Corte di appello di Bologna, Sez. Lav., 04 marzo 2011 - Mobbing e risarcimento danni


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA

 

Sezione Lavoro

 

La Corte d'Appello di Bologna, sezione lavoro, composta dai signori Magistrati:

 

Dott. Giuseppe Molinaro - Presidente

 

Dott. Fausto Casari - Consigliere

 

Dott.ssa Maria G. D'Amico - Consigliere rel.

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 

 

nella causa iscritta al n. 421/2005 R.G.L.

 

promossa da:

 

XX elettivamente domiciliata in Bologna, via Marsili 15, presso lo studio dell'avv. Mauro Castagnetti che la rappresenta e difende con l'avv. Pier Giuseppe Dolcini per mandato a margine del ricorso in appello - appellante

 

contro:

 

AZIENDA U.S.L. di FORLÌ e G.B., elettivamente domiciliati in Bologna, via Garibaldi 7 (studio dell'avv. Maria Lorenza Longobardi), rappresentati e difesi dall'avv. Massimo Mambelli per mandato a margine della memoria di costituzione in appello - appellati

 

 

avente ad oggetto: mobbing e risarcimento danni.

 

CONCLUSIONI

 

Per l'appellante:

 

"Voglia l'Ecc. Corte d'Appello di Bologna, respinta ogni contraria istanza, eccezione e difesa, riformare la sentenza n. 83/04 del 19/3-21/4/2004, non notificata, accogliendo le seguenti conclusioni:

 

Nel merito

 

1) accertare e riconoscere che la sig.ra XX è stata da tempo oggetto di un comportamento tenuto nei suoi confronti sul luogo di lavoro dai responsabili del servizio di Neuropsichiatria-infantile, segnatamente dal dirigente del servizio stesso e che è stato descritto in narrativa, illegittimo ed ingiusto;

 

2) dichiarare che detto comportamento ha causato alla sig.ra XX un danno biologico e di immagine;

 

3) accertare e riconoscere nel comportamento, tenuto nei confronti della ricorrente all'interno del servizio, uno svuotamento progressivo del numero e del contenuto delle mansioni affidatele, nonché una progressiva emarginazione della stessa, con grave lesione della sua professionalità;

 

4) dichiarare pertanto

 

a) l'Azienda Unità Sanitaria Locale di Forlì, in persona del suo legale rappresentante pro tempore;

 

b) il dr. G.B.

 

responsabili dei fatti e del comportamento descritti in narrativa e da loro tenuti nei confronti della sig.ra XX.

 

Con sentenza provvisoriamente esecutiva e con vittoria di spese, competenze ed onorari".

 

In via istruttoria

 

Si chiede l'ammissione di consulenza medico legale volta ad accertare la misura del danno biologico e psichico e alle relazioni sociali subite dalla ricorrente per effetto di quanto descritto.

 

Con vittoria di spese, competenze ed onorari".

 

Per gli appellati:

 

"Respingere l'appello con l'aggravio delle spese".

 

LA CORTE D'APPELLO

 

udita la relazione della causa fatta dal Consigliere Relatore dott.ssa Maria G. D'Amico;

 

udita la lettura delle conclusioni assunte dai procuratori della parti;

 

esaminati gli atti e i documenti, ha ritenuto:

 

 

Fatto

 

 

Con ricorso depositato il 26/5/2000 XX adiva il Tribunale di Forlì in funzione di giudice del lavoro, esponendo: di essere dipendente della Azienda U.S.L. di Forlì quale terapista della riabilitazione per il servizio di neuropsichiatria infantile; di avere segnalato in più occasioni, verbalmente e per iscritto, ai propri superiori o collaboratori che il servizio al quale era addetta presentava una serie di disfunzioni e problemi senza ricevere "nessuna attenzione"; di essere stata gravemente emarginata, personalmente e professionalmente, sul luogo di lavoro attraverso numerosi episodi di aggressione verbale alla presenza di colleghi e di terzi da parte di alcuni responsabili del servizio, l'esclusione dalla partecipazione a corsi di aggiornamento e la progressiva riduzione dei "casi" assegnati; di avere subito, a seguito dei fatti denunciati, integranti un abuso del potere datoriale in violazione degli artt. 2087 e 2049 c.c., danni alla salute psico-fisica, alla professionalità, all'immagine professionale e alla personalità. Tanto premesso, chiedeva, previa declaratoria dell'esistenza di un comportamento "illegittimo e ingiusto" ai sensi degli artt. 2087, 2103, 2043 e 2049 c.c. della Azienda U.S.L. di Forlì e di G.B. con "progressivo e gravissimo svuotamento del numero e del contenuto delle mansioni" assegnatile nonché "progressiva emarginazione" e grave lesione della sua professionalità la loro condanna in solido o pro quota in relazione alle rispettive responsabilità, al risarcimento dei danni (alla professionalità, all'immagine professionale, biologico e alla personalità) patiti e patiendi in conseguenza del sopraddetto comportamento oltre rivalutazione monetaria e interessi di legge.

