Cassazione Penale, Sez. 4, 22 settembre 2011, n. 34439 - Ribaltamento dell'escavatore dentro l'acqua di un fiume e decesso del lavoratore

 


 

 

 

Responsabilità di due soci accomandatari e legali rappresentanti di una s.a.s. per aver cagionato, uno di questi anche nella qualità di coordinatore per l'esecuzione del piano di sicurezza, il decesso del dipendente A.G., il quale era rimasto vittima di un sinistro verificatosi mentre manovrava una pala meccanica per effettuare lavori di consolidamento della sponda destra e di scavo della sponda sinistra dell'alveo di un fiume.

 

Assolti in primo grado, vengono al contrario condannati in secondo grado - Ricorrono entrambi in Cassazione - Rigetto.

 

La Corte afferma che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure dei ricorrenti non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato.

 

E' sufficiente ricordare il consolidato orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme; orbene, nel caso di specie non può certo definirsi abnorme il comportamento del lavoratore rimasto vittima del tragico infortunio, giacchè deve definirsi imprudente la condotta del lavoratore che sia stata posta in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - oppure rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.

 

Gli accertamenti tecnici svolti - insieme alla logica - consentono di escludere che il sinistro sia derivato da una insensata manovra "suicida" della esperta vittima o da mal funzionamento del mezzo meccanico imputabile a vizio occulto o ad altra improvvisa rottura".

Se è vero, poi, che destinatari delle norme di prevenzione, contro gli infortuni sul lavoro, sono, non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai, giova ricordare, tuttavia, che l'inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza.

 

Nel caso di specie è emerso appunto come la vittima stesse operando senza l'adozione di tutte le necessarie cautele del caso, cautele (come, per fare solo un esempio, la presenza di un capocantiere o di un suo delegato che da terra avesse assistito alle manovre) che avrebbero rappresentato con grado di probabilità prossimo alla certezza, il presidio utile e sufficiente per evitare il sinistro e, soprattutto, il suo esito infausto.


 

 

 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo G. - Presidente
Dott. ROMIS Vincenzo - rel. Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere
Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 


sul ricorso proposto da:
1) A.D. N. IL (OMISSIS);
2) A.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2499/2002 CORTE APPELLO di VENEZIA, del 08/04/2010;
visti gli atti, la sentenza e i ricorsi;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 23/06/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS;
udito il P.G. in persona del Dott. GIALANELLA Antonio che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

udito il difensore avv. FOGLIATA Renzo che ha concluso riportandosi ai motivi del ricorso.

Fatto

 


Con sentenza emessa il 20/10/2001, il Tribunale monocratico di Venezia - Sezione Distaccata di Portogruaro - assolveva D. e A.M. dal reato di omicidio colposo aggravato da violazione della normativa antinfortunistica, agli stessi addebitato con la seguente contestazione: per avere cagionato per colpa generica e specifica - entrambi nella qualità di soci accomandatari e legali rappresentanti della ditta A. Gino s.a.s., di A. Milco & C., ed il A.D. anche nella qualità di coordinatore per l'esecuzione del piano di sicurezza - il decesso del dipendente A.G., il quale, il giorno 21 dicembre 1999, era rimasto vittima di un sinistro verificatosi mentre manovrava una pala meccanica per effettuare lavori di consolidamento della sponda destra e di scavo della sponda sinistra dell'alveo del fiume Tagliamento, in località San Mauretto.

