dell'art. 113 c.p. e vizio di motivazione.
Sebbene nel caso di specie nella contestazione dell'addebito è contemplato il riferimento all'art. 113 c.p., in realtà la semplice lettura del capo d'imputazione porta a ritenere che ci si trovi di fronte ad un'ipotesi di cause colpose indipendenti. Infatti non si può ravvisare alcun collegamento tra la condotta ascritta all' A., responsabile tecnico della conduzione dell'impianto per Eco-Italia e N., responsabile operativo, e quello del F. che avrebbe posto in essere un'azione dovuta a una mera e momentanea distrazione ed a cui è stata contestata sola la violazione di generiche norme di prudenza e diligenza.
Trattandosi, quindi, di cause indipendenti deve escludersi l'estensibilità dell'aggravante al F., con conseguente dichiarazione di n.d.p. per mancanza di querela.
Rileva il ricorrente che la Corte, nel ritenere concretizzatasi la figura della cooperazione colposa, da per scontato un fatto che non solo non risulta dagli atti ma anzi è escluso alla stregua dell'attenta lettura degli stessi. Se al F. non viene contestato il concorso nella violazione della normativa antinfortunistica, ma solo una generica imprudenza e negligenza, ne deriva, che lo stesso non conosceva la meccanica di svolgimento dell'operazione e l'esistenza di un iter procedimentale che regolasse l'accensione e lo spegnimento della macchina durante la fase di manutenzione. Per altro è emerso dall'istruttoria che nessuna formazione dell'uso della macchina era stata data ai lavoratori. La Corte non ha tenuto conto del fatto che la macchina era in funzione da pochissimo tempo ed ancora in fase di collaudo di funzionamento e il personale non l'aveva mai utilizzata nè aveva fatto corsi di formazione. Non c'è la prova che il F. conoscesse il sistema di funzionamento, che non era consapevole di essere inserito in alcuna organizzazione complessa, nè che si intersecassero attività e responsabilità di diverse persone.

Con un quarto motivo si denuncia altro vizio di motivazione e ciò con riferimento alla ritenuta prova che sia stato il F. ad azionare la coclea ed alla credibilità delle dichiarazioni, di tenore accusatorio, rese dal C.. Costui afferma che il F. si trovava con lui e che ad un certo punto lo sentì urlare "che cazzo ho fatto" ma non vide il F. azionare la pulsantiera. Nella realtà nel luogo vi era una molteplicità di persone, L., M., S. ecc, che formavano un assembramento ma nessuno di loro vide F. azionare la coclea, ma anzi le dichiarazioni del L. escludono che ciò si sia verificato. D'altronde la versione del C. si regge su di una espressione usata dal F. che può essere stata male interpretata e che non c'è prova che fu detta.

I dipendenti della Comin che si trovavano in loco non solo non hanno dichiarato di aver visto F. fare ciò, ma nessuno ha riportato le dichiarazioni del C.. La Corte territoriale non ha ben compreso i termini delle censure mosse alla sentenza di primo grado.
La difesa non ha sostenuto che C. accusò falsamente il F., solo che lo stesso ha frainteso la frase che F. avrebbe pronunciato dopo il fatto, che ben poteva essere che "cazzo hai fatto" e non "ho fatto". La Corte ha motivato in modo illogico e contraddittorio perchè non ha valutato l'effettivo contenuto dei motivi di appello, che evidenziano alcune falsità dette dal C..


A. e N., con un unico atto, espongono i seguenti motivi:

1) erronea applicazione della legge penale in ordine all'art. 159 c.p.. Il reato contestato si è estinto per prescrizione in data antecedente a quella di emanazione della sentenza di 2^ grado e cioè il 7.12.2009. La Corte ha erroneamente ritenuto che tale termine scadesse il 7.05.2010 per aver ritenuto il rinvio in primo grado all'udienza del 19.12.2007 del procedimento per l'adesione dei difensori all'astensione proclamata dall'Unione delle Camere Penali, non fosse qualificabile come legittimo impedimento, contrariamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza dominate della S.C..
Si eccepisce inoltre che la Corte non ha valutato altro fatto: emerge dal verbale di udienza del 20.07.2007 che per tale giorno erano stati convocati 4 testimoni tra cui la p.o. C. non presente, di conseguenza il dibattimento doveva essere comunque rinviato per l'esame del teste C.. In presenza di due fatti legittimanti il rinvio del dibattimento, l'uno riferibile all'imputato
o al difensore l'altro ad esigenze di ufficio la predominante valenza di quest'ultima esclude l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 159 c.p..