 

Instauratosi il contraddittorio, la Azienda U.S.L. di Forlì e G.B. contestavano la fondatezza del ricorso del quale reclamavano il rigetto deducendo: che la ricorrente, nell'esercizio delle delicate e difficili mansioni di fisioterapista presso il servizio di neuropsichiatria-psicologia e riabilitazione dell'età evolutiva, rivolto alla prevenzione diagnosi e cura di minori in situazioni di deficit di varia natura, aveva dimostrato un insufficiente equilibrio personale e un'incapacità a fare fronte alle normali responsabilità e difficoltà proprie della professionalità del terapista della riabilitazione, non riuscendo a stabilire buone relazioni con i colleghi e con i genitori dei minori; che in considerazione di tali difficoltà relazionali era stato più volte proposto alla ricorrente, negli ultimi dieci anni, di (provare a) svolgere l'attività di terapista della riabilitazione con adulti per essere, di norma, le situazioni che interessano questi ultimi meno coinvolgenti sotto l'aspetto emotivo; che tali offerte erano state sempre rifiutate non avendo la ricorrente mai ammesso le proprie difficoltà a contenere e governare le emozioni quotidiane procuratele dal quotidiano lavoro con i minori e le relative famiglie; che la situazione descritta aveva determinato l'insorgere di "conflitti" con i responsabili del servizio succedutisi nel tempo, con le colleghe e con i genitori dei minori; che i responsabili del servizio erano stati perciò costretti ad affidare ad altri terapisti minori inizialmente affidati alle cure della ricorrente; che la ricorrente non era mai stata emarginata, dalla fase di progettazione, ad opera di gruppi di lavoro multiprofessionali (aventi a oggetto l'aspetto organizzativo del neuro psichiatria); che al contrario era stata la ricorrente a sottrarsi ripetutamente a incontri di servizio e di lavoro e a corsi di aggiornamento obbligatori.

 

Con sentenza del 19-3/21-4-2004, istruita la causa con produzione di documenti ed espletamento di prova per testi, il Tribunale adito respingeva il ricorso.

 

Avverso tale decisione proponeva appello - con atto depositato il 20-4-2005 - la XX che ne invocava la riforma sulla base di un unico motivo.

 

Resistevano la Azienda U.S.L. di Forlì e G.B. - costituitisi con memoria depositata l'8-6-2007 - che instavano per il rigetto del gravame.

 

All'udienza collegiate del 2-12-2010, precisate le conclusioni in atti, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo di cui era data lettura.

 

 

 

Diritto

 

 

 

L'appellante lamenta, con l'unico articolato motivo, che erroneamente il Tribunale ha escluso - con valutazione superficiale del quadro probatorio emerso dai documenti prodotti e dall'espletata prova per testi e con "motivazione alquanto sommaria" senza cogliere la complessità e delicatezza del "fenomeno sottoposto al suo giudizio di merito" - la ricorrenza del c.d. mobbing e respinto la proposta domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

 

L'appello è (da ritenersi) infondato.

 

Com'è noto, le violenze morali, le molestie psicologiche e gli atteggiamenti persecutori perpetrati nei confronti dei lavoratori dal datore di lavoro, dai superiori gerarchici e dagli stessi colleghi sono stati oggetto di approfondite ricerche a opera di psicologi e sociologi del lavoro.

