Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Milano, Sez. Lav., 19 luglio 2011 - Licenziamento per causa di malattia e mobbing


 



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE LAVORO

Nella persona del dott. F. Scarzella
ha pronunciato la seguente
SENTENZA


Nella causa n. 7284/2010
promossa da
SA.MA., assistita dall'avv. V.Co.
nei confronti
AGENZIA DELLE ENTRATE, assistita dall'avvocatura dello Stato.
 



 

FattoDiritto
 

 


La domanda avanzata da Sa.Ma. va in parte accolta.
In via preliminare di rito va ribadita la legittimità dell'acquisizione dei documenti prodotti dalla resistente il 29.4.2011, ex art. 421 c.p.c., tenuto conto, da una parte, che gli stessi appaiono strettamente rilevanti rispetto alle difese ed eccezioni delle parti e, quindi, all'oggetto del presente giudizio, e che, dall'altra, la ricorrente ha comunque goduto di un termine a difesa per eventuali controdeduzioni o osservazioni.
In via preliminare di merito va poi innanzitutto rilevato, per autorevole giurisprudenza, che nella fattispecie di recesso del datore di lavoro per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cosiddetto esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione. La comunicazione dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto poteva consentire in ogni caso al dipendente di porre in essere iniziative, richiesta di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere la sua obbligatone, che è interesse legittimo del datore di lavoro. Questi può obbligarsi, come poi ha fatto, a detta comunicazione, ma in mancanza di un obbligo contrattuale non può ritenersi che correttezza e buona fede impongano al creditore di consentire al debitore di eludere l'accertamento della sua impossibilità di adempiere, (v. Cass. l4891/2006).

E ancora, avuto riguardo all'asserito mancato superamento del previsto periodo di comporto, va rilevato, per costante e autorevole giurisprudenza, che "in tema di periodo di comporto per il lavoro a tempo parziale verticale, anche dopo l'entrata in vigore della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 61 del 2000 - che ha introdotto il principio di non discriminazione tra lavoro a tempo parziale e lavoro a tempo pieno - il giudice, mediante il ricorso alle fonti indicate dall'art. 2110 cod. civ., può provvedere al riproporzionamento al fine di evitare conseguenze eccessivamente onerose per il datore di lavoro, non ostandovi la circostanza che il potere di modulazione della durata di tale periodo sia demandato alla contrattazione collettiva, attesa la necessità, in assenza di quest'ultima, di applicare il rapporto di proporzionalità in relazione alla durata temporale dell'impegno lavorativo" (v. Cass. n. 27762/2009). Ancora, "nel caso di licenziamento per eccessiva morbilità di un lavoratore part - time, in assenza di una specifica disciplina contrattuale collettiva, il comporto applicabile è quello previsto dalla stessa disciplina per i lavoratori a tempo pieno ("full time") qualora si tratti di rapporto di lavoro part - time orizzontale, con orario ridotto ma uniforme per tutti i giorni; nel caso, invece, di rapporto part - time verticale è affidato al giudice di merito il compito di ridurre il detto periodo in proporzione alla quantità della prestazione, eventualmente facendo ricorso alle fonti sussidiarie indicate dall'art. 2110 cod. civ. (usi o equità), di modo che, avuto riguardo alla particolarità del rapporto, resti salva la causa del contratto e sia mantenuto costante l'equilibrio dello scambio fra prestazione e controprestazione, con l'osservanza dei limiti derivanti dall'art. 1464 cod. civ." (v. Cass. 14065/1999). "Ai sensi dell'art. 1 D.Lgs. n. 61 del 2000, come modificato dal D.Lgs. n. 100 del 2001, applicabile "ratione temporis", in caso di passaggio dal tempo pieno - come fissato dalla legge o dalla contrattazione collettiva di settore - al tempo parziale nell'ambito del settore pubblico, il rapporto lavorativo, a seguito del contratto individuale del dipendente, si qualifica come part-time cosiddetto orizzontale quando la riduzione quantitativa della prestazione investa l'ordinario orario giornaliero di alcuni o tutti i giorni lavorativi che restano inalterati nel loro susseguirsi, in ciò differenziandosi dal part-time cosiddetto verticale, ove l'intera prestazione - eseguita secondo l'orario ordinario - si svolge soltanto in periodi predeterminati della settimana, del mese o dell'anno, così da modificare l'ordine e la successione stessa delle giornate lavorative" (v. Cass. 7313/2008).

