CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

Paolo Mengozzi

presentate il 18 gennaio 2007 (1)

Causa C-127/05

Commissione delle Comunità europee

contro

Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord

«Direttiva 89/391/CEE – Sicurezza e salute dei lavoratori – Obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza e salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro – Responsabilità del datore di lavoro»

Fonte: Sito web Eur-Lex

 

© Unione europea, http://eur-lex.europa.eu/



 

I – Introduzione

1. Nel presente giudizio la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, circoscrivendo nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord è venuto meno agli obblighi che gli incombono in virtù dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva 12 giugno 1989 del Consiglio, 89/391/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro (2).

II – Quadro normativo di riferimento

A – La direttiva 89/391

2. Adottata sulla base dell’art. 118 A del Trattato CE (gli artt. 117‑120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE‑143 CE), in attuazione del Terzo Programma di Azione Comunitaria, relativo alla sicurezza, all’igiene e alla salute sul luogo di lavoro del 23 ottobre 1987 (3), la direttiva 89/391, detta anche «direttiva quadro», predispone una regolamentazione di carattere generale in materia di prevenzione dei rischi professionali e di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori entro la quale iscrivere il disegno di armonizzazione tecnica delle regole di sicurezza all’interno della Comunità (in prosieguo: la «direttiva quadro»). La portata generale della direttiva quadro si evince, oltre che dall’art. 1, n. 2, che ne definisce l’oggetto, dal suo art. 16, il quale, dopo aver previsto al n. 1 che il Consiglio, su proposta della Commissione fondata sull’art. 118 A del Trattato CE, stabilisce direttive in settori particolari (c.d. «direttive figlie» (4)), precisa, al successivo n. 3, che «le disposizioni della presente direttiva si applicano interamente all’insieme dei settori contemplati dalle direttive particolari, fatte salve le disposizioni più rigorose e/o specifiche [in esse contenute]».

3. Ciò premesso, occorre richiamare anzitutto il testo dell’art. 118 A del Trattato CE e, successivamente, le disposizioni della direttiva quadro che vengono in rilievo nell’ambito del presente giudizio nonché, a grandi linee, l’impianto di questa.

4. Introdotto nel Trattato CE dall’art. 21 dell’Atto unico europeo, l’art. 118 A ha conferito, nell’ambito della politica sociale della Comunità, specifica ed autonoma rilevanza alla materia della sicurezza sul lavoro. Esso ha costituito la base giuridica per l’adozione in tale materia delle direttive cosiddette di «seconda generazione», non più fondate, come le precedenti, sugli artt. 100 o 100 A del Trattato CE, i quali mal si prestavano ad una regolamentazione estensiva del settore a causa del vincolo teleologico − costituito dalla necessaria strumentalità all’instaurazione e al funzionamento del mercato comune − che essi imponevano agli atti adottati sul loro fondamento (5).

5. Ai sensi dell’art. 118 A, n. 1, del Trattato CE, «gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento in particolare dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori, e si fissano come obiettivo l’armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore». Per contribuire alla realizzazione di tale obiettivo, il n. 2 di detto articolo stabilisce che il Consiglio, seguendo la procedura indicata in tale disposizione, «adotta mediante direttive le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro» ed evitando di «imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese». Infine, il n. 3 del medesimo articolo precisa che «le disposizioni adottate a norma del presente articolo non ostano a che ciascuno Stato membro mantenga e stabilisca misure, compatibili con il presente trattato, per una maggiore protezione delle condizioni di lavoro».

6. La direttiva quadro si suddivide in quattro sezioni. La prima, intitolata «Disposizioni generali», si compone di quattro articoli. Gli artt. 1 e 2 delimitano rispettivamente l’oggetto e l’ambito di applicazione della direttiva, mentre l’art. 3 definisce le nozioni di lavoratore, datore di lavoro, rappresentante dei lavoratori e prevenzione. In particolare, l’art. 3, lett. b), definisce «datore di lavoro» «qualsiasi persona fisica o giuridica che sia titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore e abbia la responsabilità dell’impresa e/o dello stabilimento». L’art. 4, n. 1, stabilisce che «gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie per garantire che i datori di lavoro, i lavoratori e i rappresentanti dei lavoratori siano sottoposti alle disposizioni giuridiche necessarie per l’attuazione della presente direttiva».

7. La seconda sezione della direttiva quadro, intitolata «Obblighi del datore di lavoro», si compone di otto articoli. L’art. 5, sotto la rubrica «Disposizioni generali», descrive, al n. 1, l’obbligazione datoriale di sicurezza nei seguenti termini:

«Il datore di lavoro è obbligato a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro».

8. I nn. 2 e 3 del medesimo art. 5 dispongono:

«2. Qualora un datore di lavoro ricorra, in applicazione dell’articolo 7, paragrafo 3, a competenze (persone o servizi) esterne all’impresa e/o allo stabilimento, egli non è per questo liberato dalle proprie responsabilità in materia.

3. Gli obblighi dei lavoratori nel settore della sicurezza e della salute durante il lavoro non intaccano il principio della responsabilità del datore di lavoro».

9. L’art. 5, n. 4, primo comma, dispone, infine, che la direttiva «non esclude la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esclusione o la diminuzione della responsabilità dei datori di lavoro per fatti dovuti a circostanze a loro estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata». Il secondo comma dell’art. 5, n. 4, precisa che «[g]li Stati membri non sono tenuti ad esercitare la facoltà di cui al primo comma».

10. Il contenuto dell’obbligo di sicurezza che incombe al datore di lavoro è precisato ai successivi articoli 6‑12 della direttiva quadro.

11. Ai fini dell’esame della presente causa, vengono particolarmente in rilievo le disposizioni dell’art. 6, intitolato «Obblighi generali del datore di lavoro», che dispone quanto segue:

«1. Nel quadro delle proprie responsabilità il datore di lavoro prende le misure necessarie per la protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, comprese le attività di prevenzione dei rischi professionali, d’informazione e di formazione, nonché l’approntamento di un’organizzazione e dei mezzi necessari.

Il datore di lavoro deve provvedere costantemente all’aggiornamento di queste misure, per tener conto dei mutamenti di circostanze e mirare al miglioramento delle situazioni esistenti.

2. Il datore di lavoro mette in atto le misure previste al paragrafo 1, primo comma, basandosi sui seguenti principi generali di prevenzione:

a) evitare i rischi;

b) valutare i rischi che non possono essere evitati;

c) combattere i rischi alla fonte;

d) adeguare il lavoro all’uomo, in particolare per quanto concerne la concezione dei posti di lavoro e la scelta delle attrezzature di lavoro e dei metodi di lavoro e di produzione, in particolare per attenuare il lavoro monotono e il lavoro ripetitivo e per ridurre gli effetti di questi lavori sulla salute;

e) tener conto del grado di evoluzione della tecnica;

f) sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non è pericoloso o che è meno pericoloso;

g) programmare la prevenzione, mirando ad un complesso coerente che integri nella medesima la tecnica, l’organizzazione del lavoro, le condizioni di lavoro, le relazioni sociali e l’influenza dei fattori dell’ambiente di lavoro;

h) dare la priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;

i) impartire adeguate istruzioni ai lavoratori.

3. Fatte salve le altre disposizioni della presente direttiva, il datore di lavoro, tenendo conto della natura delle attività dell’impresa e/o dello stabilimento, deve:

a) valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici e nella sistemazione dei luoghi di lavoro.

A seguito di questa valutazione, e se necessario, le attività di prevenzione, i metodi di lavoro e di produzione adottati dal datore di lavoro devono:

– garantire un miglior livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori;

– essere integrate nel complesso delle attività dell’impresa e/o dello stabilimento e a tutti i livelli gerarchici;

b) quando affida dei compiti ad un lavoratore, tener conto delle capacità dello stesso in materia di sicurezza e salute;

c) far sì che la programmazione e l’introduzione di nuove tecnologie formino oggetto di consultazioni con i lavoratori e/o i loro rappresentanti, per quanto riguarda le conseguenze sulla sicurezza e la salute dei lavoratori, connesse con la scelta delle attrezzature, la riorganizzazione delle condizioni di lavoro e l’impatto dei fattori dell’ambiente di lavoro;

d) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni possano accedere alle zone che presentano un rischio grave e specifico.

