Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 29 luglio 2011, n. 30238 -  Riposo settimanale di un lavoratore minorenne


 

Responsabilità di un datore di lavoro per la mancata concessione del periodo di riposo settimanale ad una propria dipendente


La Suprema Corte ribadisce la rilevanza penale del fatto, affermando l'importante principio di diritto secondo cui il reato in esame ha natura di reato permanente.

 


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia - Presidente
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere
Dott. MARINI Luigi - Consigliere
Dott. RAMACCI Luca - rel. Consigliere
Dott. ROSI Elisabetta - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
M.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2381/2009 TRIB. SEZ. DIST. di SCALEA, del 12/05/2010;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/07/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCA RAMACCI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D'Ambrosio Vito che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il difensore Avv. Funari Antonio Salerno.
 

 

Fatto

 


Con sentenza del 12 maggio 2010, il Tribunale di Paola -Sezione di Scalea condannava M.M. alla pena dell'ammendo per il reato di cui alla L. n. 977 del 1967, art. 22, e art. 26, comma 2, per non aver concesso ad una dipendente adolescente, assunta in data 8 giugno 2007 in qualità di cameriera, un periodo di riposo settimanale di almeno due giorni consecutivi comprendenti la domenica.


Avverso tale decisione il predetto proponeva ricorso per cassazione.
Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione dell'art. 42 ter c.p.p., comma 5 e art. 178 c.p.p., lett. c) in quanto il Tribunale, a fronte di certificazione medica attestante il legittimo impedimento del difensore a comparire, ne aveva esclusa la validità sul presupposto che la stessa non conteneva l'indicazione di alcuna patologia e nonostante il difensore avesse personalmente attestato, con ulteriore comunicazione tempestivamente inviata a mezzo fax, di essere affetto da acuta gastroenterite che lo costringeva a non allontanarsi da casa.
Con un secondo motivo di ricorso deduceva la violazione dell'art. 495 c.p.p., commi 4 e 4 bis e art. 178 c.p.p., lett. c) in quanto il Tribunale avrebbe revocato l'ordinanza ammissiva delle prove, nonostante l'opposizione della difesa, sull'erroneo presupposto della natura permanente del reato e la conseguente superfluità delle prove testimoniali che il giudice riteneva limitate alla dimostrazione della data di assunzione della lavoratrice, il cui accertamento riteneva ininfluente ai fini della configurabilità della contravvenzione contestata.
Il Tribunale, aggiungeva, era incorso anche nella violazione dell'art. 522, comma 2 ritenendo il reato permanente e pervenendo alla affermazione di responsabilità per la condotta posta in essere anche nel periodo successivo a quello in contestazione (dal 17.7.2007 al 30.8.2007).
Con un terzo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione non avendo il Tribunale fornito adeguata giustificazione dei criteri di valutazione delle prove a carico dell'imputato.
Insisteva, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.

 


Diritto
 

 

Il ricorso è infondato.


Con riferimento al primo motivo di ricorso, deve ricordarsi che l'art. 420 ter c.p.p., comma 5 che si assume violato, stabilisce che il giudice provvede al rinvio a norma del primo comma nel caso in cui l'assenza del difensore sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purchè prontamente comunicato.
La disposizione attribuisce pertanto al giudice una valutazione discrezionale che, in quanto tale, deve essere sorretta da congrua e puntuale motivazione.
Ciò posto, deve rilevarsi che, nella fattispecie, il giudice ha preso in considerazione l'istanza difensiva dando atto che dalla certificazione prodotta non risultava alcuna specificazione della patologia dalla quale il difensore sarebbe stato affetto, recando il certificato la sola indicazione della necessità di riposo e cure per giorni tre.
Correttamente, pertanto, il giudice di merito ha ritenuto insufficiente tale documentazione in quanto generica e priva di indicazioni circa la patologia sofferta e l'assoluta impossibilità a lasciare la propria abitazione.
E' inoltre evidente che detta certificazione, del tutto carente, non poteva ritenersi validamente integrata dalla dichiarazione, da parte del difensore, che la patologia taciuta dal medico certificatore era in realtà una "acuta gastroenterite con annessi effetti" che giustificava l'assenza, poichè l'attestazione della serietà e gravità della patologia e del conseguente assoluto impedimento deve pervenire da soggetto qualificato e, nel caso in cui il medico accertatore non abbia ritenuto, assumendo le conseguenti responsabilità, di formulare una diagnosi più precisa ed un più articolato giudizio prognostico, il giudice può trarre le proprie conclusioni senza necessità di disporre accertamenti.
Un diverso approccio a fronte di una situazione quale quella dianzi prospettata legittimerebbe il soggetto visitato ad interferire a sua discrezione con le valutazioni del sanitario, imponendo peraltro al giudice una verifica che la certificazione medica di per sè non avrebbe richiesto, dilatando i tempi del processo e contravvenendo al principio che ne impone la ragionevole durata.
Ne consegue che la valutazione discrezionale del giudice appare sorretta da motivazione accurata e scevra da vizi logici che supera agevolmente il vaglio di legittimità.
 