2) Vizio di motivazione. L'intera istruttoria dibattimentale ha chiarito come la dinamica dei fatti sia stata caratterizzata da un susseguirsi di circostanze anomale, nonchè imprevedibili tali da interrompere qualsiasi rapporto di causalità tra la condotta degli imputati e l'evento. Innanzitutto l'operazione di pulizia della coclea era avvenuta non solo in assenza di disposizioni ma soprattutto a totale insaputa degli imputati.
In particolare, per quanto riguarda il N., rivestiva il ruolo di coordinatore delle maestranze all'interno dell'impianto e che quindi ogni manutenzione doveva avvenire su indicazione del medesimo e sotto la sua supervisione. Egli era sempre raggiungibile mediante radiotelefono. Numerosi fonti probatorie confermano tale iter procedurale tra cui le dichiarazioni rese da S..
L'affermazione della Corte d'Appello secondo cui era stata smentita la negazione del N. di aver dato disposizioni per eseguire la pulizia della coclea de qua si manifesta come apodittica ed assertiva ove si consideri che i testimoni, sostanzialmente, non ricordano di aver ricevuto disposizioni in merito da parte del N.. D'altra parte è la stessa p.o. a rivelare la natura estemporanea e non autorizzata del suo intervento. Il contenuto delle testimonianze è ben diverso a quanto desunto dalla Corte territoriale, dando così luogo ad un vizio di travisamento della prova in relazione alla circostanza che vorrebbe il N. responsabile di un intervento manutentivo di cui egli era, invece, assolutamente ignaro (N.B. le misure di prevenzione servono proprio a prevenire gli eventuali errori dei lavoratori).
Quanto all' A. egli, diversamente da quanto contestatogli rivestiva il ruolo di responsabile della gestione contrattuale. Il percorso logico e argomentativo, attraverso cui la Corte giunge a configurare una responsabilità del ricorrente, appare viziato ab origine nel momento in cui si afferma che "la sua posizione di garanzia discende dallo svolgimento delle funzioni dirigenziali".
Dalle dichiarazioni del coimputato Sp., poi assolto, si desumono elementi decisivi ai fini di un corretto inquadramento della posizione dell' A. all'interno dell'organizzazione. Costui non aveva alcuna delega alla sicurezza e le sue mansioni si esaurivano su di un piano puramente gestionale -contrattuale (rapporti con i fornitori, con la clientela, redazione di contratti ecc). Dunque non si spiega come sia stato ritenuto titolare di una posizione di garanzia soprattutto ove si consideri che la stessa Corte contraddittoriamente afferma che l'ing. A. non aveva responsabilità diretta sulla predisposizione delle procedure di sicurezza o sulla sorveglianza de loro rispetto. Da ultimo si evidenzia l'imprevedibilità dell'infortunio determinato da una decisione autonoma del C. di intervenire a pulire la macchina, si verificava inoltre una circostanza ulteriore ed assolutamente imprevedibile: ripiegabile negligenza del F. il quale, dopo aver assistito all'estrazione della chiave e pur trovandosi ad una distanza di soli 2-3 metri dalla coclea, quindi in condizione di vedere il collega, che già stava operando all'interno della macchina, inseriva una diversa chiave nel pannello di controllo e premeva il pulsante di avvio.

Diritto

 


La sentenza va annullata per essere il reato contestato estinto per prescrizione, indipendentemente dall'applicazione, per il principio del favor rei, tenuto conto della data di commissione del reato, della disposizione di cui al combinato disposto dell'art. 157 c.p., n. 4 e art. 160 c.p., ultima parte, nella loro formulazione antecedente alla novella di cui alla L. n. 251 del 2005, o del termine di prescrizione prevista da quest'ultima disposizione legislativa, essendo i rispettivi termini prescrizionali identici (anni sette e mesi sei).