4. Fatte salve le altre disposizioni della presente direttiva, quando in uno stesso luogo di lavoro sono presenti i lavoratori di più imprese, i datori di lavoro devono cooperare all’attuazione delle disposizioni relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute, e, tenuto conto della natura delle attività, coordinare i metodi di protezione e di prevenzione dei rischi professionali, informarsi reciprocamente circa questi rischi e informarne i propri lavoratori e/o i loro rappresentanti.

5. Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori».

12. Gli artt. 7 e seguenti della direttiva quadro pongono a carico del datore di lavoro obblighi più specifici, quali: l’organizzazione di servizi di protezione e prevenzione (art. 7), l’adozione di misure adeguate in materia di pronto soccorso, lotta antincendio, evacuazione dei lavoratori e pericolo grave e immediato (art. 8), la predisposizione di una valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro e la determinazione delle misure protettive da prendere inclusa l’attrezzatura di protezione da utilizzare (art. 9), nonché obblighi in materia di informazione, di consultazione e partecipazione, e di formazione dei lavoratori (rispettivamente artt. 10, 11 e 12).

13. La terza sezione della direttiva quadro si compone di un unico articolo che definisce gli obblighi dei lavoratori nella gestione della sicurezza (art. 13).

14. Infine, la quarta sezione della direttiva reca «Disposizioni varie», tra le quali il sopramenzionato art. 16 (6). Ai sensi dell’art. 18, n. 1, «[g]li Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi il 31 dicembre 1992».

B – La normativa nazionale

15. Il Regno Unito è il primo paese industrializzato ad aver adottato una normativa in materia di sicurezza e salute dei lavoratori. Il primo Factory Act, volto a regolamentare il lavoro minorile, risale al 1802 e fu seguito da numerosi interventi legislativi nella materia, in un primo momento limitati a specifiche categorie di lavoratori e a determinati settori economici e successivamente estesi all’insieme delle attività industriali con il Factory and Workshop Act 1878.

16. Nell’intento di conferire unitarietà alla produzione normativa in materia antinfortunistica, caratterizzata da frammentarietà e da un approccio legislativo permeato di pragmatismo, nel 1970 fu costituita una commissione, presieduta da Lord Robens, la quale presentò nel 1972 un rapporto contenente diverse raccomandazioni, sulla base delle quali fu adottato lo Health and Safety at Work Act 1974 (in prosieguo: l’«HSW Act»).

17. Quest’ultimo costituisce la pietra angolare dell’intero sistema britannico della sicurezza sul lavoro. Si tratta in sostanza di una legge quadro, più volte modificata nel corso degli anni, la quale definisce le prescrizioni minime applicabili all’insieme dei lavoratori, indipendentemente dal settore di attività. Sulla base dell’HSW Act sono stati adottati diversi atti di natura regolamentare in funzione integrativa della disciplina da esso predisposta.

18. Occorre a questo punto rilevare che la trasposizione della direttiva 89/391 ha dato origine, in diritto britannico, a limitati interventi normativi, e ciò sia in quanto il sistema esistente è stato considerato, nelle sue grandi linee, conforme alle prescrizioni di quest’ultima, sia per effetto della volontà politica espressa dal governo conservatore dell’epoca di limitare al minimo l’impatto della direttiva − e più in generale degli interventi comunitari in materia di politica sociale − sull’ordinamento interno.

19. Trattandosi delle disposizioni attraverso le quali è realizzato in diritto britannico l’adeguamento alle prescrizioni dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, il governo convenuto si riferisce alla sezione 2 dell’HSW Act, intitolata «General duties of employers to their employees», il cui paragrafo 1 dispone quanto segue:

«It shall be the duty of every employer to ensure, so far as is reasonably practicable, the health, safety and welfare at work of all his employees».

20. Il paragrafo 2 della medesima sezione elenca, in modo non esaustivo, alcuni obblighi specifici che incombono al datore di lavoro in virtù dell’obbligazione di sicurezza enunciata in termini generali nel suddetto paragrafo 1. Esso dispone:

«Without prejudice to the generality of an employer’s duty under the preceding subsection, the matters to which that duty extends include in particular:

a) the provision and maintenance of plant and systems of work that are, so far as is reasonably practicable, safe and without risks to health;

b) arrangements for ensuring, so far as is reasonably practicable, safety and absence of risk to health in connection with the use, handling, storage and transport of articles and substances;

c) the provision of such information, instruction, training and supervision as is necessary to ensure, so far as is reasonably practicable, the health and safety at work of his employees;

d) so far as is reasonably practicable as regards any place of work under the employer’s control, the maintenance of it in a condition that is safe and without risks to health and the provision and maintenance of means of access to and egress from it that are safe and without such risks;

e) the provision and maintenance of a working environment for his employees that is, so far as is reasonably practicable, safe, without risks to health, and adequate as regards facilities and arrangements for their welfare at work».

21. Le violazioni degli obblighi imposti al datore di lavoro dalla sezione 2 dell’HSW Act sono penalmente sanzionate in base alle disposizioni delle sezioni 33, paragrafo 1, lett. a), e 47, paragrafo 1, lett. a), del medesimo atto.

22. Nel caso di infortuni sul lavoro o di malattie professionali le vittime sono indennizzate in base alle disposizioni dell’Industrial Injury Scheme, finanziato dalle imposte generali e quindi su base non contributiva.

23. Inoltre, sebbene, in forza della sezione 47, paragrafo 1, dell’HSW Act, la violazione degli obblighi imposti dalla sezione 2 del medesimo non dia luogo a responsabilità civile del datore di lavoro, quest’ultima è prevista da diverse disposizioni dei Management of Health and Safety at Work Regulations 1999 che hanno trasposto alcune disposizioni della direttiva quadro e le direttive figlie (7).

24. Infine l’obbligo del datore di lavoro di risarcire i danni causati dalla violazione del dovere di prudenza nei confronti dei lavoratori costituisce un principio di common law.

25. A partire dal 1972, in virtù dell’Employer’s Liability (compulsory insurance) Act 1969, la maggior parte dei datori di lavoro sono tenuti a concludere un’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile a copertura dei danni derivanti da infortuni sul lavoro o malattie professionali.

26. Un sistema analogo a quello sopra delineato vige nell’Irlanda del Nord (8).

III – Procedura precontenziosa

27. Il 29 settembre 1997 la Commissione inviava al Regno Unito una lettera di messa in mora nella quale formulava nei confronti di detto Stato membro un certo numero di addebiti relativi alla trasposizione in diritto britannico della direttiva quadro. Tra questi figurava l’errata trasposizione dell’art. 5 riguardo, tra l’altro, all’inserimento, nella rilevante normativa interna, della clausola «so far as is reasonably practicable» (nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile, in prosieguo: la «clausola SFAIRP»), che a parere della Commissione limitava in modo contrario al n. 1 di detto articolo la portata dell’obbligo da esso previsto a carico del datore di lavoro.

28. In relazione a tale addebito, il Regno Unito replicava, nelle sue risposte del 30 dicembre 1997 e del 23 ottobre 2001 alla lettera di messa in mora, inviando diverse decisioni di giudici nazionali dalle quali emergeva, secondo detto Stato membro, la conformità della predetta clausola all’art. 5 della direttiva quadro.

29. Non persuasa dagli argomenti avanzati dal Regno Unito, la Commissione adottava un parere motivato, inviato a detto Stato membro il 25 luglio 2003, nel quale si contestava, per quanto rileva nel presente giudizio, la violazione dell’art. 5 della direttiva quadro per i motivi già dedotti nella lettera di messa in mora. La Commissione ingiungeva al Regno Unito di conformarsi al parere motivato nel termine di due mesi. Su richiesta del Regno Unito detto termine è stato portato a quattro mesi.

30. Il Regno Unito rispondeva al parere motivato con lettera del 24 novembre 2003 contestando l’asserita violazione dell’art. 5 della direttiva quadro.