 

La riconduzione di questi comportamenti - caratterizzati dall'aggressività della condotta, dalla reiterazione della stessa nel tempo e dalla finalità di emarginare la vittima per provocarne l'estromissione dall'ambiente di lavoro - a una categoria unitaria, il c.d. mobbing, si deve ai primi studiosi del fenomeno sotto il profilo medicosociale: il mobbing, come a stato osservato, secondo "le definizioni maggiormente accreditate tra gli studiosi di psicologia del lavoro", consiste "in una forma di violenza psicologica, fisica e/o morale" che "si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la personalità della vittima" ovvero in un "comportamento abusivo (...) che minaccia, con la sua ripetizione o la sua sistematicità, la dignità o l'integrità psichica o fisica di una persona, mettendo in pericolo il suo posto di lavoro o degradando il posto di lavoro" o ancora in una "situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizioni superiore, inferiore o di parità" con lo scopo di causare "danni di vario tipo e gravità" alla vittima che "si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche ad invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione".

 

Il mobbing, come è stato ancora rilevato, è fenomeno privo di una precisa connotazione giuridica e di confini certi o determinati sul piano delle forme e delle modalità attuative: la fattispecie è stata, comunque, individuata in presenza di "persecuzioni sistematiche e deliberate dei colleghi o del datore di lavoro che ferisca(o)no il lavoratore sul piano professionale e morale", id est in presenza, di norma, di "soprusi" ed "angherie" (quali il sistematico disconoscimento dei diritti derivanti dalla qualifica; la sottrazione di compiti e responsabilità caratteristici delle mansioni svolte) diretti a isolare il dipendente all'interno dell'ambiente di lavoro o a provocarne l'estromissione dall'azienda mediante il licenziamento ovvero le dimissioni.

 

Su altro piano, come ha avuto modo di osservare autorevole dottrina, è da considerare che l'inserimento in un'organizzazione aziendale che possiede sue caratteristiche e persegue suoi obiettivi può creare "problemi e difficoltà ambientali derivanti però da connotati caratteriali (...) piuttosto che degli atteggiamenti ostili del datore di lavoro o di altri dipendenti" determinando "un male di ufficio" che pure può sfociare in "condizioni intollerabili per l'espletamento da parte del dipendente della prestazione dovuta, senza assumere tuttavia rilevanza agli effetti del mobbing, in quanto non imputabili ad atti o comportamenti di soggetti ostili". La scarsa capacità di adattamento alle condizioni di lavoro e di vita all'interno dell'azienda è allora a base (dell'insorgere) della situazione di disagio e sofferenza, in cui versa il prestatore di lavoro, che non si radica così in comportamenti del datore e degli altri dipendenti ("la cui maggiore correttezza e comprensione non potrebbe alleviare in misura significativa la sua afflizione").

 

Come è altresì noto, l'art. 2087 c.c. sancisce una serie (aperta) di obblighi (del datore di lavoro) di tutela, nell'ambiente di lavoro, dei diritti fondamentali e assoluti (del prestatore di lavoro) alla salute e alla dignità anche sociale, obblighi che entrano, in forza dell'art. 1374 c.c., direttamente nel regolamento contrattuale del rapporto di lavoro subordinato e rappresentano, quindi, altrettanti limiti di legittimità all'uso dei poteri contrattuali da parte del creditore" della prestazione: si configura, secondo un orientamento dottrinale, quale norma in grado di tutelare i1 lavoratore "di fronte a tutti i possibili comportamenti lesivi della sua integrità psico-fisica qualunque ne siano la natura e l'oggetto" posto che l'ampia formula di tale previsione impone al datore di lavoro di salvaguardare tanto l'integrità fisica quanto la personalità morale del lavoratore ben al di la del rispetto della normativa infortunistica "secondo quella che è l'intrinseca vocazione della disposizione alla tutela dei valori della persona". L'utilizzazione della direttiva contenuta nell'art. 2087 c.c. permetterebbe così di ricondurre al datore di lavoro non solo i comportamenti vessatori a lui direttamente ascrivibili ma anche le condotte ostili di dirigenti, collaboratori e dipendenti (c.d. mobbing orizzontale) che non siano state dallo stesso impedite o scoraggiate (v. Corte cost., 19-12-2003 n. 359 secondo cui la disciplina delle conseguenze degli atti di mobbing sul lavoratore rientra nella tutela e sicurezza del lavoro nonché nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire). Orbene, perché si realizzino condotte riconducibili al mobbing, come è stato osservato, è necessario che gli specifici comportamenti siano ripetuti nel tempo e preordinati al raggiungimento dello scopo di danneggiare il lavoratore, id est è necessario individuare in concreto quando la tipica dialettica aziendale subisce un'indubbia alterazione e distorsione rispetto al normale assetto dei rapporti tra datore e prestatore di lavoro ricadendo in una dimensione di ostilità e di sottile avversione: indagine, è stato precisato, "che per sua natura comporta la necessità di andare oltre l'analisi dei singoli episodi ed impone di costruire una cornice all'interno della quale attribuire rilievo unitario ad una serie di comportamenti succedutisi in un determinato arco temporale". In altri termini, la ricostruzione del percorso vessatorio impone di dare rilievo non solo a profili oggettivi, connotati dal verificarsi di una data condotta, ma anche a profili soggettivi e in particolare alla finalità del comportamento.