Quanto ai motivi posti a base del ricorso dai suddetti imputati in ordine ai reati dichiarati estinti, si evidenzia che, come affermato dalle SS.UU. di questa corte di recente (sentenza n. 35490 del 28.05.2009, Rv. 244275), stante l'intervenuta prescrizione del reato è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione.
Il sindacato di legittimità circa la mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una sua pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 c.p.p., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato, deve prevalere l'esigenza della definizione immediata del processo.
Nella richiamata sentenza delle SS.UU. è dato leggere che, per quel che riguarda il presupposto della evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato - ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato -, in giurisprudenza è stato costantemente affermato, senza incertezze o oscillazioni di sorta, che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell'imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di "constatazione" (percezione ictu oculi), che a quello di "apprezzamento", incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento; in altre parole, l'"evidenza" richiesta dall'art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia.


I motivi, posti a base del ricorso del F., invero, come dedotti, attengono a violazione di legge ed in particolare il primo (V. parte narrativa) ad un errore di contestazione di addebito e, come tale, per quanto in precedenza argomentato, va esaminato onde verificare la sussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p..
In sostanza si argomenta che la violazione della norma antinfortunistica di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82 non poteva essere contestata agli imputati N. ed A. in quanto la condotta prevista da tale norma secondo cui "devono altresì adottarsi le necessarie misure e cautele affinchè la macchina o le sue parti non siano messe in moto da altri" si riferisce alla non idoneità, sotto il profilo della sicurezza, della struttura della macchina ascrivibile unicamente al progettista ed alla fabbrica e non anche a coloro che ne gestiscono le modalità di funzionamento e l'organizzazione del lavoro, e, comunque, poteva essere contestata a chi ricopriva la qualità di "datore di lavoro", certamente non riferibile al N. o all' A.. Di conseguenza, esclusa la violazione della norma specifica, in materia antinfortunistica, viene meno l'ipotesi aggravata di cui all'art. 590, commi 2 e 3, e, quindi la procedibilità di ufficio, rimanendo, semmai, a carico dei predetti imputati una condotta di colpa generica ex art. 2087 c.c..


Inoltre, con il secondo motivo, si evidenzia che è rimasto provato, sulla base della consulenza tecnica di parte, che l'evento si verificò non perchè la macchina non era dotata dei particolari dispositivi di sicurezza ma solo perchè quel giorno mancò il dovuto coordinamento nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, circostanza questa non addebitabile al F. semplice esecutore e collega della parte offesa.


