Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 settembre 2011, n. 18942 - Licenziamento e comportamento vessatorio: mobbing







Fatto



Il Tribunale di Milano con sentenza del 5 maggio 2006 accoglieva, ritenendola fondata, la domanda presentata dalla sig.ra C.L. in merito al riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento intimatole dalla A. Market s.r.l. per superamento del periodo di comporto, nonché in merito al risarcimento del danno subito a causa del comportamento vessatorio tenuto dal datore di lavoro e, segnatamente, dal direttore della filiale in cui operava, sig. D.M.
Il Giudice di primo grado affermava che, nella fattispecie concreta dedotta in giudizio, era ravvisabile la sussistenza del mobbing, stante la ripetitività, la pretestuosità e la permanenza per un considerevole periodo di tempo di atti vessatori, inerenti alla gestione del rapporto di lavoro e tali da creare un clima ostile; di conseguenza, si doveva riconoscere la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’obbligo di sicurezza e protezione dei dipendenti ex art. 2087 del codice civile.
Inoltre, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, con conseguente applicabilità della tutela reale ex art. 18 L. 300/1970, dal momento che la malattia, causa delle assenze, era ricollegata eziologicamente al comportamento tenuto dal datore di lavoro e dal direttore della filiale.
Con ricorso depositato in data 24 ottobre 2006, A. Market S.r.l. e D.M. proponevano appello avverso la sentenza di primo grado, chiedendone la riforma.
La C. resisteva al gravame.
Con sentenza del 15 gennaio-18 febbraio 2008, l’adita Corte d’appello di Milano rigettava l’impugnazione, ritenendo fondate le doglianze della C.
Precisava che la società non aveva posto alcuna iniziativa volta alla tutela di quest’ultima e, poiché la malattia - come da espletata ctu - era conseguenza dell’accertato comportamento vessatorio, corretta era stata la determinazione dei danni dalla stessa subiti e la condanna dei convenuti in solido al risarcimento degli stessi, liquidati equitativamente in Euro 32.026,85 oltre accessori, nonché del solo convenuto D. al risarcimento del danno morale liquidato in via equitativa in Euro 15.364, 50 oltre accessori.
Soggiungeva che gli importi eventualmente ricevuti a titolo di pensione dalla C. non costituivano aliunde perceptum deducibile. Per la cassazione di tale pronuncia ricorrono S. Commerciale srl, in qualità di società incorporante A. Market srl, e D.M. con cinque motivi. Resiste C.L. con controricorso, depositando anche memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

 



Va preliminarmente disattesa l’eccezione - sollevata dalla difesa della C. - di decadenza dei ricorrenti dalla presente impugnazione ex art. 327 c.p.c., risultando dagli atti di causa che la consegna del ricorso, ai fini della notificazione, è avvenuta in data 13/2/2009 e, quindi, entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, che porta la data del 18/2/2008. Va ancora, in via preliminare, osservato che - come emerge dalla sentenza impugnata - la C. ha lamentato il verificarsi di un’azione vessatoria nei suoi confronti attraverso frequenti rimproveri verbali da parte del direttore della filiale, nonché attraverso atti inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, quali le modalità di contestazione disciplinare dell’ammanco di cassa del 10 agosto 2000 e la concessione, poi revocata, delle ferie per il mese di dicembre. A tale doglianze, il Giudice a quo ha dato riscontro, osservando che la sussistenza degli episodi dedotti in giudizio dalla C. in termini di trattamento vessatorio ed ostile risultava dimostrata dalle prove testimoniali assunte in primo grado, avendo i testi escussi confermato che la lavoratrice era stata oggetto di ripetuti rimproveri verbali, anche con l’uso di parole offensive alla presenza di colleghi e clienti, di accuse inveritiere e pretestuose, e di comportamenti arbitrari, da parte del direttore di filiale D., con conseguente grave stress ed umiliazione per la lavoratrice.
Ha, poi, aggiunto, che il Giudice di primo grado, sulla base di quanto emerso dalle prove testimoniali esperite in relazione ai fatti di causa, aveva correttamente considerato la natura degli episodi perpetrati in danno della C.
Ha, quindi, soggiunto che il comportamento datoriale era stato caratterizzato da un insieme di strategie e pratiche vessatorie dirette ad intaccare l’equilibrio psicologico, sociale e professionale della dipendente, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stessa, con la conseguenza che ogni singolo accadimento, magari di per sé apparentemente irrilevante, aveva assunto una valenza fortemente negativa in relazione all’intero contesto lavorativo in cui era maturata la vicenda.
Ha, infine, concluso osservando che l’analisi della fattispecie concreta nella sua complessità conduceva a ravvisare nel comportamento del datore di lavoro una ipotesi di mobbing, che si è manifestata tramite atti ostili, oppressivi e molesti, caratterizzati da pretestuosità, ripetitività, permanenza per un apprezzabile lasso di tempo e finalizzati ad un allontanamento della dipendente.