IV – Conclusioni delle parti

31. Con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 21 marzo 2005, la Commissione introduceva, sulla base dell’art. 226 CE, il ricorso oggetto del presente giudizio.

32. La Commissione conclude che la Corte voglia:

– dichiarare che, circoscrivendo nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro, il Regno Unito è venuto meno agli obblighi che gli incombono in virtù dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro;

– condannare il Regno Unito alle spese.

33. Il Regno Unito conclude che la Corte voglia:

– respingere il ricorso;

– condannare la Commissione alle spese.

V – Analisi

A – Argomenti delle parti

34. Secondo la Commissione, l’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, che stabilisce il principio fondamentale secondo il quale incombe al datore di lavoro l’obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro, costituisce il cardine del sistema di tutela previsto da detta direttiva. In base alla lettura che la Commissione dà di tale disposizione, il datore di lavoro è responsabile di ogni evento pregiudizievole per la salute e la sicurezza dei lavoratori che si verifica nella sua impresa, con la sola possibile eccezione dei casi espressamente previsti dall’art. 5, n. 4, della direttiva quadro. Tale ultima disposizione, in quanto eccezione al principio generale della responsabilità del datore di lavoro, dovrebbe essere interpretata restrittivamente.

35. La Commissione fa valere che l’interpretazione dell’art. 5 della direttiva quadro da essa suggerita è confermata dai lavori preparatori di tale atto, dai quali si desumerebbe l’intenzione chiara del legislatore comunitario di assoggettare il datore di lavoro ad un regime di responsabilità oggettiva, la quale potrebbe essere esclusa o limitata solo qualora ricorrano le circostanze eccezionali previste dal n. 4 di detto articolo. Tale interpretazione risulterebbe ulteriormente confermata dalla circostanza che, mentre le prime direttive in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, anteriori all’introduzione nel Trattato CE dell’art. 118 A, contemplavano la clausola SFAIRP nella definizione degli obblighi imposti al datore di lavoro, le direttive di «nuova generazione», tra le quali la direttiva quadro, adottate sulla base di detto articolo hanno definitivamente abbandonato tale clausola.

36. Pur concordando con il Regno Unito nel considerare che l’art. 5, n. 1, della direttiva quadro non impone ai datori di lavoro di garantire un ambiente di lavoro assolutamente sicuro, la Commissione sottolinea che il suo approccio diverge da quello del Regno Unito riguardo alle conseguenze derivanti dalla constatazione dell’impossibilità di raggiungere un tale risultato. Secondo la Commissione, la definizione in termini assoluti dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro implica che qualora le misure di prevenzione falliscano quest’ultimo resta comunque oggettivamente responsabile delle conseguenze che ne discendono per la salute dei lavoratori.

37. La Commissione ritiene che l’argomentazione fatta valere in via subordinata dal Regno Unito, secondo la quale la clausola SFAIRP sarebbe compatibile con il combinato disposto dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro, deve essere respinta.

38. A tale proposito, la Commissione rileva che l’art. 5, n. 4, contrariamente a quanto si desume dagli argomenti del Regno Unito, non introduce una deroga al principio della responsabilità del datore di lavoro basata su criteri di ragionevolezza, ma si limita a prevedere i casi nei quali quest’ultimo può, a titolo eccezionale, essere esonerato da responsabilità, casi che possono facilmente essere ricondotti alla scriminante della forza maggiore.

39. Ora, dalla giurisprudenza delle corti britanniche risulterebbe che il bilanciamento di interessi cui i giudici devono fare ricorso nell’applicare la clausola SFAIRP deve essere operato in tutti i casi in cui viene in rilievo la responsabilità del datore di lavoro, anche quando gli eventi pregiudizievoli per la salute dei lavoratori sono causati dal verificarsi di fatti interamente prevedibili. Poiché non esiste alcuna definizione della clausola controversa che ne limiti l’applicazione alle sole ipotesi in cui i danni alla salute dei lavoratori sono cagionati da circostanze imprevedibili o da eventi eccezionali né alcuna giurisprudenza dalla quale si desuma che detta clausola può essere invocata dal datore di lavoro quale mezzo di difesa unicamente in presenza di tali circostanze o eventi, la Commissione ritiene che la sua applicazione nell’ordinamento britannico non consenta di ottenere il risultato imposto dal combinato disposto dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro.

40. La Commissione sottolinea altresì che la valutazione da effettuarsi in base alla clausola SFAIRP implica la presa in considerazione dei costi finanziari delle misure di prevenzione e che ciò è in evidente contrasto con quanto enunciato nel tredicesimo ‘considerando’ della direttiva quadro, in virtù del quale «il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico».

41. Secondo il Regno Unito, l’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, se, da un lato, identifica il datore di lavoro come il soggetto al quale incombe in via primaria l’obbligo di salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori sul posto di lavoro e, letto in combinazione con gli artt. 6‑12 della medesima direttiva e conformemente al principio generale di proporzionalità, definisce la portata di detto obbligo, dall’altro, esso nulla dice circa la natura della responsabilità del datore di lavoro in caso di inosservanza dello stesso. Tale questione sarebbe rimessa agli Stati membri in forza del dovere di adottare le misure necessarie a garantire l’applicazione e l’efficacia del diritto comunitario, di cui l’art. 4 della direttiva quadro costituisce specifica espressione.

42. Circa la portata dell’obbligo imposto al datore di lavoro dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, il Regno Unito ritiene che, benché esso sia espresso in termini assoluti, non ne derivi a carico del datore di lavoro un’obbligazione di risultato, consistente nel garantire un ambiente di lavoro esente da ogni rischio.

43. Secondo detto Stato membro, tale interpretazione è coerente sia con le disposizioni della direttiva quadro che mirano a dare concretezza all’obbligo enunciato in detto articolo, segnatamente con l’art. 6, n. 2, che impone al datore di lavoro l’obbligo di «evitare o limitare i rischi» e di «sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o che è meno pericoloso» (9), sia con diverse prescrizioni delle «direttive figlie» che, precisando le misure di prevenzione da adottare in specifici settori produttivi, si riferiscono a considerazioni di «praticabilità» o «adeguatezza» di tali misure. Tale interpretazione sarebbe altresì conforme al principio generale di proporzionalità e all’art. 118 A del Trattato CE, che costituisce la base giuridica della direttiva quadro, in forza del quale le direttive adottate sul suo fondamento mirano a introdurre unicamente «prescrizioni minime applicabili progressivamente».

44. Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, il Regno Unito osserva che nulla nella direttiva quadro né, segnatamente, nel suo art. 5, n. 1, suggerisce che il datore di lavoro debba essere assoggettato ad un regime di responsabilità oggettiva. In primo luogo, detto articolo prevederebbe unicamente l’obbligo di assicurare la sicurezza e la salute dei lavoratori e non anche l’obbligo di compensare i danni derivanti da infortuni sul lavoro. In secondo luogo, la direttiva quadro lascerebbe gli Stati membri liberi di decidere quale forma di responsabilità, civile o penale, imporre al datore di lavoro. In terzo luogo, sarebbe altresì rimessa agli Stati membri la questione di chi − il singolo datore di lavoro, la categoria dei datori di lavoro nel suo complesso ovvero la collettività − deve sopportare i costi conseguenti agli infortuni sul lavoro.

45. Per quanto concerne l’adattamento dell’ordinamento britannico alla direttiva quadro e gli addebiti formulati dalla Commissione, il Regno Unito fa valere anzitutto che detto ordinamento si caratterizza per la scelta del legislatore di sanzionare penalmente l’inosservanza delle disposizioni a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori e quindi anche dell’obbligo generale di sicurezza sancito dalla sezione 2, paragrafo 1, dell’HSW Act.

46. Secondo detto Stato membro, tale scelta assicura un sistema più efficiente, dato che l’efficacia deterrente di una sanzione penale sarebbe maggiore di quella di una responsabilità civile per danni, contro la quale i datori di lavoro possono prevedere una copertura assicurativa. Inoltre, il ricorso ad un regime di sanzioni penali meglio si concilierebbe con un sistema di tutela, come quello britannico, imperniato sulla prevenzione. L’efficacia del sistema britannico sarebbe d’altronde dimostrata dalle statistiche, dalle quali emerge che il Regno Unito è da lungo tempo uno degli Stati membri con il minor numero di infortuni sul lavoro.