 

Ora, la responsabilità per mobbing deve essere provata dal lavoratore, come qualsiasi inadempimento contrattuale del datore di lavoro ascrivibile alla previsione generale dell'art. 2087 c.c., e per soddisfare l'onere probatorio, come è stato osservato, il primo dato da dimostrare à - "strutturale ed oggettivo": l'illiceità della condotta presuppone innanzitutto una ripetitività e/o reiterazione dei comportamenti mobbizzanti a nulla rilevando situazioni di conflitto solo temporaneo, sì che sorge il problema di legare tra loro comportamenti dotati di intrinseca autonomia, giuridica e fattuale, problema che investe tanto comportamenti da qualificarsi (come) illegittimi alla stregua della normativa sul rapporto di lavoro subordinato quanto comportamenti che isolatamente considerati non assumerebbero rilievo per il diritto. Come è stato ancora rilevato, nel primo caso, cioè in presenza di comportamenti datoriali illegittimi (dequalificazione, trasferimenti illegittimi, condotta discriminatoria, reiterazione di provvedimenti disciplinari), la dimostrazione della ripetitività e della reiterazione gioca un ruolo soprattutto, anche se non esclusivamente, sul piano risarcitorio, derivando, sin dalla prima condotta illecita, il diritto del prestatore di lavoro di agire in giudizio per chiederne il sanzionamento sì che la ripetitività (e/o la reiterazione) delle azioni riveste in concreto rilievo in quanto si riesca a provare che da esse sia derivato un autonomo danno all'integrità psico-fsica e/o alla personalità del dipendente risarcibile ai sensi della clausola generale dell'art. 2087 c.c.; nel secondo caso, per converso, la valutazione coordinata di vari comportamenti rileva per la stessa prova della sussistenza di un comportamento illecito sì che la valutazione dell'elemento soggettivo, cioè la verifica dell'illecita finalità di discriminare, emarginare o recare altrimenti pregiudizio al dipendente vittima, viene a rivestire valenza particolare con la conseguenza che, ai fini della prova della "vessatorietà", la valutazione del profilo finalistico, che integra quello strutturale, risulta fondamentale e indefettibile, incombendo sul lavoratore la prova del necessario collegamento di diversi episodi e della loro riconducibilità nell'ambito di un unico progetto illecito. Ma se l'elemento finalistico assume importanza particolare nell'ipotesi appena richiamata, è stato ulteriormente precisato, tuttavia, di esso è da provare l'esistenza ogniqualvolta si intenda attribuire rilievo unitario a una serie di episodi succedutisi nel tempo ancorché alcuni di essi si configurino palesemente illegittimi, posto che, quantunque questi ultimi siano autonomamente sanzionabili (dal punto di vista sia inibitorio che risarcitorio), non può presumersi ipso iure la loro appartenenza a un progetto unitario, dipendendo tale riconduzione dall'accertamento di una serie di elementi non preventivabili in via generale ma che devono formare oggetto di specifica e puntuale valutazione.