Il primo motivo già è stato oggetto dell'esame del giudice di appello e la relativa motivazione si condivide pienamente in quanto aderente al dettato normativo ed alla giurisprudenza di questa Corte, basta osservare che per le specifiche qualifiche e mansioni riconosciute all' A. ed al N., e non contestate, essi erano destinatari della norma specifica di prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82.
Con il terzo motivo, ricollegabile ai primi due, il F. eccepisce anche l'erronea contestazione della cooperazione colposa di cui all'art. 113 c.p. sostenendo che si è trattato di condotte colpose indipendenti e, quindi, non è addebitabile al ricorrente la violazione della norma specifica (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82).
Relativamente a tale rilievo, occorre chiarire quale sia la reale portata della norma in questione nell'ambito delle fattispecie d'evento a forma libera come quella di cui all'art. 590 c.p. che qui interessa.
In proposito in dottrina vengono sostenute, con diverse sfumature, due tesi di fondo. Secondo l'una l'art. 113 c.p., eserciterebbe una mera funzione di modulazione di disciplina, nell'ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva:
orientamento determinato, al fondo, dal timore che applicazioni disinvoltamente estensive possano vulnerare il principio di colpevolezza.
L'altra tesi, invece, reputa che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell'incriminazione rispetto all'ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte. Tale ultimo indirizzo è implicitamente accolto nella giurisprudenza di questa Corte. Esso è senz'altro aderente alle finalità perseguite dal codificatore che, introducendo la disciplina di cui si discute, volle troncare le dispute esistenti in quell'epoca, esplicitando la possibilità di configurare fattispecie di concorso anche nell'ambito dei reati colposi.
Tale indirizzo interpretativo trova pure sicuro conforto nella disciplina di cui all'art. 113 c.p., comma 2 e art. 114 c.p., che prevedono, nell'ambito delle fattispecie di cooperazione, l'aggravamento della pena per il soggetto che abbia assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l'agente che abbia apportato un contributo di minima importanza. Tale ultima contingenza, evocando appunto condotte di modesta significatività, sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole.
Per il ricorrente, in sostanza, manca nell'animus degli imputati la consapevolezza della convergenza delle altrui condotte, requisito essenziale richiesto proprio dalla disciplina dell'art. 113 c.p..
Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (sent. 11.3.99 n. 5) "il paradigma della cooperazione nel delitto colposo si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire con l'azione o omissione altrui alla produzione dell'evento non voluto"; si rileva che, nel caso sottoposto all'esame della corte, tale "sinergia psicologica" ricorre senz'alcun dubbio, poichè gli imputati, sebbene solo alcuni di essi (l' A. ed il N.) contemporaneamente abbiano violato una specifica norma antinfortunistica ed altro (il F.) norme di prudenza, erano tutti consapevoli di essere inseriti in un'organizzazione complessa, come correttamente osservato dai giudici del gravame di merito, "nella quale si intrecciavano le responsabilità di diverse persone, tra le quali - ovviamente -i soggetti titolari di specifiche posizioni di garanzia in merito all'osservanza delle disposizioni per la prevenzione di infortuni sul lavoro".
Quanto al secondo motivo si concorda pienamente con l'interpretazione che la Corte Cagliaritana da del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 82, non tralasciando di osservare la evidente contraddittorietà di argomentazione rispetto a quanto esposto con il primo, atteso che da un lato si sostiene che la norma di colpa specifica contestata si riferisce alla non idoneità, sotto il profilo della sicurezza, della struttura della macchina ascrivibile unicamente al progettista ed alla fabbrica e non anche a coloro che ne gestiscono le modalità di funzionamento e l'organizzazione del lavoro, e dall'altro si sostiene che l'evento si verificò, non perchè la macchina non aveva adeguati dispositivi di sicurezza, ma solo perchè quel giorno mancò il dovuto coordinamento nell'ambito dell'organizzazione del lavoro.
Come rileva la Corte distrettuale, nella prima parte la norma prevede che le macchine implicanti l'introduzione di parti del corpo del lavoratore per la manutenzione, riparazione, pulizia etc. devono essere provviste di un dispositivo di blocco; nella parte finale quell'inciso, riportato anche dal ricorrente che nè da una diversa e non condivisibile lettura, "devono altresì adottarsi le necessarìe misure e cautele affinchè la macchina o le sue parti non siano messe in moto da altri" non può che riferirsi alle concrete modalità di utilizzazione della macchina e non alle sue caratteristiche di progettazione, che rientrano nella gestione dell'organizzazione del lavoro da parte di chi, a vario titolo, vi è preposto.
E, pertanto, riallacciandoci a quanto argomentato in ordine alla corretta applicazione della disposizione di cui all'art. 113 c.p., il F. non poteva non essere a conoscenza, per la pregressa esperienza, delle modalità di manutenzione della macchina di cui trattasi e delle procedure da eseguire manutenzione della macchina di cui trattasi e delle procedure da eseguire. In ordine, poi, alla contestazione, oggetto del quarto motivo, da parte del ricorrente circa la carenza di prova che sia stato proprio lui ad azionare la coclea, trattandosi di una mera questione di fatto in ordine alla quale la Corte del merito ha reso ampia e logica motivazione, essa attiene a vizio di motivazione che non può essere oggetto di esame da parte del collegio per quanto argomentato in premessa.
Pari sorte subiscono i motivi posti a base dei ricorsi dell' A. e del N. afferendo essi esclusivamente a vizi di motivazione aventi ad oggetto la ricostruzione dei fatti e la valutazione della prova, del resto il motivo principale dell'unico atto di impugnazione riguarda proprio la mancata applicazione della causa estintiva della prescrizione da parte della Corte territoriale.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il reato ascritto agli imputati è estinto per prescrizione.