47. Il Regno Unito sottolinea che la sezione 2 dell’HSW Act impone una responsabilità penale «automatica», alla quale il datore di lavoro può sottrarsi unicamente dimostrando di aver fatto tutto ciò che era ragionevolmente praticabile per evitare l’insorgenza di rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Il datore di lavoro non assolverebbe l’onere della prova che gli incombe se non dimostrando che esisteva una manifesta sproporzione («gross disproportion») tra il rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori e il sacrificio in termini di costi, tempo o difficoltà («sacrifice, whether in money, time or trouble») che l’adozione delle misure necessarie ad evitare l’insorgenza di detto rischio avrebbe comportato e che quest’ultimo era insignificante rispetto a detto sacrificio. Il Regno Unito precisa che il test effettuato in applicazione della clausola SFAIRP implica una valutazione puramente oggettiva, nella quale ogni considerazione relativa alle capacità finanziarie del datore di lavoro resta esclusa.

48. Lo Stato membro convenuto afferma, inoltre, che la scelta di trasporre l’art. 5, n. 1, attraverso la previsione di obblighi la cui mancata esecuzione è sanzionata penalmente non implica che, in caso di infortuni sul lavoro, le vittime non possano ottenere un risarcimento.

49. In diritto britannico tale risarcimento sarebbe previsto sulla base di un regime di previdenza sociale.

50. Il Regno Unito fa valere altresì che il datore di lavoro è responsabile per i danni derivanti dalla violazione del dovere di diligenza nei confronti dei lavoratori previsto in common law. In forza di tale dovere il datore di lavoro è tenuto ad assicurare un ambiente di lavoro salubre e sicuro, di prevedere i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e di adottare misure di prevenzione adeguate.

51. In base agli argomenti suesposti, lo Stato membro convenuto ritiene di aver correttamente trasposto l’art. 5, n. 1 della direttiva quadro.

52. In via subordinata, il Regno Unito fa valere che la clausola SFAIRP, quale applicata dai giudici britannici, ha un ambito di applicazione coincidente con quello dell’art. 5, n. 4, della direttiva quadro.

B – Valutazione

1. Osservazioni preliminari

53. Per quanto possa sembrare difficile o artificioso separare l’indagine sul contenuto e sulla portata degli obblighi che incombono ai datori di lavoro in forza della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro da quella relativa alle forme di responsabilità amministrativa, civile o penale che discendono dalla loro inosservanza, mi sembra tuttavia possibile distinguere due diversi livelli di potenziale operatività della clausola SFAIRP, la cui compatibilità con l’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro è contestata dalla Commissione nell’ambito del presente giudizio.

54. Detta clausola è idonea ad operare, in primo luogo, come limite dell’obbligazione generale di sicurezza cui è tenuto il datore di lavoro in forza dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro. In tal senso essa può entrare in gioco nel determinare l’ambito e i limiti dell’attività di prevenzione.

55. In secondo luogo, la clausola controversa è altresì idonea ad operare indirettamente come limite alla possibilità di configurare in capo al datore di lavoro la responsabilità che discende dall’inosservanza di detta obbligazione.

56. La questione della compatibilità della clausola in esame con le disposizioni della direttiva quadro si pone, sul piano logico, nei confronti di entrambi gli ambiti di operatività della stessa sopra delineati.

57. Occorre quindi preliminarmente ricercare quali sono i profili d’illegittimità di detta clausola che la Commissione intende sollevare nel ricorso oggetto del presente giudizio.

58. Dalla lettura delle memorie scritte depositate dalla Commissione emergono in modo sufficientemente chiaro i contorni della tesi sostenuta dalla ricorrente. Secondo quest’ultima, l’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, oltre a definire in termini assoluti l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in ogni aspetto connesso con il lavoro, come corollario di tale obbligo sancisce la responsabilità del datore di lavoro per ogni evento lesivo della salute dei lavoratori che si verifica nella sua impresa. Dal combinato disposto dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro la Commissione deduce la natura di detta responsabilità qualificandola come oggettiva. Secondo detta istituzione, il datore di lavoro resta responsabile delle conseguenze di ogni evento lesivo della salute dei lavoratori che si verifichi nella sua impresa indipendentemente dalle misure preventive che egli abbia concretamente adottato o avrebbe potuto adottare, con la sola eccezione delle ipotesi espressamente previste dall’art. 5, n. 4, della direttiva quadro. Poiché emergerebbe dalle disposizioni dell’HSW Act e segnatamente dalla sezione 2, paragrafo 1, letta congiuntamente alle sezioni 33 e 47, che il datore di lavoro non è responsabile dei rischi che insorgono o delle conseguenze degli eventi che si verificano nella sua impresa qualora possa dimostrare di avere adottato tutte le misure ragionevolmente praticabili al fine di garantire la sicurezza e la salute dei suoi lavoratori, la Commissione ritiene che la normativa del Regno Unito non sia conforme all’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro.

59. Nonostante i termini in cui sono formulate le conclusioni del ricorso, si evince chiaramente dal contenuto delle memorie depositate dalla Commissione e dall’intero dibattito sviluppatosi nel corso della procedura scritta e dell’udienza che detta istituzione non contesta la legittimità della clausola controversa sotto il profilo della sua capacità di incidere sull’ampiezza dell’obbligazione datoriale di sicurezza, ma sotto il diverso profilo della sua idoneità ad operare come limite della responsabilità del datore di lavoro per gli eventi lesivi della salute dei lavoratori che si verificano nella sua impresa.

60. Chiaramente i due profili di possibile illegittimità sono inscindibili qualora si consideri che l’art. 5, n. 4, della direttiva quadro, letto isolatamente o congiuntamente al n. 1, definisca la portata della responsabilità del datore di lavoro che discende dall’inosservanza dell’obbligazione datoriale di sicurezza, mentre restano separati qualora si ritenga che detta disposizione abbia inteso tracciare i contorni di una responsabilità del datore di lavoro più ampia.

61. Occorre quindi valutare se, come suggerisce il Regno Unito, vi sia coincidenza tra la portata dell’obbligazione datoriale di sicurezza e l’estensione della responsabilità del datore di lavoro che emerge dalle pertinenti disposizioni della direttiva quadro, ovvero se, come sostiene la Commissione, detta responsabilità copra le conseguenze di ogni evento dannoso per la salute dei lavoratori − con la sola eccezione dei casi previsti dall’art. 5, n. 4 −, indipendentemente dalla possibilità di imputare detto evento e dette conseguenze ad una qualche negligenza del datore di lavoro nella predisposizione delle misure preventive.

2. Sull’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro

62. La Commissione e il Regno Unito muovono da due diverse interpretazioni dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro. La tesi della Commissione si fonda su una lettura di tale disposizione in termini principalmente di responsabilità del datore di lavoro per i danni causati alla salute dei lavoratori, mentre il Regno Unito muove da un’interpretazione della medesima disposizione in termini essenzialmente di obblighi che incombono al datore di lavoro nella predisposizione delle necessarie misure preventive.

63. La tesi interpretativa sostenuta dal Regno Unito si basa su una lettura testuale dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro. La Commissione muove invece sostanzialmente da un’interpretazione sistematica di tale disposizione, evidenziando in particolare le interrelazioni tra gli enunciati dei nn. 1 e 4 dell’art. 5.

64. Non v’è dubbio che in una prima fase d’interpretazione dell’art. 5, n. 1, fondata sul dato testuale, non sia possibile attribuire a tale disposizione altra funzione che quella di identificare un soggetto e di porre a carico di quest’ultimo un obbligo, il cui oggetto consiste nel garantire la tutela di un bene giuridico anch’esso determinato.

65. Sotto tale profilo, detta disposizione esprime un precetto che assume tradizionalmente il ruolo di principio cardine delle legislazioni in materia di tutela della sicurezza sul lavoro: l’identificazione del datore di lavoro, nella sua duplice veste di titolare del rapporto giuridico di lavoro e organizzatore dei fattori di produzione [v. art. 3, lett. b) della direttiva quadro], quale principale debitore dell’obbligazione di sicurezza.