Nella sentenza stessa la dinamica del fatto risultava così ricostruita: intorno alle ore 14 l'A. era stato notato dal collega An.Ce., conducente di uno dei camion che effettuava il trasporto del materiale scavato, mentre era intento ad eseguire i lavori di scavo lungo il fiume; poco dopo, intorno alle 14.10, lo stesso An. si era accorto dell'avvenuto ribaltamento dell'escavatore dentro l'acqua, aveva lanciato l'allarme ed avviato i primi e purtroppo tardivi soccorsi, dato che il povero lavoratore era rimasto imprigionato all'interno della cabina di guida sommersa dall'acqua. Nessuno aveva assistito direttamente all'incidente, che era avvenuto in un momento in cui l' A. lavorava da solo; non era presente neppure A.D., socio accomandatario della ditta, preposto al controllo sull'osservanza delle procedure atte a garantire la sicurezza, che rivestiva anche la posizione di capo - cantiere secondo l'organigramma contenuto nel piano di sicurezza; la vittima - come avrebbe poi stabilito il dr. G., medico dell'ULSS Bassa Friulana intervenuto sul luogo del sinistro per la constatazione della morte - era deceduta per traumatismo multiplo ed annegamento. I Carabinieri di San Michele al Tagliamento avevano svolto indagini ed accertamenti di rito unitamente ai tecnici dello SPISAL, effettuando sopralluoghi, rilevazioni planimetriche e fotografiche; assumendo a verbale le dichiarazioni di persone informate sui fatti ed acquisendo la documentazione pertinente al piano di sicurezza della ditta.


Il Tribunale, nella motivazione della sentenza, ricordava che, secondo le diverse ipotesi formulate dagli inquirenti e dal ct. del P.M. ing. Go., il ribaltamento era stato provocato probabilmente da un eccessivo avvicinamento del cingolo sinistro al bordo del letto del fiume e dalla frana provocata a causa dell'instabilità del terreno, o dal fatto che il mezzo era stato portato in retromarcia dentro l'acqua dove aveva poi trovato un brusco ed imprevisto declivio. Ricordava altresì il giudicante che l'ipotesi formulata dal ct. della difesa M. era nel senso di un errore di manovra - favorito dal fatto che la leva di comando per marcia avanti e indietro era la stessa - da parte del conducente, il quale, invece di inserire la retromarcia, avrebbe inserito inavvertitamente la marcia di avanzamento avvicinandosi troppo al ciglio dello scavo.
Sulla base delle contrastanti risultanze peritali - concludeva il primo giudice -mancava qualsiasi certezza sull'esatta dinamica del sinistro e, nell'impossibilità concreta di stabilire con precisione come e perchè il mezzo condotto dall' A. si fosse ribaltato, valorizzava a favore degli imputati il dubbio in ordine alla prova del fatto che potesse esservi stata, da parte dei datori di lavoro, la mancata adozione di quelle cautele atte ad evitare il verificarsi del sinistro, perchè non era stato chiarito in alcun modo quali misure concrete essi avrebbero dovuto adottare per assicurare la stabilità del mezzo, dato che nessuno aveva potuto stabilire come effettivamente il sinistro si era verificato. Neanche dalla stessa assenza dal cantiere di A.D. - circostanza da considerarsi certa -poteva farsi discendere la responsabilità dell'imputato: e ciò, in quanto mancava la prova che essa avrebbe consentito un intervento idoneo ad evitare l'evento.
Proponevano rituale gravame le parti civili F.L., L., Ma., Mo., A.N. e L.T., prossimi congiunti di A.G., lamentando l'erronea e carente valutazione delle prove da parte del primo giudice: il dato certo - osservavano -era costituito dall'eccessivo avvicinamento dell'escavatore al bordo del fiume e/o dalla mancata predisposizione di misure di sicurezza volte ad assicurare la stabilità del mezzo.
In ogni caso il sinistro era derivato da mancato rispetto della distanza prudenziale prevista dal piano di sicurezza e questo era un fatto certo, mentre poco importava che il rovesciamento fosse stato provocato da smottamento del terreno (come ipotizzato dallo SPISAL, ma non riscontrato dagli accertamenti) o da una diversa pendenza del terreno e dal fatto che il cingolo destro fosse venuto a trovarsi molto più in basso rispetto al sinistro dopo manovra di avanzamento attuata volontariamente dall'operatore. Sostenevano le parti civili appellanti che si poteva escludere l'ipotesi di condotta abnorme dell'escavatorista ed era al contrario ipotizzabile che egli avesse compiuto la manovra azzardata per esigenze di lavoro, in assenza di idoneo fermo meccanico sul ciglio della scarpata o fortificazione attraverso parapetti del ciglio dello scavo, in violazione del piano di sicurezza. Censuravano inoltre la sentenza appellata laddove aveva accertato la mancata presenza del capocantiere A.D., senza peraltro muovergli censure, nonostante la totale carenza di sorveglianza; avrebbe invece dovuto trovare applicazione il principio secondo cui la rilevanza causale dell'omessa sorveglianza non può essere esclusa in base alla sola considerazione che niente avrebbe impedito al lavoratore di compiere la manovra pericolosa, dovendosi presumere che la presenza del preposto l'avrebbe impedita: il datore di lavoro, inoltre, avrebbe dovuto provare di avere compiuto tutto il necessario per assicurare che il lavoro fosse eseguito in conformità al piano di sicurezza.