Queste argomentazioni vengono censurate dalla S. Commerciale S.r.l. e da D.M. con i primi due motivi di ricorso.

Con il primo i ricorrenti, denunciando, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c, omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, dopo aver dedotto che la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Milano è caratterizzata in molti decisivi passaggi da affermazioni estremamente generiche ed apodittiche, nonché da petizioni di mero principio inidonee a motivare la decisione assunta, hanno passato in rassegna le risultanze probatorie che la Corte territoriale avrebbe pretermesso e che possono essere così individuate: 1) deposizioni relative all’ammanco di cassa, 2) deposizioni relative alle ferie, 3) deposizioni relative ai fatti del 12.12.2000.
Quanto alla prima vicenda, si è trattato - come è pacifico - di una contestazione disciplinare rivolta in data 1 agosto 2000 alla sig.ra C. e relativa ad un ammanco di cassa di L. 49.470, conclusasi con l’irrogazione della sanzione, non impugnata, del rimprovero verbale.


Quanto alla seconda, essa ha riguardato la doglianza secondo cui la ricorrente al ritorno dalla malattia - protrattasi dal 10 agosto al 5 novembre 2000 - avrebbe chiesto alla responsabile del reparto, signora G.L., collaboratrice del direttore, di poter godere delle ferie; a fronte della richiesta, le sarebbero state date rassicurazioni circa la concreta possibilità di fruirne ma, ad un certo punto, tale diritto le sarebbe stato negato per agevolare un’altra dipendente, appena assunta.
Infine, per quanto attiene agli accadimenti del 12 dicembre 2000, allorquando, secondo la prospettazione della lavoratrice, la signora C. sarebbe stata “senza alcun motivo” avvicinata dal vice-direttore, il quale le avrebbe detto “non parli con i clienti e rivolga la parola solo lo stretto necessario, altrimenti farà una grossa litigata, come l’altra volta, con il direttore”, la stessa, a causa di tale contegno, avrebbe avvertito un malore.
Osserva il Collegio che, in relazione ai suddetti episodi, i cui primi due hanno trovato una loro specificazione nella esposizione del fatto in sentenza, nulla è stato affermato dal Giudice a quo.
Nessun riferimento in ordine alla valutazione degli stessi risulta, infatti, nella pronuncia ma solo generici richiami al comportamento vessatorio ed ostile ed arbitrario del direttore di filiale, D.
Quanto poi al malore che la C. avrebbe avuto il 12 dicembre 2000 nulla si afferma in sentenza, sicché deve ricavarsi l’assenza di qualsivoglia intento emulativo o persecutorio nell’operato del D. e della Società e l’insussistenza di nesso di causalità tra le parole del vicedirettore ed il malore.
Del resto, nello stesso controricorso si precisa che si tratta di un episodio non riferito nelle sentenze di merito con conseguente irrilevanza di ogni considerazione sul punto.
Orbene, in mancanza delle necessarie specificazioni, le circostanze rappresentate dalla lavoratrice non possono di per sé essere qualificare come vessatorie o persecutorie, potendo trattarsi di atti legittimi, espressione del potere direttivo e gerarchico esercitato dal direttore.
La contestazione di un ammanco (peraltro sanzionata in modo ben più lieve di quello che sarebbe stato possibile), la mancata concessione delle ferie nel periodo natalizio, il rimprovero per un atteggiamento non condiviso dalla direzione, lungi dall’avere una valenza persecutoria o emulativa, ben potrebbero essere inquadrati solo e soltanto come esplicazione del potere datoriale, costituzionalmente garantito.
Come noto, esso può sì essere sottoposto al vaglio del Giudice, il quale non può tuttavia giungere a sindacare le scelte datoriali ma può e deve valutare ed indicare gli elementi dai quali ha dedotto che la condotta datoriale sia sconfinata dall’alveo dell’esercizio dei poteri direttivo, disciplinare o gerarchico all’ambito dell’arbitrio o dell’atto emulativo.
Tale valutazione non è stata posta in essere dalla Corte di Appello, che ha omesso di indicare fatti, circostanze e prove giungendo ad esprimere la propria conclusione, senza spiegare l’iter logico che ha condotto alla contestata decisione.
Più in dettaglio, proprio perché gli episodi, appena esaminati, si prestano ad essere valutati come manifestazione di potere datoriale, il diverso giudizio espresso in sentenza avrebbe richiesto una motivazione ben più articolata volta a giustificare, con riferimento a dati concreti, le ragioni di questo diverso opinare.