66. Tuttavia, ove da un’interpretazione che muove dal solo testo della disposizione in esame si passi a considerare questa nel contesto in cui si inserisce, appare difficile non leggere l’enunciato contenuto nell’art. 5, n. 1, come volto non solo ad affermare l’obbligo generale di sicurezza del datore di lavoro, ma altresì a tracciare i confini del regime di responsabilità minima cui quest’ultimo deve essere soggetto, nella sua veste di debitore dell’obbligazione di sicurezza, qualora si verifichino eventi pregiudizievoli per la salute dei lavoratori.

67. Determinanti in tal senso non appaiono tanto le disposizioni dei successivi nn. 2 e 3 dell’art. 5 quanto piuttosto l’enunciato del n. 4, primo comma, del medesimo articolo.

68. In effetti, per quanto rinviino espressamente al concetto di responsabilità, le disposizioni contenute nei nn. 2 e 3 dell’art. 5 possono essere interpretate come precetti volti a precisare la natura e la portata dell’obbligo enunciato al n. 1, sancendone la non trasferibilità a soggetti diversi dal datore di lavoro sui quali, a seguito di delega di quest’ultimo (art. 5, n. 2) o per espressa previsione di legge (art. 5, n. 3), gravano oneri specifici in materia di organizzazione delle attività di protezione e prevenzione o, più in generale, di salvaguardia della sicurezza e della salute durante il lavoro. Tali disposizioni si limitano peraltro a richiamare la responsabilità (o meglio gli obblighi) del datore di lavoro con riferimento unicamente all’attività di prevenzione di eventi idonei a ledere il bene giuridicamente tutelato.

69. Per contro, l’art. 5, n. 4, primo comma, si riferisce espressamente al regime di responsabilità del datore di lavoro per le conseguenze di eventi pregiudizievoli per la salute dei lavoratori.

70. Interpretando a contrario il dettato dell’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro ne risulta necessariamente affermato il principio secondo cui gli Stati membri non sono legittimati a escludere o limitare la responsabilità del datore di lavoro per danni derivanti da fatti o eventi non ricompresi nella casistica descritta da detta disposizione.

71. Dall’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro sembra effettivamente emergere l’intenzione del legislatore di proporre le linee di un modello comune di imputabilità del danno alla salute dei lavoratori, modello che appare a prima vista prescindere dal criterio della colpa e avvicinarsi piuttosto a quello di una responsabilità espressa in termini oggettivi.

72. Occorre tuttavia verificare più in profondità la correttezza di tale interpretazione, sostenuta con vigore dalla Commissione.

73. A tale proposito, ritengo preliminarmente opportuno precisare che una lettura delle disposizioni della direttiva quadro che ravvisi nella responsabilità oggettiva del datore di lavoro una componente del regime comunitario di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori si potrebbe giustificare, a mio avviso, unicamente in base ad un’interpretazione in tal senso dell’art. 5, n. 4.

74. La tesi della Commissione secondo la quale tale lettura sarebbe possibile già sulla base dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro non mi sembra invece condivisibile.

75. In effetti, come si è accennato sopra, quest’ultima disposizione si limita a sancire l’obbligo di garanzia che incombe al datore di lavoro, da intendersi principalmente come obbligo preventivo, mentre nulla dice sulla responsabilità che grava sul soggetto obbligato nell’ipotesi in cui si verifichi un evento lesivo del bene tutelato attraverso la previsione di detto obbligo.

76. È certamente vero che tale disposizione contiene, implicitamente, anche un precetto relativo alla responsabilità, dato che l’imposizione di un obbligo senza la previsione di una qualche forma di responsabilità nel caso di inosservanza dello stesso ridurrebbe inevitabilmente le disposizioni che sanciscono detto obbligo a mere dichiarazioni programmatiche, laddove, invece, la natura prescrittiva degli obblighi previsti dalla direttiva quadro emerge chiaramente dall’art. 4, n. 1, il quale impone agli Stati membri di «adotta[re] le disposizioni necessarie per garantire che i datori di lavoro (…) siano sottoposti alle disposizioni giuridiche necessarie per l’attuazione della presente direttiva».

77. Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene la Commissione, mi sembra difficile, anche a voler prescindere dal dato testuale di tale disposizione per interpretarla alla luce del contesto in cui si inserisce, poter affermare che l’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, nel porre espressamente un obbligo giuridico a carico di un soggetto, abbia inteso altresì, implicitamente, imputare al medesimo soggetto una responsabilità più ampia rispetto a quella ricollegabile all’eventuale inosservanza di detto obbligo. In altri termini, non ritengo che dal solo enunciato di tale disposizione si possa desumere l’assoggettamento del datore di lavoro a un obbligo, di natura essenzialmente preventiva, e, al contempo, a un regime di responsabilità oggettiva − e quindi indipendente dall’imputabilità al soggetto obbligato di una qualsivoglia colpa o negligenza nell’apprestamento delle misure di prevenzione − per gli eventi lesivi del bene giuridico che si mira a tutelare attraverso l’imposizione di detto obbligo.

78. Resta dunque da verificare se la tesi della Commissione, in base alla quale le disposizioni della direttiva quadro obbligano gli Stati membri ad assoggettare il datore di lavoro ad un regime di responsabilità oggettiva in caso di eventi pregiudizievoli per la salute dei lavoratori, possa fondarsi sul solo art. 5, n. 4, primo comma, di detta direttiva.

79. In base a tale disposizione, la direttiva quadro «non esclude la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esclusione o la diminuzione della responsabilità dei datori di lavoro per fatti dovuti» a determinate circostanze o eventi.

80. A mio avviso, diversi elementi, tratti sia da una lettura testuale che storica della disposizione in esame, militano contro un’interpretazione della stessa nel senso suggerito dalla Commissione.

81. In primo luogo, la formulazione della disposizione mi sembra difficilmente conciliabile con il significato e la funzione che si dovrebbero ricollegare all’enunciato in essa contenuto, qualora si volesse interpretarlo nel senso richiesto dall’istituzione ricorrente.

82. Sotto tale profilo, la frase «[l]a presente direttiva non esclude la facoltà degli Stati membri» appare destinata a introdurre un chiarimento circa la portata delle disposizioni della direttiva − e, correlativamente, circa il margine di manovra degli Stati membri nella trasposizione delle stesse in diritto nazionale − piuttosto che a fondare, in base ad un’interpretazione a contrario della disposizione in esame, l’obbligo da parte di questi ultimi, non espressamente né implicitamente contemplato da altre disposizioni della medesima direttiva, di prevedere nei relativi ordinamenti un regime di responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

83. In secondo luogo, la possibilità di interpretare la disposizione dell’art. 5, n. 4, primo comma, nel senso auspicato dalla Commissione lascia adito a dubbi altresì sotto il profilo della tecnica normativa cui il legislatore comunitario avrebbe fatto ricorso.

84. Appare, infatti, poco plausibile che l’opzione in favore del principio della responsabilità oggettiva del datore di lavoro nell’ambito del sistema comunitario di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nonché l’armonizzazione dei regimi nazionali di responsabilità che da tale opzione discenderebbe debbano essere desunte a contrario da una disposizione che si limita, esplicitamente, a dar conto della facoltà degli Stati membri di limitare o escludere la responsabilità del datore di lavoro in ipotesi particolari. Un tale modo di procedere del legislatore comunitario appare tanto meno plausibile se si considera che alcuni Stati membri, come ad esempio il Regno Unito, hanno poca familiarità con forme di responsabilità senza colpa.

85. In terzo luogo, la portata dell’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro risulta notevolmente ridimensionata da argomenti interpretativi tratti dalla genesi di detta disposizione.

86. A tale proposito, emerge dal fascicolo che il n. 4 dell’art. 5 è stato inserito nel testo della direttiva quadro per rispondere alle richieste avanzate dalle delegazioni britannica e irlandese nel corso del dibattito sorto in seno al Consiglio sul progetto della direttiva quadro.