Pertanto le parti civili chiedevano la riforma della sentenza di primo grado ed il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni.

Nel corso del giudizio di appello, a seguito di parziale rinnovazione del dibattimento, veniva disposta dalla Corte territoriale una perizia tesa ad accertare l'esatta dinamica del sinistro tenuto conto delle contrastanti ipotesi ricostruttive formulate dalle parti e dell'esigenza di condurre verifiche su temi non sufficientemente chiariti, in relazione alle esatte condizioni dei luoghi, alle caratteristiche del terreno, alle modalità di svolgimento dei lavori e funzionamento della pala meccanica.
In esito al dibattimento di secondo grado, la Corte d'Appello di Venezia - ferme restando le statuizioni penali per mancata impugnazione da parte della Pubblica Accusa - riformava l'impugnata sentenza in ordine alle statuizioni civili, condannando quindi gli imputati al risarcimento dei danni in favore degli aventi diritto.

La Corte stessa ancorava il proprio convincimento, così espresso, in particolare alla perizia svolta nel dibattimento di appello, osservando che questa aveva accertato con adeguata attendibilità la dinamica del sinistro ed aveva consentito di escludere una qualunque situazione qualificabile come evento improvviso ed imprevedibile, derivato da condotta assolutamente anomala della vittima o da fattore esterno inquadrabile nel caso fortuito o nella forza maggiore, ovvero in qualunque modo e sotto ogni diverso profilo tale da interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva dei datori di lavoro responsabili per la sicurezza e l'evento: condizione, questa, indispensabile per un esonero da responsabilità, a fronte della posizione di garanzia rivestita e del dovere di approntare ogni cautela utile per prevenire il verificarsi del sinistro, sia in termini di predisposizione di istruzioni e precauzioni, che di controllo sul corretto adempimento delle stesse. E ciò, anche in considerazione del fatto che l'attività cui era addetto il lavoratore era caratterizzata da elevata pericolosità ed alto grado di rischio personale: attività che si svolgeva su terreno instabile, definito dal perito come fluviale di pianura, prevalentemente costituito da sabbie medio sciolte miste a limo; il perito aveva altresì evidenziato che le caratteristiche del suolo erano comunque tali da esigere particolare rigore nell'osservanza della distanza di sicurezza dal ciglio dello scavo. Sottolineava la Corte che la qualità dei rischi e delle insidie era tale per cui si sarebbero potute verificare improvvise emergenze, come quella occorsa al povero A., e con esse la necessità di un immediato intervento in soccorso; di tal che, un tempestivo soccorso avrebbe potuto rivelarsi "salvavita", dato che la cabina dell'escavatore - come evidenziato dalle foto - era rimasta sommersa dall'acqua ad una profondità alquanto ridotta e sarebbe stata facilmente raggiungibile da chi si fosse trovato a vigilare all'esterno, avesse assistito all'incidente e fosse stato in grado di collaborare con la vittima che dall'interno della cabina doveva avere disperatamente tentato di uscire: sul corpo della vittima erano state riscontrate sia le tracce dei probabili ed inutili sforzi fatti per aprire l'abitacolo, sia i reperti tipici della morte per annegamento, a riprova del fatto che l' A. era vivo e vitale quando era stato sommerso dall'acqua; se anche non fosse stato possibile aprire la cabina per le deformazioni subite dalla struttura a causa del ribaltamento, se ne sarebbero