Con il secondo motivo, i ricorrenti, denunciando ancora omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., lamentano che, al pari dei capi della sentenza esaminati al punto che precede, anche i successivi passaggi motivazionali della decisione assunta dalla Corte d’Appello risultano prima facie talmente vaghi, generici e privi di specifici richiami a fatti ed a rilievi istruttori da non consentire di comprendere su quali circostanze il Giudice del gravame abbia fondato la propria decisione, né quale sia l’iter logico sotteso al decisum.


Anche questo motivo è fondato.
Afferma, infatti, la Corte d’Appello che “il comportamento datoriale è stato caratterizzato da un insieme di strategie e pratiche vessatorie dirette ad intaccare l’equilibrio psicologico, sociale e professionale della dipendente, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stessa; ogni singolo accadimento, magari di per sé apparentemente irrilevante, ha assunto però una valenza fortemente negativa in relazione all’intero contesto lavorativo in cui è maturata la vicenda. L’analisi della fattispecie concreta nella sua complessità ha condotto a ravvisare nel comportamento del datore di lavoro una ipotesi di mobbing che si è manifestata tramite atti ostili, oppressivi e molesti, caratterizzati da pretestuosità, ripetitività, permanenza per un apprezzabile lasso di tempo e finalizzati ad un allontanamento della dipendente”.
Commenta la Corte in un successivo passaggio: “Invece, risultano provati non solo gli atteggiamenti persecutori e vessatori nei confronti della C. con conseguente lesione della personalità di quest’ultima (…)”. Leggendo la motivazione che precede non è dato comprendere a quali “strategie e pratiche vessatorie” faccia riferimento la Corte d’Appello, né da quali fatti o rilievi istruttori la Corte abbia dedotto l’esistenza di un presunto - ma imprecisato - disegno illecito, perpetrato dagli esponenti ai danni della lavoratrice.
Non un fatto, una testimonianza o un’emergenza probatoria viene poi richiamata dalla Corte, secondo cui le pratiche datoriali sarebbero state intenzionalmente finalizzate a nuocere all’equilibrio psico-fisico della C.
In altri termini, la Corte d’Appello non ha indicato quali circostanze, fatti o comportamenti datoriali sarebbero caratterizzati da “ripetitività, permanenza per un apprezzabile lasso di tempo”, né quali elementi probatori abbiano confermato che i non meglio precisati “atti ostili” risulterebbero “finalizzati ad un allontanamento della dipendente”.
Tali lacune impediscono di comprendere quali siano gli elementi di fatto dai quali il Giudice ha tratto il proprio convincimento, non consentendo l’identificazione del criterio posto alla base della decisione.
Né siffatte omissioni permettono di verificare se la Corte d’Appello abbia tenuto conto di tutte le circostanze accadute.
In conclusione - a parere del Collegio - il Giudice del gravame non ha in alcun modo messo in rilievo gli elementi fattuali e probatori necessari per chiarire e sorreggere adeguatamente la ratio decidendi, né tanto meno ha descritto quali risultanze debbano ritenersi rilevanti ai fini del decidere, ponendo a base della decisione una insufficiente motivazione. Per quanto precede gli esaminati motivi vanno accolti con assorbimento degli ulteriori. Conseguentemente l’impugnata sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio per il riesame alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che provvedere anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.



La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Depositata in Cancelleria il 16.09.2011