87. In particolare, risulta dalla documentazione prodotta dal Regno Unito, relativa alla riunione del 21 e 22 giugno 1998 del gruppo di lavoro sulle questioni sociali, che in tale occasione le delegazioni britannica e irlandese avevano sollevato la questione dei problemi che la trasposizione della direttiva avrebbe creato nei rispettivi paesi qualora le disposizioni di quest’ultima, nel prevedere gli obblighi posti a carico dei datori di lavoro, avessero mantenuto la formulazione rigida proposta dalla Commissione.

88. In sostanza detti Stati membri facevano valere che nel settore della sicurezza e della salute dei lavoratori i giudici britannici e irlandesi, contrariamente ai giudici dei sistemi di civil law, non hanno alcun margine di flessibilità nell’interpretare il diritto scritto. Di conseguenza la formulazione in termini assoluti di gran parte degli obblighi gravanti sul datore di lavoro accolta nel progetto di direttiva avrebbe irrigidito indebitamente l’applicazione nei paesi di common law delle prescrizioni della direttiva quadro. Essi proponevano quindi l’introduzione nelle pertinenti disposizioni del progetto di direttiva di una clausola di flessibilità del tipo SFAIRP, che già figurava nelle cosiddette direttive di «prima generazione».

89. Tra le possibili soluzioni prese in considerazione al fine di rispondere alle esigenze espresse dalle delegazioni britannica e irlandese (10) si decise di optare per l’introduzione di una clausola generale che prese la forma dell’art. 5, n. 4.

90. Nel ricorso, la Commissione ricorda che in una dichiarazione congiunta del Consiglio e della Commissione, iscritta al processo verbale della riunione del Consiglio del 12 giugno 1989, si precisava che l’art. 5, n. 4, della direttiva quadro perseguiva lo scopo di «contribuire a risolvere i problemi giuridici dei paesi di diritto anglosassone» e che esso non legittimava, in sede di trasposizione della direttiva negli ordinamenti nazionali, «deroghe a livello comunitario di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori».

91. L’art. 5, n. 4, è stato dunque inserito nella direttiva quadro in esito al dibattito sorto in seno al Consiglio circa il modo in cui risolvere i problemi che la formulazione in termini assoluti dell’obbligazione datoriale di sicurezza avrebbe posto nei sistemi di common law, tenuto conto dell’obbligo di interpretare testualmente il diritto scritto che incombe ai giudici in tali ordinamenti.

92. Ne consegue che, anche alla luce di argomenti tratti dall’iter legislativo della direttiva quadro, risulta difficile attribuire alla disposizione contenuta nell’art. 5, n. 4, primo comma, il significato voluto dalla Commissione.

93. Infine, occorre incidentalmente osservare che la tesi dell’istituzione ricorrente sembra altresì incontrare dei limiti nella base giuridica della direttiva quadro, non risultando in effetti evidente se in base all’art. 118 A del Trattato CE − il quale si limita a prevedere l’adozione, mediante direttive, di «prescrizioni minime applicabili progressivamente» − il legislatore comunitario fosse autorizzato a procedere ad un’armonizzazione dei regimi di responsabilità in vigore negli Stati membri.

94. L’insieme degli elementi considerati nei paragrafi 80‑92 supra, se da un lato conduce a respingere la tesi interpretativa sostenuta dalla Commissione, dall’altro consente di avanzare e supportare una diversa interpretazione dell’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro.

95. La genesi della disposizione in esame permette, in particolare, di comprendere in che modo tale disposizione si inserisce nel contesto dell’art. 5 e le interrelazioni che essa intrattiene segnatamente con il n. 1 di tale articolo.

96. Si evince a mio avviso da quanto sopra riportato circa l’iter legislativo della direttiva quadro che l’art. 5, n. 4, primo comma, è stato inserito nel corpo di tale direttiva al fine di chiarire la portata dell’obbligazione datoriale di sicurezza sancita all’art. 5, n. 1 (11), e, conseguentemente, l’estensione della responsabilità derivante dalla sua eventuale inosservanza. Tale chiarimento avviene segnatamente attraverso l’individuazione e la definizione esplicita dei casi nei quali un determinato evento, lesivo della salute dei lavoratori, e le sue conseguenze non sono ricollegabili alla trasgressione dell’obbligazione di sicurezza e non sono quindi imputabili al datore di lavoro a titolo di colpa.

97. In tal senso l’art. 5, n. 4, primo comma, costituirebbe una sorta di clausola interpretativa dell’art. 5, n. 1.

98. Pur muovendo dall’esigenza di interpretare la disposizione in esame coerentemente con la funzione attribuitale dal legislatore comunitario, quale emerge dai lavori preparatori della direttiva quadro, la tesi interpretativa sopra avanzata risulta confermata da elementi tratti dal tenore letterale di detta disposizione, già evidenziati al paragrafo 82 supra.

99. È necessario a questo punto verificare se tale tesi trova altresì conferma nell’interpretazione sistematica dell’art. 5, n. 1.

100. Si è già detto che tale disposizione sancisce l’obbligo che incombe al datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. Occorre a questo punto definire in concreto il contenuto e la portata di detto obbligo, formulato, come si è visto, in termini assoluti.

101. A questo proposito, sono d’accordo con le parti nel ritenere che tale definizione debba essere ricercata alla luce dell’insieme delle disposizioni della direttiva quadro, e segnatamente del suo art. 6, che definisce gli obblighi generali del datore di lavoro, sebbene alcune indicazioni in proposito mi sembra possano trarsi già dalla lettura del testo dell’art. 5, n. 1.

102. In primo luogo, mi pare chiaro che tale disposizione impone al soggetto obbligato un comportamento positivo, consistente nell’adottare misure volte al perseguimento dell’obiettivo di tutela del bene giuridico normativamente identificato nella sicurezza e nella salute dei lavoratori.

103. In secondo luogo, poiché l’obbligo in questione consiste nel «garantire» la tutela di detto bene, siffatte misure devono essere adeguate e sufficienti a tale scopo. In altri termini, stante la formulazione dell’enunciato contenuto nell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, l’obbligo sancito da tale disposizione a carico del datore di lavoro implica, a mio avviso, l’adozione di qualsiasi misura che si riveli necessaria a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in ogni aspetto connesso con il lavoro.

104. Tale conclusione risulta peraltro confermata dall’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva quadro, ai termini del quale «[n]el quadro delle proprie responsabilità il datore di lavoro prende le misure necessarie per la protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (…)».

105. In terzo luogo, la finalità di tutela perseguita dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro impone di interpretare l’obbligo posto a carico del datore di lavoro in chiave essenzialmente preventiva. Tale obbligo si sostanzia dunque, da un lato, nel prevedere e valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori creati dall’attività d’impresa e, dall’altro, nel determinare e predisporre le necessarie misure preventive.

106. L’art. 9, n. 1, della direttiva quadro esplicita il contenuto degli obblighi preventivi che incombono al datore di lavoro nel senso appena precisato. In forza di tale disposizione il datore di lavoro deve «disporre di una valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, inclusi i rischi riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari» [art. 9, n. 1, lett. a)] e «determinare le misure protettive da prendere e, se necessario, l’attrezzatura di protezione da utilizzare» [art. 9, n. 1, lett. b)].

107. Allo stesso modo, nell’elencare i principi generali di prevenzione attraverso i quali viene data concretezza all’obbligazione datoriale di sicurezza, l’art. 6, n. 2, della direttiva quadro dispone che le misure preventive messe in atto dal datore di lavoro devono in particolare mirare a «evitare i rischi» (lett. a), «valutare i rischi che non possono essere evitati» (lett. b), «combattere i rischi alla fonte» (lett. c), «programmare la prevenzione (…)» (lett. g).

108. In quarto luogo, poiché il progresso tecnico e l’evoluzione dei sistemi di produzione possono condurre tanto all’insorgere di nuovi rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori quanto alla diversificazione e al perfezionamento delle misure di protezione, l’obbligazione datoriale di sicurezza deve essere interpretata in senso dinamico e comporta un costante adeguamento alle circostanze idonee a incidere sulla quantità e sull’entità dei rischi cui sono sottoposti i lavoratori nonché sull’efficacia delle misure necessarie a evitare o limitare tali rischi.