potuti infrangere i vetri, eventualmente con mezzo di fortuna quale una pietra o un sasso che certo non mancavano sul posto, come evidenziato da perizia e foto. La Corte di merito, nell'accreditare le conclusioni cui era pervenuto il perito nominato nel dibattimento di secondo grado, sottolineava come il perito stesso non avesse mancato di confrontarsi con le diverse ipotesi che erano state formulate dai consulenti incaricati dalle parti all'epoca dei fatti. I Giudici di seconda istanza sottolineavano che l'elaborato peritale - al di là della considerazione per cui la dinamica del fatto quale ricostruita dal perito (e dalla Corte d'appello descritta analiticamente nella sentenza) non poteva che essere frutto di una rilettura tecnica realizzata secondo il criterio della massima congruenza con le evidenze riportate nella documentazione dell'incidente -offriva in ogni caso la piena certezza che la vittima stava operando senza l'adozione di tutte le necessarie cautele del caso, cautele che avrebbero rappresentato con grado di probabilità prossimo alla certezza, il presidio utile e sufficiente per evitare il sinistro e, soprattutto, il suo esito infausto; avrebbe assunto certamente rilievo la presenza di un capocantiere o di un suo delegato che da terra avesse assistito alle manovre: a ciò doveva aggiungersi che gli accertamenti tecnici svolti - insieme alla logica -portavano ad escludere che il sinistro fosse derivato da una insensata manovra "suicida" della esperta vittima o da mal funzionamento del mezzo meccanico imputabile a vizio occulto o ad altra improvvisa rottura.
Ad avviso della Corte territoriale l'osservanza delle dovute cautele era stata omessa sotto diversi profili, dal momento che l'escavatore aveva operato in uno spazio più ristretto del consentito, in prossimità di e su terreno cedevole non adeguatamente protetto dal rischio di franamenti e cadute, su declivio artificiale avente pendenza di certo superiore a quello naturale. Appariva possibile, se non probabile, che l'omissione delle doverose cautele fosse derivata da ordini impartiti di eseguire i lavori secondo modalità di fatto incompatibili con i tempi più lunghi richiesti dalla osservanza del piano di sicurezza (tant'è che l' A. era stato anche lasciato privo di alcuna assistenza da terra), e doveva ritenersi in ogni caso certo che non era stata esercitata una adeguata e doverosa vigilanza finalizzata ad evitare l'elusione delle prescrizioni contenute nel piano di sicurezza. Osservava la Corte che proprio in relazione alle riscontrate omissioni di cautele, era stato mosso dallo SPISAL, sia a D. che a A.M. - ai sensi del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 169 - il rilievo di non avere adottato le necessarie misure per assicurare la stabilità del mezzo (pala meccanica) in relazione al tipo del mezzo stesso ed era stata impartita la prescrizione di garantire e vigilare che venissero adottate idonee misure per assicurare la stabilità del mezzo durante le fasi di sbancamento sul letto del fiume in relazione al tipo di mezzo usato e alla stabilità del terreno; a A.D. era stata indirizzata inoltre, ai sensi del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, comma 1, l'ulteriore prescrizione di controllare che fossero adottate e rispettate le precauzioni e procedure contenute nel piano di sicurezza in quanto non era stato controllato da parte del coordinatore per l'esecuzione che venissero rispettate le procedure di lavoro e le precauzioni contenute nel piano di sicurezza di cantiere.