 

Nel mobbing, l'elemento finalistico rappresenta, dunque, un dato costitutivo della fattispecie, presupposto per la prova del datum e del nesso causale tra questo e la condotta. Il lavoratore, qualora lamenti di essere stato perseguitato, non si può allora limitare a provare l'esistenza di una serie di comportamenti materiali (quali, ad es., il "comportamento offensivo e violento sul piano verbale", le "scenate" e i "toni critici ai limiti dell'insulto", fino alla "emarginazione logistica e fisica") e giuridici (quali, ad es., l'esercizio plateale o esasperato del potere disciplinare per illeciti inesistenti o di lieve entità o con avvio della procedura poi non seguita dall'irrogazione della sanzione o l'utilizzo abnorme del potere di controllo con richieste continue di giustificazioni e chiarimenti, senza adozione peraltro di provvedimenti sanzionatori), ma deve anche fornire la prova della loro finalità illecita, non risultando possibile censurare gli atti datoriali "in ragione della loro oggettiva offensività" nei confronti del dipendente: invero, "vi è una precisa regola di esperienza di carattere medico-scientifico che attribuisce rilievo sia al profilo oggettivo che a quello soggettivo" onde "la necessità di tenere conto e di accertare l'esistenza di entrambi".

 

È l'accertamento delle motivazioni illecite determinanti, come è stato ancora rilevato, che consente di ampliare l'area di tutela sino a includervi gli atti materiali e le condotte neutre o astrattamente corrette, ma in concreto preordinate a uno scopo discriminatorio: come per gli atti discriminatori "innominati" e non definiti dall'art. 15 del c.d. statuto dei lavoratori, "è la finalità riprovevole, ossia la destinazione lesiva rispetto ai beni fondamentali della dignità personale, professionale e sociale del lavoratore, che qualifica in senso illecito la vicenda del mobbing", la cui indagine "non coincide con la ricerca dell'intento personale o psicologico del mobber, né con l'esame dell'aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa)" sì che sarà apprezzabile dal giudice "non già in base alla percezione del soggetto agente ovvero al significato che egli intendeva attribuire al proprio comportamento ma piuttosto in relazione all'idoneità lesiva dei beni della persona e all'intrinseca ratio discriminatoria" accertabile attraverso le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta (a esempio, la monodirezionalità, la connotazione emulativa o abusiva, la pretestuosità, ecc.), e connessa anzitutto al permanere nel tempo della stessa condotta.

 

Orbene, nella fattispecie che ne occupa, è affatto carente la prova già dell'elemento oggettivo e strutturale, id est della ricorrenza di condotte mobbizzanti (e necessariamente di una ripetitività e/o reiterazione delle stesse), oltre che, comunque, del loro collegamento e della loro riconducibilità ad un unico progetto illecito (v. Cass., 17-2-2009 n. 3785, secondo cui ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti "a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerate singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l "evento lesivo della salute o delta personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioé dell'intento persecutorio"; v., anche, per la "nozione" di mobbing, Cass., 9-9-2008 n. 22858).

 

Invero, come rimarcato nella decisione gravata, l'istruttoria orale - precisato che la deposizione del teste Ca., sindacalista distaccato dal 1997 presso la CISL, è da considerarsi "priva di rilevanza probatoria" siccome inerente essenzialmente a circostanze apprese de relato actoris - "ha smentito la affermazioni della ricorrente in ordine all'asserita esistenza di un clima a lei ostile sul luogo di lavoro di specifici episodi di aggressione verbale nei suoi confronti e di deliberata emarginazione sotto il profilo professionale; di contro, sono risultate fondate le deduzioni dei convenuti circa l'inadeguatezza della ricorrente a svolgere le delicate mansioni proprie del terapista della riabilitazione con riguardo ai minori affetti da handicap".