109. In tal senso, l’art. 6, n. 2, della direttiva quadro precisa che nell’adottare le misure di prevenzione il datore di lavoro deve «tener conto del grado di evoluzione della tecnica» (lett. e).

110. Emerge, infine, dai criteri generali di prevenzione enunciati all’art. 6, n. 2, lett. b) ‑ il quale, come si è visto, impone al datore di lavoro di «valutare i rischi che non possono essere evitati» ‑ e lett. f) della direttiva quadro ‑ in base al quale il datore di lavoro è tenuto a «sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non è pericoloso o che è meno pericoloso» ‑ che l’obbligazione generale di sicurezza prevista dall’art. 5, n. 1, non si estende fino ad imporre al datore di lavoro la predisposizione di un ambiente di lavoro privo di ogni rischio.

111. Gli elementi di analisi esposti ai paragrafi 102‑110 supra consentono di concludere che, in forza dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, il datore di lavoro è tenuto a prevenire o a limitare, nella misura del possibile e tenuto conto del grado di evoluzione della tecnica, tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori concretamente prevedibili.

112. Tradotto in termini di responsabilità, quanto sopra affermato implica che saranno imputabili al datore di lavoro sia l’insorgenza di rischi prevedibili ed evitabili per la sicurezza dei lavoratori sia le conseguenze di eventi che costituiscono la concretizzazione di siffatti rischi, poiché in entrambi i casi si tratta del risultato di una violazione dell’obbligazione generale di sicurezza come sopra definita.

113. Viceversa, non sarà imputabile a tale titolo al datore di lavoro né il sorgere di rischi imprevedibili e/o inevitabili né le conseguenze di eventi che di tali rischi costituiscono la materializzazione.

114. Ora, le ipotesi di non imputabilità sopra descritte coprono la casistica contemplata nell’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro, mentre le ipotesi di imputabilità descritte al paragrafo 112 supra corrispondono ai casi rispetto ai quali detta disposizione, interpretata a contrario, esclude la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esclusione o la limitazione della responsabilità del datore di lavoro.

115. La tesi avanzata al paragrafo 96 supra risulta dunque confermata dall’interpretazione sistematica dell’art. 5, n. 1, della direttiva quadro.

116. Dall’insieme delle considerazioni che precedono consegue che l’art. 5, n. 4, primo comma, della direttiva quadro deve essere interpretato nel senso che esso definisce la portata della responsabilità del datore di lavoro derivante dall’inosservanza dell’obbligazione generale di sicurezza prevista dal n. 1 del medesimo articolo.

117. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, detta disposizione non consente dunque, né letta isolatamente né congiuntamente con il n. 1 dell’art. 5, di affermare che la direttiva quadro ha inteso istituire la responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

118. Per quanto definita in termini particolarmente ampi, la responsabilità del datore di lavoro risultante dall’art. 5, nn. 1 e 4, di detta direttiva è invece una responsabilità per colpa, conseguente all’inosservanza dell’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro.

119. Tale conclusione non è infirmata dalla formulazione dell’art. 5, n. 4, primo comma, in termini di mera facoltà degli Stati membri di escludere o limitare la responsabilità del datore di lavoro nei casi previsti da tale disposizione. L’opzione del legislatore comunitario a favore di una siffatta formulazione si spiega con la volontà di lasciare gli Stati membri liberi di assoggettare il datore di lavoro ad una responsabilità più ampia rispetto a quella che discende dall’art. 5, nn. 1 e 4, primo comma, della direttiva quadro, una responsabilità cioè che si estende a coprire ogni evento lesivo della salute dei lavoratori, anche qualora nessuna negligenza nell’apprestamento delle misure di prevenzione sia imputabile al datore di lavoro. In tal senso deve essere, a mio avviso, intesa l’ulteriore precisazione apportata dall’art. 5, n. 4, secondo comma, in base al quale «[g]li Stati membri non sono tenuti ad esercitare la facoltà di cui al primo comma».

120. Sulla base delle conclusioni cui sono giunto sull’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro, passo ad esaminare la fondatezza delle contestazioni mosse dalla Commissione nel presente ricorso.

3. Sull’asserita violazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro da parte del Regno Unito

121. Alla luce di quanto fin qui esposto, ritengo che gli argomenti della Commissione muovano da un’erronea interpretazione delle disposizioni della direttiva quadro.

122. Sebbene a mio avviso tale constatazione sia di per sé sufficiente a rigettare il ricorso, mi sembra opportuno svolgere qualche ulteriore riflessione per l’ipotesi in cui la Corte, pur condividendo l’interpretazione di dette disposizioni da me suggerita, dovesse ritenere necessario proseguire l’esame del ricorso e valutare, alla luce di tale interpretazione, la sussistenza dell’inadempimento contestato al Regno Unito.

123. Nelle sue memorie difensive, lo Stato membro convenuto ha più volte sottolineato che l’inosservanza degli obblighi che la sezione 2 dell’HSW Act pone a carico del datore di lavoro è sanzionata penalmente. Secondo detto Stato membro, l’opzione del legislatore britannico a favore di una responsabilità penale per la violazione degli obblighi di prevenzione che incombono al datore di lavoro assicura un più efficiente sistema di tutela ed è perfettamente compatibile con le disposizioni della direttiva quadro, la quale non impone agli Stati membri la previsione di una particolare forma di responsabilità per sanzionare siffatte trasgressioni. Il Regno Unito fa valere, tuttavia, che l’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, di detta direttiva proposta dalla Commissione, qualora avallata dalla Corte, imporrebbe al legislatore britannico l’abbandono di tale opzione non essendo configurabile una responsabilità penale oggettiva.

124. A tale proposito, ritengo necessario precisare che la direttiva quadro, oltre a non imporre agli Stati membri l’adozione di una particolare forma di responsabilità, come correttamente evidenziato dal Regno Unito, non presuppone neanche un’identità di estensione delle diverse forme di responsabilità, civile penale o altro, contemplate dal singolo ordinamento nazionale.

125. In altri termini, se in forza della direttiva quadro gli Stati membri sono tenuti a prevedere un regime di responsabilità del datore di lavoro conforme al modello che emerge dalle disposizioni di tale direttiva, questi ultimi sono liberi sia di scegliere la forma di detta responsabilità sia di prevedere ulteriori forme di responsabilità eventualmente meno estese rispetto a quella prescritta da dette disposizioni. Quindi non sarebbe a mio avviso censurabile la scelta di uno Stato membro che prevedesse una responsabilità civile del datore di lavoro in caso di inosservanza dell’obbligo generale di sicurezza come sopra interpretato e, al contempo, una forma di responsabilità penale limitata, ad esempio, alla sola violazione delle prescrizioni più specifiche della normativa antinfortunistica.

126. Ne consegue che la clausola controversa nel presente giudizio non sarebbe censurabile qualora si dovesse giungere alla conclusione che detta clausola determina, sì, una responsabilità del datore di lavoro meno ampia di quella che si deve ritenere imposta dalla direttiva quadro, ma che essa circoscrive unicamente detta responsabilità in ambito penale e che l’ordinamento britannico contempla una forma di responsabilità civile del datore di lavoro la cui estensione corrisponde invece pienamente al regime di responsabilità voluto dalla direttiva quadro.

127. Ora, se è vero che nel sistema britannico la responsabilità civile del datore di lavoro è contemplata unicamente per la violazione di obblighi puntuali previsti a carico del datore di lavoro da specifiche disposizioni di legge e non per l’inosservanza dell’obbligazione generale di sicurezza enunciata alla sezione 2, paragrafo 1, dell’HSW Act (12), emerge tuttavia dal fascicolo che esiste in common law una forma di responsabilità civile del datore di lavoro per inosservanza del dovere di diligenza nei confronti dei suoi lavoratori.

128. Coerentemente con il presupposto sul quale la Commissione si è fondata circa la natura oggettiva della responsabilità del datore di lavoro prescritta dalla direttiva quadro, detta forma di responsabilità non è stata presa in esame nell’ambito del ricorso.