Ricorrono per cassazione A.D. ed A.M., con un unico atto di impugnazione sottoscritto dal comune difensore, allegando al ricorso il verbale relativo all'inchiesta infortuni dello S.P.I.S.A.L. e deducendo violazione di legge e vizio motivazionale con argomentazioni che possono così riassumersi:

1) mancanza di certezza processuale in ordine alla sussistenza del nesso causale, alla luce dei canoni interpretativi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 30328/02: la Corte distrettuale avrebbe errato nell'ancorare il suo convincimento alle conclusioni del perito di ufficio nominato nel giudizio di secondo grado, posto che detto perito, a differenza dei consulenti di parte, ha elaborato le proprie valutazioni sulla scorta della rilettura della documentazione dell'incidente; sottolineano i ricorrenti che lo stesso perito si è più volte espresso in termini di plausibilità - dunque, nemmeno probabilità - circa la dinamica dell'infortunio secondo la propria ricostruzione;

2) l'impugnata sentenza sarebbe peraltro nulla per violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. per difetto di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, posto che il fatto risultante all'esito del giudizio (manovra di avanzamento verso il fronte di scavo) risulta diverso da quello (manovra di retromarcia) descritto nel decreto di citazione, con impossibilità per gli imputati di esercitare in concreto il diritto di difesa dal momento che l'ipotesi dell'infortunio dovuto ad avanzamento della pala meccanica verso il fronte di scavo era stata prospettata per la prima volta nell'udienza del giudizio di appello, "-a contraddittorio contingentato - a seguito dell'audizione del perito nel corso della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, deroga al carattere orale dell'appello, ancor più incisiva laddove in primo grado il processo sia stato celebrato nelle forme del giudizio abbreviato" (così testualmente a pag. 3 dell'atto di ricorso);

3) non vi sarebbero nemmeno elementi certi per escludere il malore del lavoratore quale causa dell'incidente, "poichè nulla esclude che dopo il malore che gli aveva fatto perdere il controllo del mezzo e a contatto con l'acqua il lavoratore si fosse ripreso e avesse cercato di liberarsi" (pag. 4 del ricorso);

4) la Corte di merito sarebbe incorsa nel vizio di travisamento della prova avendo dato per scontato che la posizione del mezzo subito dopo l'incidente fosse quella ritratta dalle fotografie, mentre dagli atti emergerebbe che il mezzo sarebbe stato spostato per consentire il recupero del lavoratore;

5) le affermazioni dei giudici di secondo grado -secondo cui il datore di lavoro non avrebbe adottato le dovute cautele -sarebbero assertive non trovando alcun riscontro nel materiale probatorio acquisito; la Corte distrettuale, in presenza di situazioni caratterizzate dal dubbio, avrebbe privilegiato costantemente un'interpretazione contra reum;

6) anche la ritenuta necessità della presenza del capo cantiere, sarebbe argomentazione soltanto apparente "poichè è dato empirico indiscusso che la pala meccanica non operasse in acqua, bensì all'asciutto, e, pertanto, è irrazionale ricollegare la presenza del capo cantiere alla necessità di prevenire un rischio inesistente" (pag. 7 del ricorso).

Diritto

 


I ricorsi devono essere rigettati perchè basati su doglianze che, attraverso considerazioni già compiutamente vagliate dal giudice dell'appello, e pur se dedotte sotto gli asseriti profili di violazione di legge e vizio motivazionale, tendono per lo più ad una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato (Sez. Un. N. 6402/97, imp. Dessimone ed altri, RV. 207944; Sez. Un., ric. Spina, 24/11/1999, RV. 214793; Sez. Un. ric. Jakani, ud. 31/5/2000, RV. 216260; Sez. Un., ric. Petrella, ud. 24/9/2003, RV. 226074), o -a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame"; il che vuoi dire - quanto al vizio di manifesta illogicità - per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico:
ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite di eguale crisma di logicità.
Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi puntuali contenuti motivazionali - quali sopra riportati (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l'infortunio oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell'infortunio, condotta del lavoratore, nesso causale) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti le violazioni di legge contestate agli imputati. Con le dedotte doglianze i ricorrenti, per contrastare la solidità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di seconda istanza, non hanno fatto altro, dunque, che riproporre in questa sede -attraverso considerazioni e deduzioni svolte prevalentemente in chiave di merito - tutta la materia del giudizio, adeguatamente trattata, in relazione ad ogni singola tematica, dalla Corte territoriale.