Sempre in via preliminare, con riguardo alla configurabilità e all'accertamento del cd "mobbing" - consistente, secondo i più, in una situazione di disagio fisio-psichico provocata al lavoratore da ripetuti soprusi posti volontariamente e consapevolmente in essere da colleghi e superiori al fine di determinare l'isolamento e l'emarginazione, professionale ed "umano", dello stesso all'interno del contesto lavorativo - va poi evidenziato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 359/2003, ha definito tale fattispecie "come complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo...

Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte - commissive od omissive - che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico potendo tuttavia acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e, talvolta, dalla scopo di persecuzione e di emarginazione". La giurisprudenza ha prevalentemente ricondotto le concrete fattispecie di mobbing alla previsione dell'art. 2087 c.c. e, in particolare, al precetto secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure... necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Ai fini della sussistenza di tale fattispecie sono pertanto necessari due elementi e, cioè, l'intenzionalità e la consapevolezza e la reiterazione e la sistematicità delle condotte finalizzate all'isolamento e all'emarginazione del lavoratore, attuate spesso attraverso atti di demansionamento, di inattività forzata e di privazione dei necessari strumenti di lavoro (v. circolare Inail 17712/2003).

Nel caso di asserita violazione del precetto contenuto nell'art. 2087 c.c. è poi onere del lavoratore, che lamenti un danno alla salute seguito alla asserita violazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, di provare il dolo o almeno la colpa di quest'ultimo nella mancata adozione di tale misure, l'esistenza di un evento dannoso - e cioè la sussistenza di un danno e/o malattia di natura psico-fisico - e il nesso causale tra l'uno e l'altro elemento (v. Cass. nn. 1844/1992; 11120/1995).

Nel merito va innanzitutto rilevato che la ricorrente, durante il periodo di malattia per cui è causa, instaurava con la resistente un rapporto di lavoro part time di tipo verticale, così come attestato dai contratti prodotti dalla resistente il 28.4.2011.

Non assume sul punto rilievo l'orario lavorativo assegnato alla ricorrente in vista del suo trasferimento presso la Regione Lazio, nell'ambito della procedura di mobilità volontaria nazionale per l'anno 2006, visto che, per espressa previsione normativa, la mancata assunzione in servizio del dipendente presso la sede di destinazione alla data di decorrenza del trasferimento ne determina la decadenza, circostanza questa verificatasi nel caso di specie stante la mancata tempestiva assunzione in servizio della Sa. presso la sede di destinazione (v. docc. 10 e ss. di parte ricorrente).

Il licenziamento impugnato appare innanzitutto illegittimo per genericità non avendo parte resistente dato puntualmente conto, né nella lettera di recesso né nella procedente comunicazione del 27.5.2009, del criterio di computo e del numero esatto delle assenze considerate ai fini del contestato superamento del periodo di comporto, conteggio quanto mai opportuno nel caso di specie stante la doverosa rimodulazione del relativo ammontare in base alla durata e all'entità dei rapporti di lavoro part-time intercorsi tra le parti. Parte resistente non ha in ogni caso provato, in maniera sufficientemente attendibile, nemmeno l'effettiva entità delle assenze fruite dalla ricorrente nel periodo per cui è causa e l'avvenuto superamento del periodo di comporto previsto dalla legge, così come rimodulato in base alle previsioni della normativa collettiva di riferimento e ai criteri previsti dall'art. 2110 c.c., visto che la prima, negli atti di causa, quantifica il valore soglia rilevante nel caso di specie una volta in 463 giorni poi in 477 giorni (allegato 3) quindi in 468 giorni (scheda riepilogativa assenze), 461 (all. 32) e infine in 456 giorni nella memoria finale, periodo questo in ogni caso sproporzionato rispetto alla durata del periodo di comporto di 548 giorni previsto dalla normativa di riferimento per i rapporti di lavoro full time e dell'entità dei rapporti part-time intercorsi tra le parti che, in base agli stessi prospetti di parte resistente, erano in media pari a circa il 90% di un rapporto full-time. Il valore soglia del comporto in oggetto va pertanto identificato in un numero compreso tra i 490 e i 480 giorni - ben superiori alle assenze per malattia della ricorrente quantificate in 473 giorni nella memoria finale - a seconda del numero effettivo di assenze fruite dalla ricorrente, tenuto oltretutto conto che dal 1.1.2007 al 10.6.2007 intercorreva tra le parti un rapporto full time e che la stessa, nel medesimo periodo, godeva di una aspettativa per motivi estranei a un'ipotesi di malattia. Va del resto rilevato che la stessa resistente individuava, nel corso del giudizio, in maniera temporalmente differente, la decorrenza del triennio rilevante ai fini del superamento del periodo di comporto ora identificato nell'arco temporale 5.5.2005-5.5.2008 (ultima memoria difensiva) ora nel periodo 11.5.2005-5.5.2008 (allegato num. 3). Va infine rilevato che lo stesso teste escusso (Lu.) non era in grado di confermare l'attendibilità dei dati indicati dalla resistente vista l'oggettiva discrasia dei dati presenti nei doc. 3 e 32 prodotti da quest'ultima rispetto ai valori soglia e al numero dei giorni di assenza della ricorrente per malattia e la mancata indicazione, con la necessaria certezza e attendibilità, dei criteri e delle operazioni aritmetiche utilizzate per la redazione dei conteggi acquisiti.