 

In primo luogo, come ancora sottolineato dal Tribunale, "tutti i numerosi testi escussi hanno negato di avere mai assistito a episodi di aggressione verbale o di altra natura da parte di superiori o colleghi ai danni delta XX" (v. deposizione testi S. - la quale ha dichiarato: "Non ho mai assistito o sentito B. aggredire verbalmente la XX, né in altro modo", "Non ho mai assistito né ho conoscenza di episodi di aggressione, denigrazione o emarginazione avverso la XX" -; C. - la quale ha dichiarato: "Non ho mai assistito ad episodi di aggressione verbale nei confronti della XX né mi sono stati riferiti" -; P. - la quale ha dichiarato: "Non ho mai assistito ad episodi di aggressione verbale nei confronti della XX" - e G., indotta dalla ricorrente/odierna appellante - la quale ha dichiarato: "Non ho assistito ad alcun episodio di aggressione di B. avverso la XX", "Non ho assistito a comportamenti aggressivi, di derisione o in cui B. dava della incompetente alla XX", "Posso solo dire di non avere visto episodi di aggressione e denigrazione della ricorrente", "Né io né le mie colleghe abbiamo denigrato o poco considerato la ricorrente").

 

Nessuna conferma "ha inoltre trovato l'affermazione della avvenuta esclusione della ricorrente dalla partecipazione a corsi di aggiornamento e anzi è emerso che la stessa ha volontariamente e ripetutamente omesso di partecipare a corsi di aggiornamento obbligatori" (v. deposizione testi S. - la quale ha dichiarato: "Non è vero. Tutte le terapiste venivano convocate ai corsi di aggiornamento obbligatori con indicazione di luogo e data di svolgimento. So che veniva convocata anche la XX perché figurava nel prospetto dei convocati inviati a tutte le terapiste. Ciò da tre anni. Prima la convocazione avveniva con lettera personale. Ai corsi la XX a volte era presente a volte no (...) nell'ultimo corso finito il 31.5.02 e iniziato l'ottobre "99 non ha partecipato. Questo ultimo corso era obbligatorio", "Posso dire che ero io che distribuivo di solito le convocazioni ai corsi alle colleghe. Le ho sempre consegnate contestualmente alle colleghe tra cui la XX" -; C. - la quale ha dichiarato: "Da quando sono coordinatrice la XX è sempre stata invitata per iscritto a partecipare ai corsi di aggiornamento; in particolare a quello "Bobath" della durata di due anni 2001/02 e non ha mai partecipato. Partecipa solo da alcuni mesi ad un corso di informatica. (...) Preciso che il corso Bobath era obbligatorio (...) B. andò personalmente dalla XX in palestra per invitarla al corso Bobath. Ma la XX rifiutò di venire" -; B. - il quale ha dichiarato: "Quanto ai corsi di aggiornamento obbligatori del 1999 risulta che la XX non è mai stata presente sempre dalla stessa relazione"; - e Portatore - la quale ha dichiarato: "Nel 96/97 ricordo di avere partecipato a un corso di aggiornamento con la XX era tenuto dal dott. B. di Bologna. Era un corso obbligatorio. Successivamente la XX non ha più partecipato ai corsi di aggiornamento") e a "riunioni di lavoro concernenti a volte i casi trattati dalla stessa XX" (v. deposizione testi S. - la quale ha dichiarato: "Le riunioni di servizio a cui sono invitate tutte le terapiste per organizzare il lavoro si svolgono una volta al mese circa. La XX non ha mai partecipato quando io ero presente" -; B. - il quale ha dichiarato: "Nelle riunioni specifiche per la riorganizzazione del servizio che si sono tenute nel 1999 (...) di cui ho letto la relazione finale redatta dal servizio infermieristico ho rilevato che la XX non aveva partecipato a tali riunioni" -; C. - la quale ha dichiarato: "Ricordo che furono istituiti due gruppi di lavoro. Io ho partecipato so che la XX non ha partecipato a nessuno dei due gruppi. Si entrava in base ad una domanda di adesione (...) I gruppi si sono conclusi con la redazione di due progetti consegnati al dott. B.. Tali progetti erano incentivati da parte dell'ASL. (...) Tutti gli operatori che hanno partecipato al gruppo di studio hanno avuto gli incentivi" -; P. - la quale ha dichiarato: "Io ho partecipato ad uno dei due gruppi di studio. Al termine ho avuto l'incentivo. La XX non vi ha partecipato" -; e G. - la quale ha dichiarato: "I progetti incentivabili sono sempre andati in porto. Noi abbiamo sempre percepito l'incentivo di produttività".