Parimenti infondato risulta il secondo motivo di ricorso.
Va preliminarmente osservato che la valutazione del giudice circa la natura permanente del reato contestato appare corretta.
Dipende infatti dall'imputato la possibilità di far cessare in qualsiasi momento la situazione antigiuridica causata dal proprio comportamento e, conseguentemente, la violazione perdura sino a quando si protrae il comportamento antigiuridico che, nella fattispecie, si concretava nel non consentire alla dipendente adolescente di fruire del riposo settimanale con le modalità prescritte dalla legge.
Sulla scorta di tale presupposto e dell'esito dell'istruzione dibattimentale espletata, il giudice ha poi ritenuto, nel rispetto del contraddittorio, di revocare le prove già ammesse e ritenute superflue.
Tale decisione risulta supportata da adeguata motivazione i cui contenuti sono stati ribaditi nel provvedimento impugnato.
Ciò posto, deve ricordarsi come la giurisprudenza di questa Corte abbia evidenziato che il potere di revoca delle prove superflue attributo al giudice dall'art. 495 c.p.p., comma 4 è più ampio di quello riconosciuto all'inizio del dibattimento dall'art. 190, comma 1 che riguarda le prove vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti e trova giustificazione nel diverso grado di conoscenza della regiudicanda che caratterizza i due distinti momenti del processo (Sez. 2 n. 9056, 27 febbraio 2009; Sez. 6 n. 38812, 19 novembre 2002).
Ne consegue che la decisione sul punto non merita alcuna censura nè risulta violato l'art. 522, comma 2.
Invero il giudice di prime cure nel riconoscere la natura permanente del reato ha correttamente richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "poichè la contestazione del reato permanente, per l'intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l'elemento del perdurare della condotta antigiuridica, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell'accertamento) e non quella finale, la permanenza -intesa come dato della realtà -deve ritenersi compresa nell'imputazione, sicchè l'interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell'azione penale" (SS. UU. n. 10121 22 ottobre 1998) ed ha anche ricordato come la medesima giurisprudenza abbia successivamente chiarito che la contestazione del reato permanente in forma "aperta" non può far ricadere sull'imputato l'onere di dimostrare, a fronte di una presunzione contraria, la cessazione dell'illecito prima della data della condanna di primo grado (Sez. 3 n. 10640, 15 settembre 1999).
Alla luce di tali principi egli ha poi rilevato come risultasse pienamente provata, sulla base del compendio probatorio acquisito, la protrazione della condotta illecita fino alla data di cessazione dell'attività lavorativa della dipendente adolescente.
Per quanto riguarda, infine, il quarto motivo di ricorso deve rilevarsi che il giudice di prime cure ha compiutamente dato atto degli elementi sui quali fondava il proprio convincimento indicando espressamente le prove documentali e testimoniali cui si riferiva con argomentazioni solide, connotate da coerenza logica che, in quanto tali, risultano immuni da censure.
Le doglianze mosse sul punto si presentano, pertanto, palesemente infondate nè può procedersi, in questa sede di legittimità, ad una valutazione alternativa dei dati fattuali acquisiti.
 

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.