Al riguardo è sufficiente ricordare il consolidato orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme (Sez. 4, Sentenza n. 40164 del 03/06/2004 Ud. - dep. 13/10/2004 - Rv. 229564, imp. Giustiniani); orbene, nel caso di specie non può certo definirsi abnorme il comportamento del lavoratore rimasto vittima del tragico infortunio, giacchè deve definirsi imprudente la condotta del lavoratore che sia stata posta in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - oppure rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. -dep. 04/07/2007 - Rv. 236991). Se è vero, poi, che destinatari delle norme di prevenzione, contro gli infortuni sul lavoro, sono, non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai, giova ricordare, tuttavia, che l'inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza (cfr. Sez. 4, n. 10121 del 23/01/2007 Ud. - dep. 09/03/2007 - Rv. 236109 imp.: Masi e altro).
Ciò detto in relazione al terzo, quarto, quinto e sesto motivo di ricorso, si impongono ora talune precisazioni in relazione alle questioni più specificamente sollevate dai ricorrenti con i primi due motivi di doglianza.
Quanto alla censura relativa all'asserita violazione del principio di correlazione (artt. 521 e 522 c.p.p.) -oggetto del secondo motivo di ricorso - va sottolineato che le modalità del fatto e le condotte omissive ritenute addebitabili ai due odierni ricorrenti sono state ampiamente dibattute nelle fasi di merito, per cui deve escludersi la configurabilità della eccepita nullità non essendo stata, dunque, in alcun modo compromessa la difesa degli imputati: nella giurisprudenza di legittimità è stato invero affermato che "il precetto dell'art. 521 c.p.p., comma 1, che enuncia il principio della correlazione tra accusa e sentenza, va inteso non in senso "meccanicistico formale", ma in funzione della finalità cui è ispirato, quella cioè della tutela del diritto di difesa; ne consegue che la verifica dell'osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l'accertamento della possibilità per l'imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto" (in termini, "ex plurimis", Sez. 6, n. 618/96 -ud 8/11/95 - RV. 20337; cfr. anche Sez. Un. n. 16 del 22 ottobre 1996, Di Francesco, secondo cui la mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformità tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull'oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa). "Ad abundantiam", va poi posto in rilievo che, nel caso di specie, il reato era stato addebitato agli imputati con una formulazione in cui risultavano contestati anche profili di colpa generica (cfr., in proposito: Sez. 4, n. 4968/96, imp. Bonetti, RV. 205266; Sez. 4, n. 7704/97, ud. 27/6/1997, RV. 208556).
Per quel che riguarda il nesso causale tra la condotta omissiva addebitata e l'evento, i ricorrenti denunciano che la ricostruzione del perito - accreditata dalla impugnata sentenza in quanto ritenuta la più probabile tra le ricostruzioni proposte - non consentirebbe di individuare la reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva, con conseguente violazione della regola dell'"oltre ragionevole dubbio" dettata dall'art. 533  c.p.p. in virtù della quale l'affermazione di colpevolezza deve essere pronunciata solo sulla base di un grado di dimostrazione dei fatti quasi pari alla certezza. Mette conto sottolineare che in materia questa Corte ha avuto modo di intervenire ripetutamente, affermando, e costantemente ribadendo, il condivisibile principio secondo cui "con la previsione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, di cui alla L. n. 46 del 2006, art. 5, che ha modificato l'art. 533 cod. proc. pen., comma 1, il legislatore non ha introdotto un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice, ma ha semplicemente formalizzato un principio già acquisito dalla giurisprudenza, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell'imputato" (in termini, "ex plurimis", Sez. 1, n. 20371 del 11/05/2006 Ud. - dep. 14/06/2006 - Rv. 234111, Imp. Ganci e altro). Orbene, tenendo ben presente detto indirizzo interpretativo, nessuna censura v'è da muovere nè alla terminologia fatta propria dal Giudice a quo nè al suo argomentare in termini di nesso di causalità posto che la Corte distrettuale si è così testualmente espressa: "....l'elaborato tecnico offre in ogni caso la piena certezza che la vittima stava operando senza l'adozione di tutte le necessarie cautele del caso, cautele che avrebbero rappresentato con grado di probabilità prossimo alla certezza, il presidio utile e sufficiente per evitare il sinistro e, soprattutto, il suo esito infausto.