 

Come sempre osservato dal giudice di prime cure, in relazione "alle contestazioni dei disservizi della struttura effettuate dalla XX, è risultato che analoghe segnalazioni venivano sollevate anche da altri dipendenti in appositi incontri indetti al fine di trovare soluzione ai problemi organizzativi individuati" (v. deposizione testi G. - la quale ha dichiarato: "Io stessa ho segnalato disfunzioni e fatto proposte di miglioramento del servizio. Ciò soprattutto quando si erano costituiti i gruppi si lavoro" -; e B. - il quale ha dichiarato: "Segnalazione di problematiche con proposte di miglioramento sono giunte anche a me anche dalla XX. La stessa chiese una riunione sui tempi segnalati che si tenne all'inizio del 1998 a cui era presente anche l'avv. Spagnoli ed il dott. B.. Ai temi proposti fu data risposta scritta da me e dal B. proponendo un percorso per migliorare i problemi esposti. Tali percorsi furono poi inseriti negli obiettivi del 1999. L'incontro fu estremamente sereno. Posso dire che le segnalazioni di problemi e le proposte migliorative vengono non solo dal servizio di neuropsichiatria, ma da tutti i servizi. Nella riunione fu affrontato anche il problema della presa in carico dei minori che fu poi posto come secondo obiettivo del 1999. Posso dire che il quadro organizzativo generale era prefissato da direttive regionali che poi dovevano adattarsi alle condizioni locali" e "che nessun episodio anomalo concernente la XX si è mai verificato in tali occasioni".

 

Con riferimento, infine, "alla progressiva riduzione del numero dei pazienti assegnati alla ricorrente", come altresì rilevato dal Tribunale, "le emergenze processuali inducono a ritenere che tale circostanza, indubbiamente rispondente al vero, sia stata determinata non da un'indebita volontà di ledere o sminuire la professionalità della XX, bensì dall'inadeguatezza dimostrata da quest'ultima nel trattare alcuni delicati casi a lei assegnati".

 

Invero, dalla documentazione in atti risulta "che più genitori di figli minori affidati per la terapia della riabilitazione alla XX presentarono rimostranze in ordine all'operato di quest'ultima, chiedendone la sostituzione. In particolare S. Francesco, padre del minore Matteo, ebbe a dolersi del mancato controllo degli ausili, della mancata collaborazione con la fisiatra e con il personale scolastico e altresì dell'indebito invio a terzi di una lettera indirizzata dalla stessa XX ai genitori del minore (vedi doc. n. 4 e testimonianza S.); O. Roberta e F. Daniele, affidatari del minore Fo. Andrea, rappresentarono il disagio del bambino nel fare terapia con la ricorrente, a causa del comportamento aggressivo tenuto da quest'ultima e delle indicazioni contraddittorie, fornite circa gli esercizi da effettuare a casa (doc. n. 6 e testimonianza F.); C. Stefano, padre del minore Stefano, lamentò un'incompatibilità correttamente con i pazienti e i loro familiari - in occasione degli episodi sopra richiamati, anche al fine di evitare di esporsi a eventuali responsabilità derivanti da erroneità o inadeguatezza delle terapie praticate" e ha respinto il ricorso.

 

A ciò è da aggiungere che, comunque, sarebbe stata carente la specifica (e necessaria) allegazione di elementi, modalità e peculiarità della situazione in fatto attraverso i quali poter ricavare la prova dei pretesi lamentati danni.

 

Il fondamento della responsabilità del datore di lavoro che ponga in essere comportamenti lesivi anche della personalità morale del lavoratore risiede, invero, nell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c.: quella del datore di lavoro, come è stato osservato, si configura, pertanto, come una responsabilità derivante dall'inadempimento di una obbligazione ex art. 1218 c.c. mentre, per quanto concerne il danno alla personalità morale subito dal lavoratore, lo stesso è da ricondurre al danno non patrimoniale posto che "l'art. 2087 c.c. nell'individuare il bene della personalità morale riconosce implicitamente la risarcibilità conseguente alla sua lesione".