Dalla accertata genericità e ingiustificatezza e, quindi, illegittimità del recesso impugnato discende il suo annullamento con conseguente diritto della ricorrente ad essere reintegrata nel proprio posto di lavoro e a vedersi corrispondere dalla resistente le retribuzioni maturate dal 18.8.2010 alla reintegra, oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei al saldo. Si reputa infatti nel caso di specie equo congruo limitare la decorrenza dell'importo risarcitorio spettante alla ricorrente solo dal momento del deposito del ricorso in esame tenuto conto del rilevante arco temporale compreso tra il momento del licenziamento e la proposizione della domanda giudiziale e della mancata messa formale in mora della resistente in epoca precedente, circostanze queste che dimostrano il concreto disinteresse della ricorrente, nel citato periodo, alla ricostituzione del rapporto di lavoro in esame.

Appare infine infondata la domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente in relazione alla condotta di mobbing posta asseritamente in essere ai suoi danni dalla resistente. Va infatti sul punto rilevato che la ricorrente non deduce e non chiede di provare, come era suo onere, ex art. 2697 c.c., in maniera sufficientemente attendibile e specifica, la sussistenza di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei suoi confronti da parte dei colleghi o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione tenuto oltretutto conto che alcune delle condotte indicate, oltre ad essere assai risalenti nel tempo (v. par. 12.1 relativo al 1987 e 12.2 e ss), appaiono "strictu sensu" estranee al rapporto di lavoro per cui è causa (v. par. 12.2, 12.312.4) o prive di caratteristiche "prima facie" vessatorie, anche in quanto pacificamente connotate da ampi poteri discrezionali (12.11, 12.12, 12.13, 12.5) o sfornite di idoneo supporto probatorio (v. par. 12.6, 12.9, 12.12), o relative all'esercizio di legittimi poteri disciplinari in capo all'ente resistente (v. par. 12.14). Va in ogni caso rilevato che la ricorrente non deduce e non chiede di provare, in maniera sufficientemente attendibile, l'attuale sussistenza e l'entità di danni permanenti di natura psico-fisica e la loro diretta correlazione con condotte datoriali, tenuto oltretutto conto che i giudizi medici in atti appaiono fondati su dichiarazioni unilaterali della prima. Va in ogni caso rilevata la genericità e la connotazione valutativa e, quindi, l'inammissibilità, dei capitoli di prova dedotti. Quanto esposto pare assorbente rispetto all'esame delle restanti istanze ed eccezioni delle parti.
 

Spese di lite compensate tra le parti in ragione di 1/2, visto il non integrale accoglimento del ricorso, e liquidate per la restante parte, secondo il principio soccombenza, nella misura indicata in dispositivo, tenuto conto della natura, del valore e della esigua durata della causa.

 

P.Q.M.

 


Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando,
1) Dichiara illegittimo il licenziamento impugnato e condanna Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro e a corrisponderle le retribuzioni maturate dal 18.8.2010 al saldo, oltre interessi legali dalla maturazione dei ratei al saldo;
2) rigetta le restanti domande ed eccezioni delle parti;
3) Compensa, in ragione di 1/2 tra le parti, le spese di lite e condanna Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a rifondere alla ricorrente le restanti spese di lite liquidate in complessivi Euro 2200,00, oltre accessori di legge, in favore dell'avvocato anticipatario.