Già si è detto del rilievo che avrebbe assunto la presenza di un capocantiere o di un suo delegato che da terra avesse assistito alle manovre. A questo può aggiungersi che gli accertamenti tecnici svolti - insieme alla logica - consentono di escludere che il sinistro sia derivato da una insensata manovra "suicida" della esperta vittima o da mal funzionamento del mezzo meccanico imputabile a vizio occulto o ad altra improvvisa rottura" (pag. 8 della sentenza).

A fronte di un simile argomentare -ancorato alle risultanze peritali ed a criteri di indiscutibile logicità - i ricorrenti non hanno concretamente indicato quali fossero le prospettazioni alternative ipotetiche di ricostruzione del fatto, di miglior grado di precisione ed attendibilità rispetto a quella sposata dalla Corte di merito e da questa del tutto ignorate nella delibazione del fatto. Nel caso di specie, dunque, da un lato la Corte distrettuale ha posto una spiegazione a fondamento della sua scelta di verosimiglianza in ordine alla ricostruzione del fatto, spiegazione basata sulle risultanze della perizia espletata e sulla complessiva prova logica; dall'altro lato, i ricorrenti hanno contestato tale scelta con argomentazioni diffuse ma generiche, non suffragate da alcuna concreta allegazione idonea a scalfire il percorso argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza.

Infine, neppure possono assumere rilievo, nel caso in esame, le modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006 (cd. Legge Pecorella) all'art. 606 c.p.p., laddove i ricorrenti hanno inteso prospettare il vizio di travisamento della prova.
A fronte dei motivi di ricorso così come formulati, compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se i ricorrenti siano riusciti a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte di merito, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni dei ricorrenti - caratterizzate dal richiamo alle dichiarazioni di testi - non risultano in sintonia con il senso dell'indirizzo interpretativo di questa Corte, secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, occorre allora tener conto che la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un'informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della
L. n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) - nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" - detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell'art. 581 c.p.p., lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente -accanto all'onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell'art. 581 c.p.p -anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice "et similia" (cfr. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l'impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all'esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte della decisione impugnata, e di quella (integrativa) resa all'esito del primo grado di giudizio, a tutti i temi toccati dalla difesa di A.D. ed A.M.. Ma v'è di più, posto che non era sufficiente:

a) che gli atti del processo invocati dai ricorrenti fossero semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità;

b) nè che tali atti fossero astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorreva invece che gli "atti del processo", presi in considerazione dai ricorrenti per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione, fossero "decisivi", ossia - e giova qui ripetere quanto si è avuto già modo di precisare innanzi - autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticolasse l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determinasse al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.

In definitiva: la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all'intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).


Tenendo conto di tutti i principi testè ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure dei ricorrenti, sopra esaminate, non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale i ricorrenti hanno inteso piuttosto sostituire una loro perplessa visione alternativa del fatto: pur asserendo di volere contestare l'omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, i ricorrenti, in realtà, hanno piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.


Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.