 

Orbene, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore al risarcimento del danno (di qualsiasi specie) subito a ragione di un di lui inadempimento deve fornire la prova del danno stesso, non essendo sufficiente, alla luce (del disposto) degli artt. 1218 1223 e 2697 c.c., la mera potenzialità lesiva del comportamento illecito (v. Cass., 8-10-2007 n. 21025, per la quale sono necessarie l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche nonché la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, in quanto riconoscere il risarcimento del danno al cospetto della prova del solo inadempimento (cosiddetta liquidazione equitativa in re ipsa) significherebbe assegnare a essa una funzione di sanzione civile punitiva estranea al sistema risarcitorio previsto dal codice civile; v. anche, Cass., sez. un., 11-11-2008 n. 26972 secondo cui l'art. 2087 c.c., "inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale)", implica che, nel caso in cui l'inadempimento abbia provocato la loro lesione, sia dovuto il risarcimento dei danni non patrimoniali, danni-conseguenza "sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa" (i quali ultimi "(...) altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale"), che devono essere allegati e provati, non potendo, nel caso di lesione di valori della persona, il danno ritenersi in re ipsa in quanto finirebbe così per essere snaturata la funzione del risarcimento "(...) che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo"; v. anche Cass., sez. un., 16-2-2009 n. 3677).

 

In altri termini, come ancora sottolineato, "accanto all'antigiuridicità (...), l'altro elemento essenziale del danno ingiusto (di qualsiasi danno rilevante giuridicamente) consiste nella privazione o diminuzione di un bene o valore (il pregiudizio effettivamente conseguente alla lesione); un'evenienza ipotizzabile non solo in relazione a beni che vengono scambiati sul mercato, ma anche in rapporto ai beni, e agli attributi, della persona" (v. a es. Cass., 18-4-1996 n. 3686, secondo cui, quanto al danno biologico, il prestatore è onerato della prova della sussistenza in concreto della compromissione dell'integrità psico-fisica; di recente, Cass., 5-2-2008 n. 2729 ha precisato che la condotta lesiva del bene protetto non dimostra di per sé il nesso causale tra dequalificazione e danno all'integrità psico-fisica lamentato dal dipendente sà - che il lavoratore che lamenta una sindrome depressiva dovuta alla frustrazione da demansionamento deve provare, mediante idonea documentazione medica, la riconducibilità della patologia riscontrata alla situazione di disagio lavorativo in base a un ragionevole criterio di probabilità scientifica e non in termini di mera possibilità; v., altresì, Cass., 11-8-1998 n. 7905; Id., 2-11-2001 n. 13580; Id., 14-5-2002 n. 6992; Id., 8-11-2003 n. 16792, secondo cui sia con riguardo al danno alla professionalità che con riguardo al danno biologico "il lavoratore ha l'onere di provare l'esistenza e l'entità del danno, nonché del nesso di causalità con l'inadempimento del datore di lavoro, dimostrazione senza la quale non è possibile procedere ad una valutazione equitativa (...)" posto che "la violazione di un dovere non equivale a danno, che non può essere dedotto automaticamente dalla violazione del dovere" occorrendo, in forza dei principi generali (art. 2697 e 1223 c.c.), "l'individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perché poi possa procedersi alla liquidazione del danno (eventualmente anche in via equitativa)"; v., di recente, anche Cass., 5-12-2008 n. 28849; Cass., sez. un., 2009 n. 3677, cit., che, in particolare con riguardo al danno morale, ha precisato che "in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio").

 

Ancora, come affermato dalla S.C. (v., Cass. sez. un., 24-3-2006 n. 6572), con riguardo al "danno professionale" che ha contenuto patrimoniale e può consistere "sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno", il riconoscimento presuppone ad esempio la deduzione dell' "esercizio di un'attività (...) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo".

 

Logico corollario delle superiori premesse è che l'appello deve essere respinto.

 

In considerazione dell'esito del giudizio, le spese del grado, come liquidate in dispositivo, sono da porre a carico dell'appellante.

 

 

P.Q.M.

 

 

La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, respinge l'appello proposto avverso la sentenza n. 83 del 19-3-2004 del Tribunale di Forlì e condanna l'appellante al pagamento delle spese del grado liquidate in Euro 1.320,00 per diritti ed Euro 2.800,00 per onorari oltre accessori di legge.