129. Nell’ipotesi in cui la Corte, pur condividendo l’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, di detta direttiva cui sono pervenuto nella presente analisi, non consideri sufficiente a respingere il ricorso la sola constatazione dell’erroneità dell’interpretazione da cui invece muove la Commissione e ritenga quindi di dover proseguire l’analisi del ricorso, la corretta valutazione della posizione del Regno Unito non può, a mio avviso, prescindere dall’esaminare se la responsabilità civile cui è assoggettato il datore di lavoro in common law sia ampia almeno quanto quella che emerge dalle disposizioni della direttiva quadro. In caso affermativo, infatti, l’inadempimento fatto valere dalla Commissione non sussisterebbe.

130. In effetti, secondo la giurisprudenza, la trasposizione di una direttiva nel diritto interno non esige necessariamente una riproduzione formale e letterale delle sue disposizioni in una norma di legge espressa e specifica, e può trovare realizzazione in una situazione giuridica generale, purché quest’ultima garantisca effettivamente la piena applicazione della direttiva in maniera sufficientemente chiara e precisa (13).

131. Si deve inoltre ricordare che, nell’ambito di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 226 CE, la Commissione è tenuta a dimostrare l’esistenza dell’inadempimento contestato e fornire alla Corte gli elementi necessari alla verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di tale inadempimento, senza che la Commissione possa basarsi su alcuna presunzione (14).

132. Per l’insieme dei motivi esposti, ritengo che, qualora la Corte, pur condividendo l’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro da me suggerita non giudichi tuttavia sufficiente a respingere il ricorso la constatazione dell’erroneità dell’interpretazione da cui muove la Commissione, quest’ultimo debba comunque essere respinto poiché fondato su un’insufficiente analisi del sistema britannico ai fini di valutarne la conformità con le prescrizioni della direttiva quadro.

133. Le conclusioni cui sono fin qui pervenuto muovono dalla premessa, esposta ai paragrafi 57‑59 supra, che il ricorso mira a contestare la legittimità della clausola SFAIRP unicamente sotto il profilo della sua idoneità a circoscrivere l’estensione della responsabilità del datore di lavoro per le conseguenze derivanti da eventi lesivi della salute dei lavoratori in senso contrario a quanto disposto dall’art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro.

134. È dunque a titolo del tutto subordinato, e solo per l’ipotesi in cui la Corte ritenga di interpretare il ricorso come volto a far valere l’illegittimità di detta clausola anche in quanto idonea a limitare la portata dell’obbligazione datoriale di sicurezza enunciata all’art. 5, n. 1, della direttiva quadro, che esaminerò qui di seguito per sommi capi la fondatezza di tale censura.

135. Le riflessioni svolte ai paragrafi 102‑110 supra hanno consentito di delineare i contorni dell’obbligazione generale di sicurezza quali emergono dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro e dalle disposizioni di quest’ultima che contribuiscono a dare concretezza a detta obbligazione.

136. Al paragrafo 111 supra si è affermato che in forza dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro il datore di lavoro è tenuto a prevenire o a limitare, nella misura del possibile e tenuto conto del grado di evoluzione della tecnica, tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori concretamente prevedibili.

137. Ciò implica, in particolare, che l’oggettiva possibilità tecnica di eliminare o ridurre un rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori costituisce il parametro in base al quale valutare in concreto la conformità della condotta datoriale alle prescrizioni che emergono dalla direttiva quadro.

138. Ora, il riferimento nella sezione 2, paragrafo 1, dell’HSW Act alla nozione di «ragionevole praticabilità», in quanto introduce un parametro di valutazione dell’adeguatezza dell’attività preventiva meno rigoroso rispetto alla mera possibilità tecnica, è, a mio avviso, incompatibile con la portata che si deve attribuire all’obbligazione generale di sicurezza prevista dall’art. 5, n. 1, della direttiva quadro.

139. Il test che i giudici britannici sono tenuti ad effettuare nel valutare la conformità della condotta del datore di lavoro alla sezione 2, paragrafo 1, dell’HSW Act implica un giudizio che va al di là della constatazione della possibilità di prevenire il sorgere di un rischio o di limitare la sua entità in base alle possibilità offerte dalla tecnica e consente (rectius impone), anche per rischi concretamente eliminabili, di operare un bilanciamento tra i costi, non solo in termini economici, delle misure di prevenzione, da un lato, e la gravità e l’estensione dei danni che potrebbero derivare per la salute dei lavoratori, dall’altro.

140. Ora, una tale analisi costi-benefici − anche ammesso che, come sottolineato dal Regno Unito, difficilmente conduca, nella pratica, a un risultato favorevole al datore di lavoro − non mi sembra ammissibile in base al sistema comunitario di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, il quale appare accordare prevalenza alla tutela della persona del lavoratore su quella dell’iniziativa economica (15).

141. Ne consegue che, qualora la Corte interpreti le censure formulate dalla Commissione nel senso descritto al paragrafo 134 supra, il ricorso dovrebbe a mio avviso essere accolto.

VI – Sulle spese

142. Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda.

143. Poiché suggerisco alla Corte di respingere il ricorso e atteso che il Regno Unito ha chiesto la condanna della ricorrente alle spese, ritengo che queste ultime debbano essere poste a carico della Commissione.

VII – Conclusioni

144. Per l’insieme delle ragioni suesposte propongo alla Corte di dichiarare :

– Il ricorso è respinto.

– La Commissione è condannata alle spese.



1 – Lingua originale: l'italiano.

2 – GU L 183, pag. 1.

3 – GU C 28, pag. 3.

4 – Ad oggi sono state adottate diciannove direttive particolari sulla base dell'art. 16, n. 1, della direttiva quadro.

5 – Sulla scelta della base giuridica idonea alla regolamentazione di specifici aspetti del settore in esame, v. sentenza 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito/Consiglio (Racc. pag. I‑5755).

6 – V. paragrafo 2, supra.

7 – Emerge dal fascicolo che gli ostacoli al riconoscimento della responsabilità civile dei datori di lavoro per violazione di obblighi specifici derivanti dalle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sono stati definitivamente rimossi, a seguito di interventi della Commissione, con una modifica dei Management of Health and Safety at Work Regulations entrata in vigore il 23 ottobre 2003.

8 – Disposizioni corrispondenti alla sezione 2, paragrafi 1 e 2, del HSW Act sono contenute nella sezione 4, paragrafi 1 e 2, dello Health and Safety at Work (Northern Ireland) Act. 1978.

9 – Il corsivo è mio.

10 – Tali soluzioni consistevano in una dichiarazione congiunta del Consiglio e della Commissione, nella previsione di una clausola generale nel testo della direttiva ovvero nell'inserimento di una clausola speciale nelle diverse disposizioni della stessa, mentre la possibilità di adottare una formulazione differenziata delle pertinenti disposizioni della direttiva quadro nelle diverse versioni linguistiche, soluzione adottata in alcune convenzioni dell'Organizzazione internazionale del lavoro, era stata scartata fin dall'inizio.

11 – In tal senso sembra peraltro averla interpretata anche la Commissione al momento del suo inserimento nel testo della direttiva. In una dichiarazione iscritta al verbale della riunione del Consiglio del 12 giugno 1989, e riportata al punto 25 del ricorso, la Commissione osservava che «il riferimento [che figura nell'art. 5, n. 4, della direttiva quadro] agli eventi eccezionali, le cui conseguenze sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata non può in alcun caso essere interpretato nel senso che esso lascia il datore di lavoro libero di valutare se le misure devono essere applicate, tenuto conto del tempo, delle difficoltà e delle spese che esse comportano».

12 – Per la quale, come si è visto, la responsabilità civile è espressamente esclusa dalla sezione 47, paragrafo 1, dell'HSW Act.

13 – V., in particolare, sentenze 7 gennaio 2004, causa C‑58/02, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑621, punto 26), e 20 ottobre 2005, causa C‑6/04, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I‑9017, punto 21).

14 – V. sentenza 12 maggio 2005, causa C‑287/03, Commissione/Belgio (Racc. pag. I‑3761, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

15 – Diversi elementi in tal senso traspaiono dalla direttiva quadro. Si consideri, in particolare, oltre al tredicesimo ‘considerando’ invocato dalla Commissione, il criterio enunciato all'art. 6, n. 2, lett. d), che impone di «adeguare il lavoro all'uomo».


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